Il nomos tecnico del cambiamento

Alla fine degli anni Trenta James Burnham, sociologo politico statunitense non troppo letto nei decenni seguenti, concepisce il progetto di un saggio, The managerial revolution, apparso nel 1941. Tradotto per Mondadori nel 1946, La rivoluzione dei tecnici non preconizza l’avvento di una tecnocrazia radicale: piuttosto, muovendo da un’analisi economica di impostazione trotzkista (dalla quale poi si distacca) affronta il problema dello scollamento tra la proprietà dei mezzi di produzione e la dirigenza dei processi produttivi. Metodi, condizioni e problemi sempre più opachi rispetto alle classiche impostazioni politiche, portano gradualmente alla ribalta della scena pubblica una classe di tecnici (in inglese manager: ‘gestori’, ‘amministratori’) altamente specializzati che si collocano a mano a mano in un disegno sociale complessivamente elitista o, per usare una parola oggi in voga, postdemocratico.

Non è una visione apocalittica, determinata com’è da coordinate esplicite e razionali, e punteggiata di analisi aderenti al piano storico-fattuale. Colpisce invece l’esplicita convergenza tra le due principali accezioni del termine ‘tecnica’: il campo economico e amministrativo da un lato, quello delle applicazioni scientifico industriali dall’altro. Il ‘tecnico’, nel suo doppio valore di nome e di aggettivo, rappresenta quindi tanto il soggetto (individuale o collettivo, centralizzato o diffuso) incarnato di volta in volta dalle scansioni degli ‘atti’, dei ‘princìpi’ e più in generale delle pratiche adottate dagli apparati del controllo e della gestione sociale, quanto il valore astratto a cui ci si riferisce. In quest’ultima accezione può essere considerato un nomos.

L’idea di un nomos tecnico del mondo non è certo nuova. Viene anzi sviluppata in quegli stessi anni da Carl Schmitt, che muove da posizioni del tutto opposte rispetto a Burnham per giungere a conclusioni stranamente consonanti, per esempio in Terra e mare (1942) e soprattutto nel Dialogo sul nuovo spazio (1958). Il giurista di Plettenberg ridisegna come è noto la nozione di nomos (con un’etimologia quantomai controversa) in quanto ‘universo normativo’ ancorato alla dimensione spaziale degli ordinamenti sociali. Il suo problema è lo sradicamento della persona dalla terra operato dalla mediazione tecnologica: al riguardo si è perfino arrivati a dire che lo Scmitt del dopoguerra prefigura un’analisi (critica) della globalizzazione e della società digitale.

Di là da certe forzature, resta comunque il fatto che in anni più recenti anche Emanuele Severino, con sensibilità marcatamente ‘continentale’, ripropone il problema della tecnica come ordinamento del mondo destinato a prevalere su tutti gli altri, inclusi i mercati e la ricchezza mobiliare oggi dominanti. Anche se non lo menziona esplicitamente, nella lunga transizione sembra di poter leggere l’avvento di un nomos tecnico che ne è, per così dire, il cammino e il valore.

Si tratta di questioni immense che ovviamente richiederebbero una trattazione approfondita e sulle quali in poche battute non si può fare più che un’operazione ‘evocativa’. Concludiamo quindi in modo interlocutorio, tuffandoci in una di quelle favole che eccitavano l’entusiasmo di umanisti come Ficino e Pico, non meno che di filosofi come Bruno o Campanella.

Narra la leggenda che in ere dimenticate ci fu una città incantata, Adocentyn, i cui abitanti erano resi ‘virtuosi’ per necessità, tramite la presenza di immagini animate dei loro idoli, le quali controllavano le condotte degli uomini racchiusi nelle mura impedendo loro per mezzo del potere fascinatorio di commettere atti riprovevoli. Non si tratta di un’anticipazione orwelliana ma di un mito o allegoria del buon governo. Un mito intrinsecamente pessimista, se dobbiamo concluderne che le azioni umane possono seguire la ‘virtù’ solo a patto di escludere la libertà di scelta.

Si obbietterà: la tecnica è appunto il dominio di questa libertà in ogni campo, governo e politica inclusi. Si tratta chiaramente di ipotesi, eppure la risposta potrebbe non essere tanto ovvia. Una tecnica che modella le regole a sua immagine non può lasciare intatti anche i princìpi che delle regole saranno la cornice. E da Searle (anzi: da Goedel) in avanti ben sappiamo quanto sia difficile sondare le eventuali intenzionalità dei sistemi ‘intelligenti’. Che lo si voglia o no, la tecnica è ancora una volta la messa in discorso di un soggetto umano, esposto all’errore e alla corruzione in quanto tale, e tanto più solo (ma non pertanto libero) in quanto posto a tu per tu con le sue immagini riflesse, con i suoi personalissimi baratri, con le sue ossessioni e millenarie paure.



Riccardo Bertolotti dopo una formazione giuridica ha conseguito il dottorato in semiotica con Isabella Pezzini occupandosi prevalentemente dell'approccio semiotico all'ambito giuridico. Ha pubblicato articoli su riviste specializzate e curato volumi sui rapporti tra diritto, spazi urbani e visione, e su temi legati all'identità culturale. Ha partecipato a incontri scientifici e soggiorni di ricerca (San Paolo) intervenendo a numerosi convegni internazionali in Europa e America Latina. Da molti anni si occupa inoltre di letteratura italiana contemporanea con presentazioni, interventi in convegni e pubblicazioni apparse in riviste e in volume. Cura privatamente il fondo della scrittrice italoamericana Giosi Lippolis ed è membro del Lars (Laboratorio romano di semiotica, Università Sapienza). Ha collaborato con periodici letterari on-line e cartacei.


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