"La follia sulla scacchiera della società"

IV SENTIERO: Il tempo vissuto come cortocircuito

PATOLOGIA, COLPA E RI-FLESSIONE

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  1. Il vissuto temporale come cortocircuito: passione, patologia e auto-sentimento

Il vissuto temporale è sempre, un cortocircuito rispetto al tempo circolare continuo quale circonferenza di momenti tolti (Chrónos) e al ritorno-sempre ogni volta di nuovo dell’Âion che gioca il mondo costituendolo e ricostituendolo ogni volta daccapo. Quella che nelle Lezioni di Husserl, affiorava come un’aporia, è invece – nella direzione offerta da Eraclito e da Nietzsche – solo la manifestazione di questo cortocircuito. Non è che il raggio intenzionale della coscienza si trova ad essere curvato dal tempo, bensì è il tempo stesso una curva che il raggio segue e costituisce.
L’atto precostituito e costituente del tempo interiore produce un cortocircuito, giacché si muove per curve e circolarità: l’atto associa e dissocia qualcosa che rimane continuo, che non può non esser continuo, allo stesso modo in cui, ad esempio, il corso della vita non si arresta se il bambino interrompe il gioco e poi lo riprende o se il fuoco si accende e si spegne; vi è qualcosa in ogni caso di continuo ed eterno di cui noi riproduciamo una circolarità sempre imperfetta.
Nell’esempio della passeggiata, ho indicato che, nell’atto intenzionale, l’io e la cosa tramontano insieme. Vi è un cadere, un cedere (che è proprio del succedere, dell’accedere e del retrocedere) che avvolge l’io e la cosa insieme nell’atto che le tiene unite, associate (noema a noesis), quasi un vincolo involontario che però al tempo stesso libera, giacché libera l’essere come divenire e fa riverberare il divenire stesso come ancora di nuovo diveniente; e, dunque, pur cedendo, concede la potenza del ritorno.
L’io così – ogni volta – si altera secondo il tempo (Chrónos) e come tempo (Âion) secondo una tensione costante.

L’emotività è traccia di questa alterazione, in cui cui l’Io si trova costantemente sbilanciato, al pari delle cose finite, dotate di un peso, capaci di produrre la propria ombra, di cadere e di accadere. In questa traccia riecheggia quello che i greci designavano come pathos, che è passione, affezione, ma anche qualità o capacità di produrre quel movimento in ordine al quale qualcosa muta in senso qualitativo (come diciamo che un albero è capace di bruciare e dunque di ridursi in cenere). Il pathos esprime una una capacità di alterazione qualitativa che compete (per Aristotele) alle cose in movimento (pàthe tõn kinoumènõn)1. In quanto qualità del movimento esso riguarda – per essenza Chrónos – al punto che Aristotele definisce Chrónos anche come passione o affezione del movimento (pathòs kinèseos) secondo la prospettiva del prima e del dopo2.

L’io rispetto alla passione (e ai suoi derivati) è passivo secondo un’articolazione che è – in questo senso – l’opposto di quella che compete all’azione. Le passioni portano infatti con sé una forza di capace di trascinare l’io nel movimento (e nella successione di Chrónos) – e in questo senso, come abbiamo detto, la volontà di potenza è per Nietzsche una volontà di passione che configura quell’eroismo del sentire proprio dell’oltre-uomo3.

Nell’emotività, dunque, l’io più che un movimento, è un mosso (la psiche stessa è un mosso), agitato da passioni (oltre che da emozioni, impulsi pulsioni) che si strutturano secondo Chrónos.

Le passioni si succedono per fluttuazioni e transizioni – mescolandosi tra di loro, passando l’una nell’altra, trasfigurandosi e rovesciandosi in una zona non chiara dove l’io e l’altro – proprio in senso temporale – divengono intrecciandosi: esse sono (nel senso che ad esempio Balibar e, per certi versi, anche Simondon traggono da Spinoza) transindividuali.

Ora, non vi è qui lo spazio per indagare questo territorio, che ho analizzato altrove4.

Ciò che però rileva, ai fini della nostra ricerca, è che la «logica della passioni» è il rovescio della «patologia», in quanto nelle patologie psichiche il logos viene utilizzato – nel senso che vedremo – per bloccare il movimento (nel tentativo – fallimentare – di annientare Chrónos – e il flusso vivente che riconduce all’Âion) riducendo così la passione a impulso – e a patimento.

Il pato-logico è proprio il tentativo di negare il movimento, di ridurlo, di scomporlo, di sezionarlo e dominarlo in modo da comprimere il più possibile il divenire nell’essere: ma noi, come direbbe Sartre, non siamo un essere compresso e compatto (come un albero o una pietra), ma– al contrario – siamo una «decompressione d’essere» e ogni tentativo di manipolare e di truccare il gioco (essere e non essere quel che appariamo d’essere), di spacciarci come un essere definito, costituisce una malafede5.

La pazzia, per Hegel, deriva da quello che lui definisce Selbstgefühl, «auto-sentimento» o «sentimento di sé»6: uno starsi a sentire e, al contempo, un sentirsi statico – fermo – auto-sussistente. L’auto-sentimento nasce quando, afferma Hegel, il soggetto pone determinazioni particolari come suoi sentimenti entro di sé immergendosi nelle sensazioni fino al punto da sillogicizzarsi con sé stesso, fino cioè al punto di arrivare a concludersi. In questo sentirsi, afferma Hegel, la vita sentimentale diviene pura forma. Nell’auto-sentimento infatti abbiamo un assoluto sprofondare dentro una particolarità: solo che tale particolarità, anziché essere dinamica e transindividuale come nella passione, viene elevata dall’individuo come universale della propria soggettività: l’individuo vi si riconosce e vi si sente. Tale particolarità è anelastica perché costituisce la premessa della propria immediata auto-sensazione. Allorché però sorge una contraddizione tra questa particolarità e la totalità individuale, nasce la pazzia7.

La pazzia per Hegel nasce perché la contraddizione, potremmo dire, è statica. Il soggetto pretende di autosentirsi in modo immediato (senza mediazioni).

Il conflitto è tra – potremmo dire – la parte (arbitrariamente universalizzata come Sé) e il tutto, l’interezza (concreta e continua) della vita che fluisce e rifluisce (Âion).

In questo senso, il dolore psichico è paradossalmente il modo in cui si libera la contraddizione del divenire; lì riaffiora l’Âion, non però come bambino-che-gioca ma come giocattolo rotto, in cui la passione s’è capovolta in patimento8.

Nelle psicopatologie, come vedremo, il cortocircuito temporale si fa dunque più elevato ed è dall’esito dello scontro (il patire) che noi possiamo risalire alla genesi (che è appunto temporale ed è del tempo) al cortocircuito originario.

Ora, è chiaro che i nostri vissuti tradiscono, a vario modo e in diversi gradi, un tale cortocircuito, Ma esso è ancora più accentuato se si ritiene che Chrónos sia – o debba essere – rettilineo. Pensare che Chrónos non solo prevalga e disponga il senso delle cose, ma sia anche, per di più, rettilineo, fa risaltare in questo senso ancor di più il cortocircuito (e, al tempo stesso, svela che tale cortocircuito è solo lo svelamento della circolarità di Chrónos rispetto alla quale, quella dell’Âion agisce come circolarità latente). Ma è – ancor di più – come accennato, il tentativo stesso di addomesticare o annullare Chrónos, sovrapponendo alla sua linea, la logica (dell’essere o dello spazio) che fa risaltare, ancor di più, il contrasto di tale cortocircuito.

Ecco che converrà allora iniziare da casi in cui tale contrasto appare più evidente (casi connessi alle psicopatologie) per poi tornare all’analisi della struttura del vissuto temporale.

2. Cortocircuito del tempo e patologia: il tempo vissuto di Minkowski

Il corto-circuito tra passato e futuro, attraverso l’incerta curva del presente, avviene costantemente. Ciò vale soprattutto se – come detto – ci poniamo dal punto di vista di un tempo che si presume – o si pretende – rettilineo.

Il fatto è che, talvolta, tale corto-circuito assume delle forme per le quali la logica non assimilata (ed anzi respinta) del divenire, viene piegata a quella apparentemente più rassicurante dell’essere (o dello spazio dominante sul tempo) per poi essere subita sulla sfera emotiva delle passioni (appunto il pathos che diventa logos: patologico).

In questo senso, Minkowski, psichiatra allievo di Husserl, sfruttando anche le nozioni sul tempo di Bergson, così come i lavori di Bleuler, Kraepelin e Strauss, sostiene che tutte le patologie psichiatriche derivano dal tempo vissuto, vale a dire dai modi di assumere, assimilare, il tempo interiore nel flusso vivente della coscienza9.

Sul punto le sue analisi sono ricche e vaste, nel delineare la schizofrenia, l’autismo, la depressione maniaco-depressiva e quella malinconica: per ognuna di tali patologie vi sarebbero una disfunzione dei modi in cui il tempo verrebbe vissuto, così perdendo il suo lancio originario, lo slancio vitale (che Minkowski intende sulla linea di Bergson)10 o di aderenza rispetto al vivere. Il punto interessante è che, pur con qualche indecisione, Minkowski assume la nozione del tempo, a partire da Bergson e da Husserl, essenzialmente nel senso dell’Âion:

“Che cos’è dunque il tempo?

È, per dirlo con Bergson, questa «massa fluida», quest’oceano mobile, misterioso, grandioso e possente che vedo attorno a me, in me, in una parola ovunque, quando medito sul tempo. È il divenire.

Riconosco di designarlo in modo approssimativo e molto imperfetto quando dico che il tempo scorre, passa, fugge in modo irrimediabile, ma anche che avanza, progredisce, va verso un avvenire indefinito e inafferrabile.

Così facendo mi esprimo in modo imperfetto. È vero. Ma questa imperfezione non dipende dall’insufficienza dei mezzi di cui dispongo, bensì dal fatto che il divenire fa in modo di non essere espresso. Nella sua potenza misteriosa esso non lascia emergere nessun isolotto al quale appigliarsi per abbozzare un giudizio o una definizione sul suo conto. Ricopre con i suoi flutti tutto ciò che potremmo essere tentati di opporgli; non conosce né soggetti né oggetti, non ha parti distinte, né direzione, né inizio, né fine. Non è reversibile né irreversibile. È universale e impersonale. Risulta caotico. E purtuttavia è vicinissimo a noi, così vicino da costituire la base stessa della nostra vita. Diremmo quasi che è sinonimo di vita, nel senso più ampio del termine”11

Il sovra-incidersi di tempo e vita, il confondersi di reversibilità e irreversibilità (il suo essere contro-verso), il non avere né inizio né fine, né parti distinte: tutto questo segna il carattere dell’Âion come fondo originario (e Minkowski cita espressamente il “pànta réi” di Eraclito) da cui la conflittualità di Chrónos prende avvio; in questo senso “il divenire elementare non ammette alcun substrato preciso”12.

E così, Minkowski, coerentemente, arriva a contestare che sul divenire si sia sovrapposta la logica dell’essere rendendo – pericolosamente – irreale il tempo: “adattato all’essere, il pensiero si dimostra incapace di adattarsi al divenire”13.

E così, lungo già ricerche precedenti elaborate allo stato di abbozzo14, Minkowski delinea la sua convinzione di partenza:

“Oggi più che mai sono persuaso che tutta una serie di manifestazioni psicopatiche si lasciano comprendere e approfondire attraverso la prospettiva del fenomeno del tempo e che il confronto costante del normale e del patologico considerati da questo punto di vista è la strada principale, per non dire l’unica, per ampliare a sufficienza i nostri studi relativi a questo fenomeno. Il patologico, mostrandoci che il fenomeno del tempo e probabilmente anche quello dello spazio si situano e si organizzano nella coscienza malata diversamente da come lo concepiamo di solito, mette in rilievo caratteri essenziali di questi fenomeni che, proprio a motivo della poca distanza che ci separa da essi nella vita, passerebbero inosservati o sarebbero considerati del tutto naturali”15.

Tuttavia, giudica Minkowski, la psicologia è inadatta a svolgere un’indagine sul tempo in quanto non rinuncia né ad assumere il tempo come successione, né ad assegnare alla memoria il ruolo – del tutto opinabile – di facoltà ricostruttiva della successione stessa16.

E ancora:

“Quando, nella vita ordinaria, si parla di tempo, istintivamente tiriamo fuori l’orologio o guardiamo il calendario, come se tutto si riducesse, in rapporto al tempo, nell’assegnare a ogni avvenimento un punto fisso e nell’esprimere poi in anni, mesi e ore la distanza che separa un avvenimento dall’altro. La clinica adotta lo stesso atteggiamento. Ci parla del disorientamento nel tempo e, per constatarlo, ci fa interrogare il malato circa la sua data di nascita, la durata della sua permanenza all’ospedale o la data del giorno. Nello stesso senso parla di bradipsichia (degli epilettici) considerando la lentezza delle loro reazioni in confronto a quelle dell’individuo normale, lentezza che si potrebbe eventualmente misurare con l’orologio ed esprimere in minuti e in secondi. Ancora, è la stessa concezione abituale del tempo che si ritrova alla base delle ricerche sperimentali sulla facoltà di valutare, in condizioni diverse, durate misurabili, e sulle differenze che questa facoltà può presentare nei casi patologici. È evidente che in questi casi si tratta di tempo misurabile o, per dirla con Bergson, di tempo assimilato allo spazio. Lo dimostrano d’altronde espressioni come «misura», «distanza», «intervallo», applicate indifferentemente al tempo e allo spazio. D’altra parte il disorientamento nel tempo va, in patologia, di pari passo con un disorientamento nello spazio, come se entrambi non fossero che l’espressione di uno stesso disturbo”

Il disturbo a cui allude è il disturbo generatore primario, nozione chiave della teoria di Minkowski, laddove il termine disturbo accanto all’aspetto genealogico del generare sta già ad indicare che esso si sviluppa secondo una logica differente da quella della causa e degli effetti indotti, vale a dire secondo l’articolazione – per Minkowski – “irrazionale” del divenire (l’indivisibile durée bergsoniana). Il conflitto con il proprio tempo vissuto è il disturbo generatore primario. Tutti i disturbi generatori ulteriori nascono da un conflitto o da un disorientamento temporale17.

Il modo con cui viviamo il tempo o anzi, come il tempo si fa tempo vissuto18 è dunque essenziale per comprendere la formazione del disturbo generatore. Infatti, se nell’esperienza clinica è necessario risalire dal sintomo alla sindrome e sussumere questa in una classe psicopatologica, per Minkowski, dietro il sintomo e ancor più dietro la sindrome “esiste sempre la personalità vivente tutta intera” dunque il corso-della-vita, l’Âion sotteso alle sue manifestazioni croniche19. “La sindrome mentale non è più per noi una semplice associazione di sintomi, ma l’espressione di una modificazione profonda e caratteristica dell’intera personalità umana. Si tratterà adesso di studiare queste diverse modificazioni”20

Ad esempio, lavorando sulla schizofrenia21 su cui Minkowski aveva già offerto uno studio22, egli, in parte sulla linea di Kraepelin e di Bleuler (con cui lavorò intorno agli anni della prima guerra mondiale presso la clinica di Burghölzli), la definisce primariamente come una perdita di contatto vitale con la realtà. La realtà, però, è primariamente temporale, oltre che spaziale. In questo senso, osserva Minkowski, “i processi morbosi sembrano poter colpire in modo elettivo sia il fattore dell’«io-qui-adesso»” secondo diverse variazioni possibili. Sul punto, Minkowski opera una distinzione tra, ad esempio, gli stati della demenza e quelli della schizofrenia.

“Il demente paralitico, giunto al periodo demenziale, risponde molto spesso alla domanda: Dove si trova? «Qui» e, quando si insiste, batte col piede per terra o fa un gesto con la mano per indicare il posto in cui si trova. Nella sua incapacità di far intervenire la minima conoscenza precisa, il minimo ricordo, l’«io- qui-adesso» entra in gioco in lui, per così dire, allo stato puro. Lo schizofrenico, al contrario, ci dirà che egli sa benissimo dove si trova, ma che non si sente nel posto in cui si trova o anche che la parola «io esisto» non ha per lui un senso preciso”23.

Il motivo risiede nel fatto che gli schizofrenici sarebbero avvolti in un reciso immobilismo, dovuto alla rimozione del tempo e alla sua sostituzione con connessioni logiche (di ordine iper-razionale) che intrappolano il divenire in una forma, come ad esempio, un’idea di grandezza24:

“Il malato mette così al posto del senso irrazionale di potenza, legato nell’individuo normale all’attività nel suo cammino incessante e inesauribile in avanti, l’affermazione di una potenza immaginaria nel presente. Egli, diremmo quasi, razionalizza perfino sul fattore superindividuale dello slancio personale e spezza i legami che ci ricongiungono nella vita all’insieme del divenire. Ecco perché potremo forse parlare di «orgoglio» nello schizoide e nello schizofrenico, mentre questo termine sembrerà del tutto fuori luogo quando si tratterà di idee di grandezza in un demente paralitico”25.

Lo schizofrenico ha inteso fermare il flusso temporale, per irrigidirlo e scomporlo e così restare senza lo slancio vitale che, nel senso ripreso da Bergson, è l’unico capace di fondare un avvenire e, così, dare direzione al tempo (altrimenti ridotto all’ora che si aggiunge all’ora senza nessuna spinta che renda continue l’una e l’altra). E così Minkowski sintetizza la posizione dello schizofrenico:

“Colpito nel suo dinamismo vitale, lo schizofrenico non solo sente tutto immobilizzarglisi attorno, ma è anche privo dell’organo necessario ad assimilare ciò che è dinamismo e vive al di fuori. All’interno e al di fuori non sa più che cosa giustapporre. Parlerà dei suoi pensieri «statici» o dei suoi pensieri «immobili come statue», troverà che c’è «troppo movimento» nella visita di sua madre, si lagnerà, quando dovrà andare via, che il treno è troppo veloce, e questo perché non riesce più a registrare tutte le stazioni, tutti gli oggetti davanti ai quali passa, come se davvero, per ricostruire un movimento, fosse necessario saldare mentalmente gli uni agli altri l’infinità dei punti nei quali il pensiero discorsivo crede di poterlo scomporre. Lo schizofrenico si mette su questa strada, dopo il viaggio si sentirà «sradicato» nel posto nuovo, per non aver potuto registrare tutti i punti intermedi. Giungerà infine a uno stato d’animo di cui l’auto-osservazione seguente dà un quadro impressionante: «Tutto è immobilità attorno a me. Le cose appaiono isolate, ciascuna per sé, senza evocare nulla. Certe cose che dovrebbero formare un ricordo, evocare un’immensità di pensieri, dare un’immagine, restano isolate. Sono più capite che provate. Sono come pantomime, pantomime che forse qualcuno recita attorno a me, ma io non vi entro, io resto fuori”26.

Da questo punto di vista, lo schizofrenico conserva la capacità di giudizio, in quanto giudicare è scindere, dividere, ma senza che nel giudizio – scrive Minkowski – vi sia istinto di vita. La schizofrenia ha ridotto la spazio-temporalità (e ancor di più la tempo-spazialità) ad uno spazio decurtato di ogni movimento che, se potesse, perderebbe anche la terza dimensione o scinderebbe tra di loro le dimensioni per accontentare la propria razionalità morbosa (termine che Minkowski mutua da Rogues de Fursac) o, meglio, il proprio geometrismo morboso27 – come aveva teorizzato assieme a sua moglie, la psichiatra Françoise Minkowska-Brokman. In questo senso la rigidità dei precetti, delle convinzioni e delle antitesi volte a bloccare qualsiasi movimento, è quella propria delle figure spaziali pure (senza peraltro consentire linee o punti estemporanei derivabili da una qualche spontaneità)28.

In tale contesto, nelle parole di un paziente riportate da Minkowski, il passato è un precipizio, il futuro una montagna ostile, il giorno (l’hèmar) è l’unico appiglio ma solo a patto di eliminare ogni movimento al suo interno che lo faccia transitare: e si cerca allora – dunque – di non fare niente29. In questo senso Minkowski rileva negli schizofrenici il predominio di “atti senza domani”, “atti congelati”, “atti a corto circuito”, “atti che non tendono a concludere.”

Tali nozioni non possono non avere – afferma Minkowski – una ripercussione anche sulla nozione di autismo, così come sviluppata da Bleuler30, dove oltre al distacco vitale dalla realtà vi è una chiusura data dalla pre-dominanza della vita interiore, la quale può essere più o meno rigogliosa (Minkowski parla di un autismo ricco – ancorché spesso fittizio – e di un autismo povero), in cui gli atteggiamenti esteriori come la rèverie, “i rimpianti, la tendenza interrogativa morbosa” sono solo espressioni di un’agitazione secondaria rispetto all’immobilismo sottostante.

Ora è interessante rilevare che è proprio l’assenza di una costituzione del tempo interiore a determinare tale chiusura e a favorire il distacco, giacché nulla fluisce fuori e dentro: il flusso temporale è stato disinserito senza che questo possa essere diventato compito e dunque possa essere interiorizzato. La chiusura è una fuga dal cronologico senza che, però, l’Âion possa emergere e ciò in quanto lo spazio ha divorato – per così dire – sia l’uno che l’altro, sia il padre che il figlio, qualsiasi ipotesi di genesi, a favore di un quadro statico, che è quello della pura logica formale e della geometria (per lo più bidimensionale).

Ora, poiché il passato può fornire l’immagine – in senso proprio geometrico – di qualcosa di fermo, di finito e confinato nei contorni, pur se in forma rigida e dunque irreale (e non vitale), esso diviene il territorio preferenziale su cui lo schizofrenico tende a dislocare – e racchiudere – il tempo. L’intero tempo è passato e il passato può assumere la forma solida di un oggetto, la forma rassicurante della geometria che io posso possedere.

Tuttavia, come si può intuire anche dall’interessante esempio del paziente schizofrenico riportato in nota31, il passato non si lascia ridurre o condurre in figura, ma rivela – pericolosamente – una sua semovenza, frutto del gioco dell’Âion che dunque sotto le ceneri di Chrónos – sotto una successione che viene costantemente negata – disloca i momenti e manomette (sabota) il tentativo di assumere un tempo presente (l’ora battuta da un orologio a pendolo) – che è però in realtà non contro-verso, anzi privo di versanti, incapace di scorrere – e che dunque in realtà rimane rappreso nella figura del passato (intercluso e recluso in esso) con la lancetta dell’orologio che trema perché tenderebbe ad andare indietro in modo da compensare il fatto che, altrimenti, finirebbe per andare avanti.

Nella patologia maniaco-depressiva, per Minkowski, il quadro è radicalmente diverso32. Il maniaco, non perde infatti contatto vitale con la realtà “addirittura assorbe con avidità, come dice Bleuler, il mondo esteriore”33. Tuttavia, il contatto con la realtà è unicamente con l’ora istantaneo, senza che gli sia possibile dispiegarsi nel tempo: egli poggia sempre e solo sull’ora (che non è neppure presente): “la vita mentale – osserva Minkowski – ha subito una subduzione nel tempo, come avviene anche negli stati di depressione melanconica”. E perciò, mentre lo schizofrenico spazializza, il maniaco, come teorizzato da Kraepelin, subisce la continua fuga delle idee, la distrazione che rende ogni percezione fuggevole e imprecisa34.

Il contatto è peraltro iper-vitale in quanto l’istante ha una forza impressionale alta, ma varia costantemente in quanto ogni istante è indipendente e non trova continuità. Se lo schizofrenico aveva sostituito integralmente la continuità del tempo con la contiguità dello spazio e richiuso quest’ultima in figura chiusa, il depresso non riuscendo a cogliere e costituire la continuità del tempo, ne subisce la fuggevolezza estrema, lì dove la successione cronologica si fa cronica, in cui ogni atomo istantaneo di tempo viene ucciso dal successivo. Qui, dunque, l’ora non è un’ora-continuità35, non è un’onda temporale, né l’attimo inesteso su cui passato e futuro si scontrano, bensì un tempo discreto ed atomico, un’ora individuale che manifesta, quindi, in modo assai doloroso, la caducità, ribadendola inesorabilmente, appunto, ad ogni momento36. Ogni istante muore e così muore anche la mia attenzione.

Non solo Minkowski, ma anche le analisi da lui citate di Straus e Gebsattel sul ruolo del tempo nella melanconia depressiva. Secondo tali analisi, nella depressione (soprattutto in quella endogena) vi sarebbe un rallentamento patologico del tempo immanente (termine ripreso da Hònigswald) ovvero tempo dell’io (Ich-Zeit) – anzi quasi un suo arrestarsi – rispetto al tempo transitivo o tempo del mondo (Welt-Zeit). Detto in termini husserliani, il tempo fenomenologico sarebbe dissociato e sopraffatto dal tempo mondano che si intendeva porre metodologicamente tra parentesi; la struttura cronologica del mondo esterno inteso in senso naturalistico si mostra molto più dinamica e veloce rispetto alla farraginosità del tempo interiore della coscienza impantanata in un’ora senza presente che non si riesce a seguire più. E così il flusso dei vissuti viene sovrastato dal movimento delle cose di cui il tempo è numero-numerante. I vissuti temporali sarebbero dunque numerati e – per così dire – accusati di essere in ritardo rispetto al numero del mondo. Nella mania-depressiva emerge, sotto tale profilo, l’ossessività – fenomeno che mi riservo di analizzare sotto il profilo fenomenologico più oltre – vale a dire “la tendenza ossessionante a contare, a controllare, a ruminare, a seguire i più insignificanti avvenimenti sia della vita esteriore sia della vita interiore”37. Il contare – ad esempio – manifesterebbe quasi – secondo quella che Minkowski denomina “compensazione fenomenologica” per distinguerla dalla compensazione affettiva – il tentativo di inseguire il numero del movimento per rallentarlo o dominarlo rispetto al proprio senso di ritardo, dando così un senso di progressione meccanica (favorita dall’indifferenza dei numeri e della serie) capace di sostituire lo scorrere del tempo stesso e, ancor più, il proprio flusso vitale; analogamente, la ruminazione ha il senso di un discorso che si sarebbe voluto fare ma non si ha più il tempo di svolgere di concludere38.

Il depresso-melanconico, dunque, non sopporta – né supporta – il passare del tempo, si ritira – per così dire – dal suo flusso, finendo così per subire il decreto di Chrónos, a sua volta ridotto a numero senza movimento come se il tempo fosse esteriore all’io e l’io, estraniato, si guardasse invecchiare da fuori. L’immagine che invecchia allo specchio è l’opposto dell’immagine frantumata di Dioniso di cui abbiamo fatto cenno per l’Âion. Nel depresso, il molteplice – la moltiplicazione (temporale) – è negata e, proprio per questo subìta.

Questa modalità di osservare il tempo non come succedersi ma come singolo dettaglio isolato (e dunque come già “successo”) favorisce, in altre parole, che l’io riesca a rispecchiarsi da se stesso (senza l’alterità dell’altro in quanto privo dell’alterità del tempo): è così il tempo appare come alterazione esteriore di un corpo – a sua volta – esteriore39.

Come nota Minkowski, servendosi anche delle analisi di Gebsattel, la paziente si sofferma su qualsiasi particolare, anche il più insignificante, perché quello che conta è di considerare ogni dettaglio come prova della fuga del tempo.

Sottostante, vibra l’angoscia – costante – di morte, rispetto alla quale, il flusso si attesta come passaggio senza senso, che ci conduce lì dove non vorremmo mai arrivare. Sul punto, il depresso malinconico è un uomo che si trova al patibolo; Dostoevskij (che pure ha provato una tale esperienza), non a caso “descrive un uomo che, sotto la minaccia dell’imminente esecuzione capitale, registra con precisione estrema dettagli senza la minima importanza: il bottone di un’uniforme, la cravatta di un passante, il selciato ecc. Quando non siamo nelle condizioni di cogliere il mondo-ambiente in modo attivo e di formarlo in tal modo, esso si impone a noi, e lo fa sotto l’aspetto atomistico di contenuti isolati”.

Aldilà, dunque, dei rilievi psicopatologici, ciò che interessa alla nostra indagine è il rilievo secondo cui il tempo-vissuto ovvero il vissuto-del-tempo costituisca l’epifenomeno di un cortocircuito originario, in quanto il tempo stesso è assunto all’origine –in modo inscindibile – con la vita-che-esperisce il mondo.

In Melanconia e mania, Binswanger, invece, rispetto al maniaco, distinguerà il depresso melanconico per il suo abuso della retentio, della ritenzione nel senso di Husserl40, vale a dire per il suo ostinato voler trattenere lo scolorire dell’ora-non-più come ancora-presente, così procedendo, di ritenzione in ritenzione, nello sforzo costante di non lasciar andar via il flusso del tempo.

Diversamente, il maniaco, secondo Binswanger, assume il tempo vissuto esclusivamente come praesentatio, vale a dire come atto intenzionale presentificante, in una costante presentificazione (Gegenwärtigung) del presente, senza capacità di ritenere o di protendere, dunque senza ritenzioni o protenzioni dove il «presente vivente» (lebendige Gegenwart) è ridotto all’«ora» (allo Jetzt) ogni volta appresentato come il «tempo».

È interessante vedere che per Binswanger il turbamento dalla modalità intenzionale del vissuto temporale, turba e disturba l’intero flusso – vale a dire il carattere di continuità: sia della temporalizzazione che di tutto il pensiero conseguente41.

Tale premessa, invero, potrebbe condurre oltre, ad analizzare le diverse patologie prefigurate, andando ad esempio ad analizzare l’impulso (cronicamente) anticipatrice dell’isteria o la scissione (spazializzante) del bipolarismo. Tuttavia, ora è però necessario vedere più a fondo in cosa consista il turbamento che noi abbiamo designato come cortocircuito temporale.

Sia Minkowski, (forse anche per la prevalenza dei riferimenti a Bergson o a Scheler rispetto alle analisi di Husserl) che Binswanger, infatti, non hanno ulteriormente approfondito la traccia pur rilevante che avevano solcato nelle loro ricerche non addivenendo ad un’analisi sulle modalità dei vissuti temporali. Il loro campo di ricerca è prevalentemente clinico ed è – comprensibilmente – dai casi singoli che essi traggono i loro più rilevanti dati psicopatologici42.

Abbiamo fatto rapido excursus delle ricerche compiute da Minkowski e da Binswanger, dunque, sia per indicare solchi poco sviluppati o comunque minoritari da parte della ricerca psicopatologica che invece meriterebbero maggior approfondimento, sia, soprattutto, per far risaltare, in controluce, l’elemento cortocircuitale del tempo, e favorire, così, una fenomenologia di tale contrasto. È necessario che tale contrasto venga ora analizzato (e per certi versi scomposto) e dunque ripensato in termini filosofici (recuperando le premesse di Eraclito, di Nietzsche e di Husserl.

Anche perché, sia Husserl che Nietzsche mettono – in modo differente – in dubbio anche la legittimità del limite posto tra normalità ed anomalia. Husserl, ad esempio, afferma, in una consapevole circolarità logica (ma non tautologica) che l’anomalia è solo una variazione del tema della normalità, essendo a sua volta la normalità la possibilità che io diventi pazzo. La linea tra normatività, normalità e anomalia è dunque in bilico ed è segnata dal fatto che l’ortologia – il pensare corretto – si articoli per essenza come fenomenologia (che impone una logica trascendentale e non solo formale). Dunque è sul terreno di questo limite (tra normalità ed anomalia) nell’esperienza che ci accomuna, che va ricercata, ancora, l’articolazione del tempo vissuto.

Bisogna anzi comprendere che qualsiasi vissuto temporale racchiude in sé un corto-circuito. Anche la contemplazione – stare sulla vetta con il doppio versante della montagna al momento del meriggio – è un’esperienza che implica l’aspetto controverso del divenire.

È necessario dunque scavare su tali cortocircuiti per meglio comprendere, ancora, le implicazioni dell’Âion sul tempo vissuto.

In questo senso, ho già analizzato alcuni fenomeni comuni che maggiormente manifestano tale contrasto e che qui ripropongo in versione rielaborata: l’ossessione, il dovere e la colpa.

2.1. Il Ricordo del Presente: tra Ossessione e Contemplazione

Se l’io abita l’istante è perché egli stesso, come detto, è instante: fluisce – egli stesso – sulla trincea dove passato e futuro si scontrano continuativamente.

Lungo questa frequenza, l’io, però, non è necessariamente presente: egli può essere concentrato interamente, nell’ora (in senso cronologico dove un’ora succede ad un’altra ora), senza che però, di per sé, pervenga al presente. Ciò capita ad esempio quando l’attenzione (il raggio intenzionale) muta continuamente oggetto (che sarebbe il caso proprio per Minkowski e Binswanger della mania-depressiva) e la durata della percezione si slega – per così dire – dalla percezione della durata, giacché ogni oggetto trascina via con sé l’ora in una successione costante. C’è infatti una distinzione (e una tensione) tra l’ora, la coscienza d’ora e il presente e tra questi e il «presente vivente» così come lo abbiamo delineato prima. In senso cronologico,l’ora e il presente43: solo per un attimo coincidono, cioè possono passare l’uno nell’altro. Per arrivare al presente, è viceversa necessario tornarvi indietro, come un luogo in cui, però, non si è mai stati.

Questo tornare indietro, è una sorta di ricordo, seppur un ricordo assai concomitante, quasi-contemporaneo, all’oggetto ricordato — rivolto sia alla durata della percezione che al suo oggetto durevole44. Solo così – per riprendere l’esempio di prima – una durata entra nell’altra.

In ciò consisterebbe, la contemplazione. La contemplazione, sotto l’aspetto cronologico, infatti, — notava Leibniz — è, in questo senso una “conservazione dell’idea presente” che depone un’immagine, è una specie di ricordo di ciò che è ora, un ricordo del presente45.

Tale ricordo però non è una ritenzione, giacché non prolunga semplicemente il presente trattenendolo.

Nella contemplazione, infatti, «presente» ed «ora» convergono nell’attimo dilatato di una visione. Entro la contemplazione, nelle proporzioni di Plotino, la visione ed il visto si sciolgono nella semplicità del veggente46, che contemplando l’Uno, vi aderisce47. L’ora e il presente si trovano, dunque, in equilibrio: l’attualità vivente si mostra per l’equilibrio virtuale di atto, cosa ed io, nella piena luce, né di un’alba né di un tramonto, ma di un sole sospeso (potremmo dire, nel senso di Nietzsche, di un “meriggio”). La contemplazione, dunque, è l’atto o attività attraverso cui si manifesta l’Âion all’interno proprio di Chrónos, che fa affiorare l’eternità del ritorno di ciò che è qui: la visuale torna infinitamente al vedente e la visione è visione dell’unità-che-diviene o del molteplice che scorre in sé come uno, come moltiplicazione dell’Uno.

E però non è detto che l’io riesca ad allinearsi all’ora/presente. L’estraniazione prodotta dall’ora e dal presente all’interno dei tempi dell’io, viene superata solo nei limiti di una visione ideale48.

Nella percezione usuale del tempo cronologico infatti il presente scolorisce via via sino a un passato prossimo. Nella contemplazione, con il movimento contrario (cortocircuitale), si tende a mantenere sospeso il tempo presente senza che vi sia retrocessione nel passato prossimo, facendo anzi confluire il futuro e il passato in quanto eternamente tornanti nel presente che – solo così anzi – si conserva. I versi del tempo dunque insistono sulla visione contemplata trascinando con sé l’io contemplante il quale, quindi, non resta fuori dalla visione. La visione contemplativa, dunque, non è una semplice osservazione: la convergenza è un’apertura.

Certamente, siamo al limite. Se il livello teoretico, infatti, di questa sorta di presentazione del presente, di questo svelamento commemorativo, del presente, è la contemplazione, il piano psicologico o empirico, è, però, una specie di impulso: impulso a volersi trattenere sul presente assurto a punto o soglia di un passaggio negato. Nel momento stesso, cioè, in cui il veggente si trova fuori dalla visione, il ricordo del presente, diventa volontà del ricordo del presente, sforzo che non accoglie né scorre, diventa attività contro passività – ancora: costituzione dell’io contro la precostituzione del tempo – nella disarmonia del flusso49: in una parola, esso diventa «ossessione».

Mentre la contemplazione è una specie di riflessione50, innestata dentro la percezione (la potremmo chiamare, utilizzando ancora una categoria husserliana, quasi-Reflexion), un modo fluido di connettere il presente all’ora, e, correlativamente, un modo per rendere instante il flusso stesso, l’ossessione rappresenta lo sforzo di mantenere l’allineamento ad ogni costo, moltiplicando il limite al ritmo della moltiplicazione del tempo: in modo tale che l’istante resti tendenzialmente identico, nella fissità di una breve ripetizione.

L’Ossessione – di cui avevamo già fatto cenno con Minkowski quale correlato della depressione – è, così, il rovescio della Contemplazione. In questo senso, l’ossessione è un ricordo del presente che non si riesce mai a ricordare.

Ciò che riverbera nella visione contemplata, nell’ossessione diventa, infatti, oggetto ridotto a ripetizione dell’impulso.

Nell’ossessione, infatti, l’onda del tempo anziché produrre vibrazioni (e conseguenze) si fissa, e torna sempre indietro, impedendosi così di fluire via, diventando urto51. L’ossessione è lo sforzo, dunque, di voler assumere l’istante – ad ogni costo – come stante, il tempo (e l’alterità che vi è implicato) come presenza, ancor più come sussistenza – di volerlo contenere e trattenere, bloccandone il divenire. Il flusso, così, si rompe, interrompe, sempre, tornando indietro come riflusso – e così via in un cattivo infinito.

Lévinas, definisce, in questo senso l’ossessione come la “controcorrente dell’intenzionalità”52; qui, l’intenzionalità non si rompe ripiegandosi su se stessa (come un riflusso) a partire dall’Altro, bensì, a partire da qualcosa che viene prodotto dall’io e che fa da argine al flusso. L’alterità da cui parte la corrente inversa non è vale a dire l’Altro concretamente inteso (l’altro volto che affiora davanti a me come traccia dell’infinito), bensì una sua rappresentazione (intesa quale presentazione di ciò che non è presente) e dunque un suo surrogato: è una rappresentazione che sostituisce l’altro e lo surroga ad immagine – vale a dire a pretesto – per tornare su se stessa. La controcorrente è dunque nel senso di una continua inversione rispetto al dirigersi-verso che condurrebbe l’io verso il fenomeno originale.

L’ossessione per certi versi individua l’altro (e il tempo stesso come altro) come istante da trattenere, da possedere, dunque come un kairós, momento da afferrare, ma non riesce mai ad afferrarlo, proprio perché presumerebbe e pretenderebbe di averlo ridotto a contenuto stabile, di avergli reciso le ali per farlo proprio. Vi è dunque una violenza data dalla forzatura del tempo dell’Âion in segmento che diventa cronico (ossia logo-cronico più che cronologico).

Tuttavia, non bisogna affrettarsi a tradurre in termini morali la questione: non è per aver ridotto l’Altro ad altro-rappresentato e dunque ad oggetto (e perfino a mezzo per tentare di trattenere l’istante): il fatto è che è la stessa alterità dell’oggetto (la sua estraneità e il suo potere di alterazione) ad essere stato compromesso: l’oggetto non è un oggetto intenzionale, ma un contenuto psichico.

L’attimo viene infatti ogni volta rispedito indietro da qualcosa che viene prodotto nell’attimo stesso. Il tempo, infatti, passa, ma nel passare incontra, davanti a sé, la forma solida del suo essere appena passato e torna indietro al punto di partenza rimangiandosi il passaggio. E’ come se il tempo solidificasse troppo in fretta, prima di scorrere effettivamente. E dunque il divenire fosse rappreso nella forma – istantanea – dell’è copula, ovvero l’istante fosse assunto come essente.

Ciò accade perché l’io immette qualcosa che si contrappone al flusso, non un oggetto ma una specie di progetto che, però, non ha la lungimiranza, né l’estensione del progetto. Un progetto così brevilineo e ravvicinato da essere inattuabile in quanto risulta già attuato solo per il fatto di essere stato concepito; se il progetto infatti è qualcosa per raggiungere o realizzare un oggetto (nel senso proprio di pro-oggetto), qui l’oggetto è già anticipato, sostituito da un suo surrogato psichico: la progettualità è solo un’anticipazione (e sostituzione) dell’oggetto a cui non si arriva mai e il progetto è in realtà al contempo anche un pre-oggetto: un impulso ad agire senza alcuna azione possibile giacché la vera azione è l’impulso stesso. Tale progetto si ripete, dunque, senza potersi soddisfare, si ripropone di continuo – e di continuo si delude. L’intervallo di un respiro che, senza poter effettivamente uscire, diventa affanno (ed è dunque, nel senso che vedremo, premessa dell’ansia).

Mentre l’ossessione è in atto, non si sa se, quando e come in realtà essa finirà. Non lo si sa, perché nell’ossessione, direbbe Lévinas, è implicata la trascendenza dell’altro, come trascendenza del presente nel presente stesso53; ma poiché l’altro non è pensato nella sua autonomia ontologica, ma soltanto anticipato e ridotto a pro-getto e pre-oggetto dell’io, esso è solo la parete che impedisce al flusso di uscire e – così – di fluir via.

Sotto certi aspetti, l’ossessione non ha una struttura lontana da quella che Heidegger, nell’ambito della temporalità della deiezione, chiama curiosità: essa viene definita, infatti, uno scaturire sfuggendo54, quindi un modo del presente che, nello scaturire sfugge, sorpassando continuamente il sorgere di un inizio: la possibilità del presente, viene ridotta a semplice presenza, e così essa non arriva mai55. Cosicché la presentazione, abbandonata a se stessa, in preda alla dispersione, assume il carattere del non-essere-mai-ferma56, pur permanendo però sempre nello stesso solco: non liberandosi mai la possibilità, essa insiste nella realtà, impossibile, di un presente che non è mai istante né ora, ma è solo questo57, l’atto che non scorre mai, che appena scaturisce sfugge e si rintana nuovamente nello scaturire. Così l’esserci, afferma Heidegger, “si aggroviglia in se stesso”58, perché, come in altre figure della deiezione, “la presentazione fuggente via tenta, in virtù della sua tendenza estatica, di temporalizzarsi da se stessa”59.

Ma a differenza dall’ossessione, la curiosità ha un oggetto, sebbene essa lo prenda solo a pretesto per sfuggirsi. All’ossessione, invece, l’oggetto manca giacchè è solo una figura di rinvio, e, dunque, essa non si sfugge ma torna ripetutamente, su di sé per ricordare se stessa.60. Per cui, mentre nella curiosità, o in altre figure della deiezione, come la tentazione e la tranquillizzazione, il problema è l’inautenticità di esistere il presente,61, nell’ossessione, il problema è rappresentato dal carattere stesso del tempo, e dalla lotta insita nell’atto della volontà di trattenere il flusso (e di annullarlo). L’ossessione in altre parole assume l’Âion – e più in generale – la ciclicità solo come negazione del tempo, vale a dire, solo per chiudere il doppio versante del tempo in un cerchio stabile, fisso, stringendolo sino alla (apparente ed impossibile) compattezza di un punto: il punto fermo, l’idea fissa, intesa come visione spaziale immobile (che sarebbe proprio dunque per Minkowski dell’autismo e della schizofrenia), bidimensionale e ferma: ovvero l’altro ridotto (e tradotto) a rappresentazione ferma, a fermo-immagine: sottomesso alla visione, come se, in termini hegeliani, la lotta per il riconoscimento avesse avuto quale esito la morte dell’altro (e quindi la morte della propria stessa auto-coscienza) ma senza neppure aver lottato, come pura rappresentazione (e anticipazione) psichica.

L’ossessione, dunque, è una ripetizione indefinita di ciò che non si è fatto e, allo stesso tempo, un ricordo di ciò che si sta per fare. Essa ha dunque la struttura (quasi fichtiana) di un impulso62 che, però, non giunge mai ad attività, che rimane sempre allo stadio della preparazione63.

L’ossessività sembra l’epifenomeno dell’«autosentimento», del (Selbstgefühl), di cui abbiamo prima parlato riferendoci a Hegel: follia prodotta dal voler trattenere e schiacciare la contraddizione del movimento nella quiete rigida e impossibile di un Io che si presume immediatamente identico a sé64.

2.2. Segue – La questione del dovere breve: l’ansia e la duplicazione del cogito

Già con il progetto ridotto a pre-oggetto, così come indicato nell’ossessione, si Paradossalmente la paura sembrerebbe aprire il campo dell’istante inteso come stante verso un presente più allargato: proprio per tentare di guadagnare un territorio stabile sul piano del divenire (inteso come una minaccia), tenta di allargare lo stante come ora-stante e sovra-stante; tuttavia, al di là della distinzione heideggeriana tra paura e angoscia, sino alle soglie di un futuro che, però, appercepisce come minaccioso. Il futuro – proprio perché minaccioso – si rivela pericolosamente autonomo e dunque capace di muovere verso l’ora preteso come stante per farlo ridiventare istante e così ri-velarlo come momento di pericolo, oltre che di uno scontro. Anche il passato – per quanto passato – non è luogo sicuro: anzi la paura per il futuro e la paura verso il passato (di cui parleremo più oltre e il senso di colpa) si stringono per cui, qui sotto il profilo cronologico e psicologico, si è premuti verso un istante che non riesce, mai a farsi mai presente. In questo senso, l’elemento della paura perfeziona l’ossessione come ansia.

L’ansia è, per certi versi, l’opposto della riflessione. Si suol dire anche che la riflessione presuppone calma, che vi è una calma riflessiva. Ancor di più, la riflessione è una modalità – attiva e non passiva – del ritorno. Percorrere la strada di nuovo, ma sul lato opposto del versante: risalire la costa a fianco del mare, dopo averla già discesa una prima volta. In questo senso Husserl, come abbiamo visto, definisce la riflessione come un andare indietro verso l’origine che è in realtà il futuro. Dunque è un tornare dove non siamo – in realtà – mai stati.

L’ansia invece è la superfetazione, la perfezione fatta sistema – attraverso la paura – dell’ossessione: tutto ciò che viene anticipato o trattenuto (la colpa, il rimorso) viene condensato in un sistema: l’ansia conforma la percezione, ma non è percezione essa stessa, è anzi la disinserzione dal pensiero percettivo e, ancor più, del flusso di coscienza, a favore di un mantenersi, un tenersi, un sentirsi, dove però la riflessività propria del sentirsi è una riflessività, appunto, senza riflessione. Il verbo riflessivo (sentir-si) infatti è subito piegato verso un sé pensato a portata di mano, disponibile, condotto al cospetto di un presente che è semplice presenza, per di più conficcato in un mondo dato, anch’esso, per scontato, per presente: questo mondo qui dentro cui io sono – e soffoco avvinto al mio me stesso. Tuttavia, il sé sia solo nelle lontananze delle possibilità – sia solo l’esito di un infinito ricordo: dunque di un viaggio che attraversa tutto ciò che non sono per tornare a interiorizzarsi, solo all’ultimo degli approdi possibili.

Dunque l’ansia elimina il viaggio, lo evita, lo riduce a percorso calpestatile perché già calpestato: trova nell’ossessione il suo modo (esistentivo) naturale. Essa è sistematica perché è il metodo attraverso cui passato e presente vengono tradotti e ridotti al presente come semplice presenza – nell’apparente dominio del divenire, costretto (imprigionato) nell’altrettanto apparente controllo di quel che già si sa non è controllabile. Ma il tentativo di tradurre l’Âion come essere, riducendo il cerchio a quadrato o comprimendolo a punto di cui potersi appropriare, più in generale (come abbiamo visto anche nell’interpretazione della schizofrenia da parte di Minkowski) di spazializzare il tempo per potervi abitare (anche in senso etico di ridurre il tempo a dimora o ad habitus) è proprio la premessa dell’ansia, laddove tale tentativo o tentazione, evitando ogni mediazione possibile, si fa tirannia.

In questo senso, l’ansia è senza epoché (e senza possibilità neppure di esercitarla): il mondo si presenta come oggetto esterno unitario e – assieme al mondo – il tempo stesso, spazializzato e infinitamente divisibile. Il tentativo costante è quello di dividere il tempo. Il tempo è infatti vissuto come troppo veloce, in quanto l’attività di dover seguire la rappresentazione della sua fugacità per controllare ogni cosa e così evitare il pericolo che il futuro avvicinandosi porta con sé – è frenetica e dunque lo si vuole suddividerlo in infiniti punti «ora» per concatenarli (quasi cucirli o ricucirli) in vista di un obiettivo sempre anticipato. In questo modo l’ansia tenta costantemente di convertire l’infinito divenire del tempo (spazializzato) in un tempo diviso all’infinito. Ma la divisione infinita del tempo non è l’infinito temporale, è il cattivo infinito, rispetto al quale la tartaruga è più veloce di Achille e la freccia non arriva mai al suo bersaglio (al suo télos).

Tale tentativo è molto dispendioso, in quanto – come vedremo più oltre – è teso (conteso) al controllo ed al funzionamento ad ogni costo. Il termine ansia deriva infatti dal latino tardo anxia quale difficoltà a respirare (da cui deriva il verbo ansàre – ansimare –, utilizzato in questo senso da Boccaccio ovvero àngere dal latino angĕre: stringere, angustiare, opprimere) indica una tensione già nel corpo (primo diveniente che si vorrebbe ridurre ad ente) e poi nella sua articolazione (movimenti, respiro); lì il volontario (la volontà di ente o di ni-ente) combattendo una lotta con l’involontario (il tempo e il divenire) manomette l’asse che dal pre-riflessivo (e dall’irriflesso) conduce alla riflessione. La volontà si piazza in mezzo interrompendo il flusso: ma così non controlla più né il pre-riflessivo né ha la possibilità di flettersi (la volontà si vuole inflessibile) o riflettersi. E con ciò non controlla più nulla: il panico la investe e la rende passiva.

Queste figure deiettive – quali la curiosità, l’autosentimento, l’ossessione, l’ansia, rientrano in un problema più ampio, quello del raddoppiamento della cogitatio o dello sdoppiamento del cogito, entro le pareti stringate di un presente che però non è attuale. La pre-costitutività del tempo-Chrónos, infatti, agisce sulla possibilità propria di costituire il presente per la coscienza, che quindi resta scissa tra l’intenzione e l’intenzionalità, cosicché l’intenzionalità stessa non viene respinta dalla corrente contraria.

Ciò accade anche quando il pensiero non scivola nell’atto per abitarlo (quale vissuto nel flusso dei vissuti), ma si limita ad accompagnarlo, affrancandosi in parte da esso, tenendosi, per così dire, fuori dal flusso. Vi è così una biforcazione tra il flusso dei pensieri che si concatenano gli uni agli altri (nel percepire, ricordare, immaginare) e il pensiero di percepirsi (o di volersi percepire) slegato da essi, quasi che l’io implicato nel flusso non fosse il vero io, ma ve ne fosse un altro capace di restare fermo (indiviso e individuale) indipendente dal fluire via (e dunque indipendente dal divenire). Questo io però non è – ad esempio – l’io-polo di cui parla Husserl come quella polarità trascendente a cui ascrivere gli atti e gli stati (che è lo stesso io implicato nel flusso – trascendente e residuale – rispetto al quale si sistema la costellazione dei vissuti) e dunque un io che per quanto “polo” viene compromesso (e si lascia continuamente compromettere) dai suoi vissuti, bensì un io pensato come essente, come un pieno-d’essere o, per utilizzare ancora il linguaggio di Sartre, come una compressione d’essere (tale e quale ad una cosa che resiste nel tempo: l’io si pensa reale, vale a dire come una res). La tendenza a pensarsi come essente, a sentirsi come un qualcosa che è, indipendentemente dal fluire dei vissuti, è certamente un riflesso condizionato dalla paura che il divenire ha sempre prodotto, in quanto questo non porta altro che alla morte. L’io vuole pensarsi inalterato e non l’alterazione continua che il flusso dei vissuti e che è necessario volere – all’indietro e in avanti – proprio come flusso e non come qualcosa indipendente da esso.

Al livello di articolazione, questo pensarsi al di fuori del flusso per accompagnare i propri atti senza aderirvi produce un disallineamento all’interno del vissuto temporale. Il pensiero che s’accompagna all’atto è, infatti, a sua volta, un atto. Esso, allora, ponendosi come raddoppio (noetico) rende il primo atto (il vissuto), sotto il profilo di Chrónos, inattuale. Questa forma di mancata aderenza, produce un senso di dovere, che è il dovere di riattualizzare il vissuto primigenio: il dovere di recuperare il senso dell’attualità. L’istante infatti è perduto proprio nella divaricazione di due attualità che non si toccano. Dal punto di vista del pensiero (noetico) abbiamo infatti due “ora” scissi che non si congiungono a formare un presente, ma che si pongono quali inizio e fine di un segmento (analogamente al fenomeno dell’ossessione) in cui però dal primo si tende a raggiungere il secondo, con il tentativo di traslare la percezione di sé come essente nell’ora del vissuto, ovvero di assumere il proprio sé stante come istante.

Abbiamo utilizzato qui la nozione di dovere, sebbene si tratti di un dover-essere dal passo breve: è un dovere infatti che non ha slancio, non ha la prospettiva larga di un futuro, o di un altro come destinatario, né la contestualità etica di una relazione, né, tanto meno, lo sfondo dell’interezza della vita. In questo senso, l’inattualità resta confinata nell’attualità, giacché la mancata aderenza dipende solo dal fatto che l’io, non abitando il suo vissuto, è in ritardo rispetto ad esso e rispetto al fluire che corre via e, dunque, sente di doverlo riprodurre per farlo essere; e così operando, invece, lo allontana sempre più. Ciò che sempre gli sfugge, non è il tempo, ma è il l’io stesso implicato nel tempo, il suo proprio divenire.

3. Il dovere come «ricordo del futuro»

Il dovere esprime una chiara forma di cortocircuito temporale, prodotta, primariamente dalla inattualità di ciò che è dovuto65.

Se la disuguaglianza temporale, interna all’Io, tra attualità (della tensione) e inattualità (del dovuto), costituisce il presupposto del dovere, quest’ultimo è, a sua volta, l’elemento che mantiene tale disuguaglianza verso il futuro66.

Il dovere pone, in questo senso, un senso di coazione, da intendere, in modo originario, come un cum-agere, come l’agire congiunto delle mie attuali e potenziali attività, fenomeno di modificazione interna del tempo. L’«agire congiunto», però, esprime qui una tensione capace di plasmare il «dirigersi-verso», appunto, in un «dover-andare-verso-quella-direzione»67.

Nel dovere, allora, io pongo qualcosa di inattuale quale atto doveroso: l’atto è futuro e però esso è dovuto già dal momento in cui è stato posto come doveroso.

Ora però l’atto doveroso, in quanto futuro, è sempre un atto potenziale, tale per cui il devo è continuamente sformato in un dovrei: infatti, l’oggetto del dovere è un «dovuto», ma il dovuto, nel tempo in cui potrà essere realizzato, è sempre un «potuto»; quindi un possibile; l’io-devo è sempre un dovrei essere ed il dovrei essere è sempre un dovrei poter essere68: tale senso del dovere deve essere pensato in modo sintetico: il dovere è sempre un potere-di-dovere. Tale rilievo, imprime il carattere dell’Âion sull’articolazione di Chrónos. Infatti, il potere espresso dal gioco precede come circolarità propria il dovere proprio sulla linea di incontro scontro tra passato (ciò che è già stato determinato come dovuto) e futuro (il poter-dovere ovvero l’atto dovuto come pura possibilità).

Ma andiamo per gradi. Il dovere si appiglia ad un atto futuro per conformare il senso del suo essere un dovere. L’atto futuro (dovuto) dunque retro-agire sull’attualità del flusso e lo conforma come dover-essere. Il dover-essere esprime, così, una tensione verso un “futuro retroagente”.

Il dovuto retro-agisce proprio in modo da attualizzare ciò che non è attuale, di modo che io possa sentire di dovere già ora. Io tengo presente ciò che dovrò fare, non perché lo immagino, ma perché lo mantengo già qui nella memoria come se il tempo futuro fosse stato già e io lo dovessi solo ricordare. In questo senso, il dovere, come ebbe modo di definirlo Husserl, è una specie di “ricordo del futuro (Vor-erinnerung)”69, un’anticipazione memorativa, nella quale, appunto, il presente, andando “a braccia aperte verso il futuro”70, lo anticipa come direttrice, come orientamento.

Il futuro, nel dovere, rivela però di essere passivo, già impegnato in quanto dovuto, esso retroagisce solo perché a sua volta è stato anticipato.

In questo senso, il dovere ha la struttura temporale della protenzione, la quale è definibile proprio come “la passività dell’essere-futuro”71. Qui infatti: “…il futuro è pre-tracciato in quanto passivamente attendibile. Attendibile significa: dirigersi attivo — l’io deve attendersi ciò che è pre-tracciato…”72.

Il dovere, allora, è esercizio della possibilità in quanto possibilità presente che riceve un senso inattuale, che è il suo73.

Da dove nasce il senso del dovere? Nasce da un’impressione originaria secondo la quale io sento di dovere qualcosa in quanto la potenza (qui intesa anche come mera potenzialità) entra nelle restrizioni di Chrónos lì dove i possibili si sterminano a vicenda secondo il decreto non del tempo bensì della sua (cronica e cronologica) anticipazione che ne presceglie uno alla volta a scapito di altri. Dal punto di vista temporale, tale impressione sorgente viene – sempre per utilizzare il vocabolario husserliano – ritenuta fino a quando l’atto dovuto non sarà realizzato. Vi è, allora, una serie di ritenzioni (secondo la già descritta intenzionalità longitudinale) che rinviano al punto in cui sorgerebbe l’impressione originaria del dovuto, alla quale si ricollega però un’altra temporalità che da quel punto, spinge di nuovo verso il futuro: il futuro si presenta così come luogo di attuazione e di attualità di un dovuto che, perciò, proprio in quanto dovuto-possibile, non è un semplice debito74. Allo stesso tempo, dunque ricordarsi di dovere, è ricordare il futuro (in quanto dovuto).

Il futuro è così anticipato nel ricordo. La circolarità tra passato e futuro o il cortocircuito tra di essi è evidente. Il carattere di “ritenzione” del dovere si articola, infatti, in questo modo: l’inattualità è legata all’attualità secondo una linea di continuità: questa continuità è composta da ritenzioni e ritenzioni di ritenzioni sulle quali scorre, però, una protenzione unitaria, guidata dalla trascendenza futura dell’atto dovuto. Il dovere è cioè in ultima analisi una ritenzione di una protenzione75.

È dunque un gioco circolare quello del dovere: io anticipo il dovuto (protenzione) in quanto questo a sua volta retroagisce sul senso del dovere (retroazione) in modo tale che io trattenga – e ricordi – il futuro stesso (l’atto che devo-poter compiere).

Tuttavia è l’assunzione di un tempo cronologico che trasforma il dovere in una coazione stringente, dal momento in cui il futuro si pone come causa del presente e tutto lo sforzo del dovere scompare – si acquieta – solo con l’esecuzione dell’atto dovuto; ancor più se Chrónos viene assunto come rettilineo, quindi come un segmento che unisce l’intera linea del dovere, dall’assunzione del dovuto sino alla sua realizzazione (vale a dire trasformazione del dovuto in res,in una cosa che rimane, in una prestazione). Ma la linea appare solo per scomparire: dunque il dovuto stesso si pone come il decreto del tempo in ordine al quale tutti gli atri possibili, i vissuti concomitanti attuali e potenziali vengono prima sospesi e poi annullati dall’atto dovuto che, una volta realizzato, rivela l’aspetto cronico del tempo vissuto. Il tempo stesso viene assunto come debito, qui nel senso rovesciato rispetto al kairós, in quanto invece di cogliere il “tempo debito”, il momento giusto, si assume il tempo stesso in quanto debito da estinguere e dunque ci si sottopone (passivamente) al decreto del tempo. E così Chrónos divora l’intera sequenza mostrando che essa era solo il tempo – astratto – utile ad estinguere il debito.

Sotto tale profilo, il non realizzare mai quello che si deve, lungi dal costituire un semplice inadempimento, manifesta anche il suo lato strategico, vale a dire quello di mantenere la linea del tempo ancora pendente, ancora vivente e dunque voler conservare ciò che altrimenti svanirebbe: il proprio stesso sforzo. Ciò si rafforza – eliminando il senso di inadempimento e dunque di colpa – soprattutto se si sceglie un compito in sé infinito e che quindi non può essere mai portato a termine, ovvero si scivola, come Sisifo, nell’assurdo di una ripetizione (apparentemente) senza senso, che è quella di trascinare un masso pesante in cima alla montagna per poi farlo rotolare giù e – così – ripetere l’operazione ogni volta daccapo. Tale assurdità appare allora –nel senso proprio di Camus – come una rivolta nei confronti della logica stesa che intenderebbe governare il tempo, contro il crono-logico, rivolta contro il senso che dovrebbero avere le nostre azioni, con il sistematico rinvio a domani, a quando avrò una posizione o quando potrò stare tranquillo, il che è assurdo perché si tratta di morire. Ecco perché si deve immaginare – scrive Camus nel finale della sua meditazione – Sisifo felice76: perché il suo fare e disfare, pur nell’assurdità, ha la struttura di Âion, del giorno che sorge e si oscura ogni volta di nuovo, del gioco a somma zero da cui è impossibile ricavar qualcosa se non il giocare stesso. Sisifo accetta il dovere (il compito) come una necessità ed assume la necessità come libertà propria (il che fa emergere però una linea kantiana dove il dovere è un fatto della ragione, un Faktum der Vernunft e la la libertà auto-nomia, il darsi la norma da sé).

Eppure se l’Âion fosse assunto come circolarità nella circolarità di Chrónos, si avrebbe che il dover-essere, il Sollen, sarebbe dominato dal gioco della necessità, del Müssen (anche del destino) – che è, primariamente, la necessità del divenire. In questo senso il dover-essere è realmente un lancio verso la stabilizzazione dell’essere, ma l’Âion manifesta che ciò che deve essere è solo la necessità di un divenire. A sua volta la necessità è solo la necessità di dover anticipare il possibile, di dover muovere i pezzi del cosmo (è dunque necessità di un gioco e, al contempo, gioco necessario). Il possibile non retroagisce allo stesso modo del dovuto, in quanto è sempre solo possibile, dunque è la potenza stessa, il poter-essere che agisce, ogni volta di nuovo, sul presente ponendosi come pre-logico rispetto ad ogni determinazione, appunto, possibile. La possibilità propria è già qui, la porta spalancata – come nell’enigma posto da Kafka; possiamo passare, solo che c’è un guardiano e sopra la porta c’è scritto “Legge” (Gesetz – che significa anche: l’esser-già-posto)77. E dunque esitiamo a passare, ci limitiamo a chiedere l’autorizzazione al guardiano, che puntualmente ce la nega; e noi restiamo lì, invecchiando, fino a quando, in ultimo, il guardiano non rivela che quella possibilità – quel varco – era per noi e solo per noi, era la nostra possibilità, il nostro tempo, il nostro divenire, rimasto pura possibilità astratta e tradotto come dovere, così come la legge (ponendosi sulla porta al posto dell’istante) aveva suggerito.

4. La trascendenza del passato: alle origini del «senso di colpa»

Per riepilogare quanto delineato, possiamo dire che nell’esperienza dell’ossessione, dell’ansia e del dovere, si verifica, dunque, una sfasatura del tempo, per la quale l’atto è inattuale ed il flusso si rivela agitato da correnti diverse o divergenti.

In altre parole, tali esperienze fanno affiorare la doppia circolarità all’interno di una presunta linearità logica e cronologica. Questo cortocircuito è dettato dall’incidere di versi contrari sul vissuto temporale.

Anche il presente è così difficile da abitare: nella scomposizione tra lo Jeztz e il Gegenwart con l’istante che come un arco sta lì ad accogliere e raccogliere tempi lontanissimi, il presente è qualcosa da ricordare prima del suo effettivo accadere, o qualcosa da lasciar cadere nello sguardo conservativo della contemplazione, dove ci si auto-dimentica in favore di una più ampia alleanza con ciò che si guarda. In questo modo, l’io è abituato ad abitare la propria inattualità nelle forme del dovere-potere: queste forme rendono l’apoditticità dell’«io sono» un incerto (ed avventuroso) tema da svolgere: un «io devo poter essere» per nulla formale, a metà tra destino e carattere78, teso a una modificazione irreversibile che ha in altro la sua ragion d’essere.

L’io così avanza in una sedimentazione impropria, fatta di tempi e di cose estranee indissolubilmente legati tra loro: in ogni atto trascorso, in ogni stato, e in ogni aspettativa, ciò che compare è un indivisibile divenire qui e ora in quanto sempre-diveniente e già divenuto per divenire ancora: ognuno di questi è un’onda sulla quale poggiano altre onde. E ognuna, pur nella sua fluidità, contiene un nucleo di alterazione.

La questione posta da Nietzsche è che noi questa alterazione la dobbiamo volere così come essa si è articolata nel divenire – come un compito in bilico – giacché è (sempre) un divenire ciò che si è in quanto lo si è stati e lo si tornerà ad essere.

Ora, avevamo già accennato con la volontà di potenza fosse l’opposto del senso di colpa. Il senso di colpa, infatti, nasce come un dovere in direzione contraria, un dovere in cui il dovuto è posto al passato ed è dunque impossibile da adempiere, al punto da assumere solo un tempo condizionale (perché sotto condizione) come un “avrei dovuto essere” o un “avrei dovuto agire” altrimenti.

Il passato è però un territorio anomalo: esso segna il primo affiorare – secondo Husserl – dell’estraneità come altro in me. Dunque esso manifesta in massima evidenza (che è evidenza fenomenologica) che l’io è solo alterazione. Il passato è infatti rivelativo della traccia di alterità che si fa strada nell’Io dilatandolo e smentendolo nella sua pretesa sussistenza unitaria.

Nell’io, infatti, si accumula altro, giacché l’Erlebnis è sempre un momento del flusso nel quale l’io è solo un io che ha percepito la cosa, per quanto percepita da me (per quanto noema) contiene un nucleo di alterità. L’io e la cosa, allora, tramontano insieme anche nel senso della loro identità, ognuno è estraneo rispetto a sé. L’io infatti non poteva sapersi già come quel percipiente che ha percepito o appercepito la cosa (non poteva sapersi come noesis in atto) e la cosa, pur offrendosi con le sue caratteristiche proprie, non sapeva di essere stata in quel modo appresa e tradotta come specifico noema di quel vissuto singolare ed irripetibile. Il vissuto stesso è altro – è alterazione – costante rispetto al vivere.

Tale alterità, inerisce alla struttura del mio essere concreto, o nel linguaggio di Husserl del mio essere una «monade concreta»79. Qui, il non casuale termine «monade»80 indica, come teorizzò Leibniz, la semplicità di un elemento, il suo non-esser-composto, cioè la sua viva, non ulteriormente scomponibile originalità81. L’indivisibilità della monade, la sua non scomponibilità, ancor di più, manifesta il suo carattere eminentemente temporale, vale a dire il suo essere frazione (nel senso ancora del frattale) dell’intero divenire indivisibile del tempo (Âion) o nel senso di Bergson del tempo non parcellizzabile della durée.

Ora, afferma Husserl, l’alterità emerge entro «un embrione intenzionale», entro una sfera di retro-percezione, mediante la quale l’io si appercepisce —in virtù del tempo che è — un io-altro. Nelle parole di Werner Marx: “ogni monade porta in sé stessa il senso di un altro io”82.

Ciò significa che l’elemento semplice e non scomponibile è già un’alterazione, che è alterazione del tempo (coerentemente con il tratto pre-costitutivo del tempo su ogni costituzione possibile).

Dunque, la compresenza temporale di un altro-io non deve, quindi, essere intesa in senso quantitativo: non vi è un proprio a cui si contrapporrebbe un non-proprio (o un es-prorio) e dalla cui addizione e mescolanza deriverebbe la monade; così come fenomenologicamente non sussiste una distinzione tra l’Io e il Sé: la monade è la semplicità di questa inerenza; solo, essa è temporale, per cui destinata alla dilatazione ed alla traslazione del tempo (o dei tempi). Essendo la temporalità, primariamente la temporalità immanente dei suoi stessi vissuti fluenti, tale dilatazione si verifica nell’opera stessa dell’intenzionalità e non altrove. Affermare che la monade è temporale dunque, come ricorda Piana commentando alcuni passi di Husserl

“significa porre l’accento sulla «dialettica» attraverso la quale essa si costituisce: l’identità (Deckung) soggettiva va intesa come ripresa costante di una distanza che non viene risolta ma accomunata (…) L’ego è temporale nel distanziare sé da sé stesso e costantemente si ritrova in comunanza (Gemeinschaft) con se stesso…”83.

La Gemeinschaft mit mir, la comunità con me stesso84, consiste proprio, afferma Husserl, in una “dilatazione” della sfera dell’io, che è il preludio alla Gemeinschaft mit Anderen,comunità con gli altri85. Questa dilatazione è temporale, deriva anzi dal fato che la monade non è dunque nel tempo, ma è essa stessa temporalità (Zeitlichkeit) e temporalizzazione (Zeitigung).

L’altro in me, si manifesta, afferma Husserl, nella forma del tempo che non trattengo più come presente (che non è più ri-tenzione) e che diventa passato. Esattamente ciò che il depresso-malinconico, secondo Binswanger tende a non voler fare: lasciar andare la linea del presente, smettendo di trattenerla attraverso la ritenzione e la ritenzione della ritenzione e così via, per farla (appunto) tramontare.

Ora il passato che non trattengo più manifesta il volto dell’Ananke: esso non è più disponibile a farsi modificare. L’impressione originaria che la ritenzione aveva tentato di trattenere creando una sequenza (quelle delle note musicali o di se stesso assunto a melodia impossibile) è sprofondata. Ed è dunque il passato – l’altro in me – semmai, al contrario, che può modificare l’io attuale.

Il passato, infatti, non essendo un semplice trascorso, ma avendo il carattere di un indisponibile (che scorre in avanti e indietro ma in modo trascendente rispetto al flusso attuale dei vissuti), produce in me una modificazione intenzionale. Scrive Husserl nella Krisis:

“… lo stesso io che ora è attualmente, in ogni passato che sia suo è, in un certo modo, un altro; è appunto ciò che era e che ora non è, eppure, nella continuità del suo tempo, è quell’uno e medesimo io che è ed era e che ha il proprio futuro davanti a sé”86.

Il passato dunque non è più coda trattenuta dell’istante (traslato in ora e in presente allargato), né riverbero dello scontro tra passato e futuro.

Se però passato e futuro conformano la mia monade, la monade stessa non è altro che alterità rispetto a sé, sistema di alterazioni, divenire rispetto al quale ciò che diviene non è qualcosa ma l’inesteso su cui premono le alterazioni possibili, dunque il sé non sarebbe altro che l’altro dell’altro, sistema di equazioni in cui le alterazioni tornano, ogni volta di nuovo, sul punto che non è punto ma solo inizio (appunto: eterno ritorno dell’uguale).

Nella quinta meditazione cartesiana di Husserl il parallelo esplicativo tra il passato e l’estraneità è forse più netto:

“Come il mio passato, postomi nel ricordo, trascende il mio presente vivente come modificazione di esso, così analogamente l’essere estraneo, dato nell’appresentazione, trascende l’essere mio proprio. Dall’una e dall’altra, la modificazione sta come momento di senso, nel senso stesso”87.

Questo «altro» ha una potenza modificatrice rispetto alla mia sfera. Tuttavia, un tale modificare incide proprio come occasione di auto-appercezione dell’Io in quanto temporalizzazione, giacché il passato, o quello che in modo estremo Lévinas delinea come «passato profondo», è un aldilà dell’immanenza che, da posizioni distanti, nella lontananza flussi di vita ormai remoti, ha il potere di modificare l’attualità.

Dire «passato» significa indicare un blocco di tempo che – cronologicamente – trascende la lunga curva dell’attualità, sebbene tale blocco non sia propriamente un blocco ma una diversa fluenza capace di agire sulla complicazione dell’istante presente, sino ad una divaricazione limite che è dolore, gioia, paura ovvero desiderio di fuga: uno “staccarsi da se stesso” dice Schelling88.

Tuttavia lo staccarsi da se stesso, non è lo staccar via del tempo che fu. Ciò che viene superato non è il passato, bensì il sé stesso (e l’idea che vi sia un vero che rappresenti la nostra identità). Il passato, invece, non è propriamente superabile89: anzi, mediante il superamento di se stessi il passato diviene un altro, un diverso, che altrimenti non sarebbe potuto affiorare nella sua semovenza.

Se non vi fosse il senso del passato – e della sua estraneità – come altro-in-me, non vi sarebbe coscienza neppure del «verso» che il passato impone sulla diversità dell’istante (cioè sulla diversità dell’io-altro come instante).

Con lo staccarsi da se stesso, dunque, al livello temporale ci si stacca dal tempo rettilineo che procede numericamente tale per cui, il presente sarebbe solo la punta del passato dove gli istanti sono sempre un’«ora» giustapposta nella linea che così avanza, sia dal tempo che succede (Chrónos) secondo cui, l’«ora-che-è» condannerebbe l’«ora-appena-stata» come «ora-non-più», come semplice non-essere: dunque ciò che si stacca, in realtà, è il Sé inteso come progresso (un procedere rettilineo in avanti) che l’io come abitatore del solo presente, dell’«ora» indipendente dagli altri «ora»90.

Bisognerebbe, invece, meditare più a fondo sul passato (trascendente), non quale misterioso sorpasso, né quale ineluttabile invecchiamento di un nucleo o quale variazione del tema, quanto piuttosto quale nuova creazione: una scultura del tempo dal tempo, plasmata nella riflessione (o nella rimemorazione) piuttosto che nel ricordo, e che ha una propria diversità ambiguamente configgente e collidente con l’attualità. Il passato possiede, in altre parole, come diceva Nietzsche, un verso contrario, una sua testa capace di sbattere contro la testa del futuro. Il passato non si può sorpassare, ma solo creare91 (dove anche il dimenticare è una forma di creazione). Creandolo, si attua quello sprofondamento decisivo che lo rende “altro”, cioè né sorpassato, né contiguo rispetto all’Io: questo passato, sebbene possa avere il tratto temporale dell’ekstatikon, non è propriamente fuori di me.

Da questo punto di vista, il passato come altro, come l’altro-in-me, costituisce una variazione originaria capace di mettere in dubbio lo stesso senso di «normalità».

Sotto questo aspetto, per Husserl, il ricordo si distingue dalla ritenzione, in quanto è riproduzione di un vissuto, ri-presentificato nella sua perduta originalità92: ma questa opera di ricostituzione non è semplicemente recuperatoria, in quanto l’io attuale agisce, mediante fantasia93, quindi con libertà94, sulla materia riprodotta e, allo stesso tempo, il il vissuto passato, tradotto in dato psichico, s’annuncia alla coscienza ponendo una sua direzione di senso, la cui forza è quella dell’essere già divenuto, per quanto, nel ricordo esso continui a divenire.

La monade, infatti, vive attraverso l’attenzione (l’attualità del suo flusso di vita). Tutto ciò che da questo flusso (spingendosi oltre la ritenzione della ritenzione) si stacca, trascina l’io in quanto l’io che giace inviluppato nei suoi atti remoti e lo riporta indietro – attraverso il ricordo – modificato una seconda volta, fino a qui.

Eppure ciò che si stacca dalla ritenzione e dalla «ritenzione della ritenzione», vale a dire dal presente allargato, si stacca – per certi versi – da Chrónos.

Infatti, è la linea cronologica che non riesce più a trattenere il passato. Lo sprofondare del tempo che si riteneva di poter trattenere è il risultato del decreto di Chrónos. Tuttavia, proprio perché il passato si mostra improvvisamente come altro, come diverso rispetto alla successione e poiché tale diversità – allora – non è stata propriamente divorata bensì persiste come estraneità nella monade, emerge il tratto aionico di un passato che muove e si muove autonomamente tornando – sempre – ad alterare l’io che si presumerebbe identico a sé (oltre che normale). Il senso dell’anomalia allora dipende da questa variazione del tema che diventa dispersione del tema stesso, dunque smarrimento per il fatto che il passato risuoni come altra sinfonia, proprio nel mentre si cerca di anticipare il suono del futuro. Il passato, allora diventa oggetto di gioco, insieme di pedine, non perché le pedine o il gioco sia diverso dal giocatore di cui è diretta emanazione, ma anzi perché il gioco è un giocare con sé stesso in quanto altro, con la diversità che il tempo offre come occasione di gioco, come kairós pur apparentemente sorpassato, ma ancora lì, nel divenire che non cessa di divenire.

La trascendenza dell’io passato, allora, è traccia della trascendentalità dell’io stesso che gioca facendo e disfacendo, senza arrestarsi mai, ma anzi tornando su di sé in quanto questo tornare è solo un tornare sul tempo come tempo.

Questa trascendenza dell’io passato, assunta da Husserl come parallelo esplicativo dell’estraneità, è una trascendenza interna al senso stesso di io, una divaricazione entro cui il carattere di extraneus si annida inconfessato ed irrisolto95.

Che, tuttavia, il passato sia eversivo rispetto al tentativo dell’io di chiudersi in identità, lascia intuire che esso possa manifestarsi come rimorso. Nel rimorso, come discute Jean Nabert, l’io, infatti, percepisce in sé un passato che poteva essere anche altrimenti.

In questo modo, nell’esperire una potenzialità propria che è rimasta ‘potenza senza atto’, l’io esperisce la sua colpa: che io avrei potuto essere-agire altrimenti, è, infatti, motivo di diversificazione all’interno della Monade e del suo proprio poter-essere\dover-essere; in questo senso, afferma Nabert, la colpa illimita l’io e lo trasla come altro96.

La colpa è dunque un’appercezione di un io che è altro in virtù di una possibilità radicata nel passato e rivitalizzata nel presente97: una possibilità sorpassata che però ha una consistenza, una sua presenza. L’io, in un certo senso appresenta, a partire dall’alterazione del suo presente, un altro io, una pluralità di io alternativi e possibili, ulteriori rispetto all’io attuale, che giocano la loro partita – ancora – all’interno del poter essere.

Questa illimitazione parte sempre dall’io trascendentale, il quale scorge una possibilità disgiuntiva radicata nel suo passato (l’aver potuto essere altrimenti) e la aggancia ad una valutazione in virtù della quale tale possibilità avrebbe avuto ed ha tuttora un senso e, anche, in verso temporale.

Il disallineamento temporale tra l’io che riflette sulla possibilità passata e l’io incluso nell’atto possibile del passato stesso (l’io che ha agito ma che avrebbe potuto agire altrimenti) sembra porsi come “condizione” stessa dell’idea di colpa: essendosi rifluidificato il passato, vi sono cioè, due temporalità fluenti, lungo le quali scorre una duplicazione dell’io; non-identità scorre nel senso o di un ‘irreparabile’ o di un rinnovato dover riparare98.

Tale illimitazione non è, dunque, empirica, bensì trascendentale; e non tanto perché le circostanze empiriche eventualmente produttrici degli impulsi sensibili sottostanti all’aver-agito vengano sorpassate, e ci si ponga, come se esse non vi fossero mai state; quanto, soprattutto, perché innestando nel tempo passato un’altra temporalità, si esperisce il limite dell’identità stessa99, il punto di diffrazione, fors’anche l’impotenza intesa come straripamento delle possibilità dall’orizzonte del poter-essere concreto100; quindi, il limite come superamento necessario ed impossibile del limite stesso101. Ciò che, inoltre, afferma Schopenhauer, non solo provoca dolore, ma rende questo insopportabile102.

Dato che l’io che avrebbe dovuto essere altrimenti non lo è stato, ecco che questo io è davvero altro da me ed incompatibile con il flusso di vita. Egli è davvero sul limite, lì dove un altro – del tutto distinto da me – affiora.

Qui, il parallelo di Husserl tra il passato e l’altro-io potrebbe trovare la sua ragione d’inversione: non soltanto attraverso l’esempio del passato si può intuire la trascendenza dell’altro-io, ma, anche, solo attraverso la presupposizione, a priori, di un altro-io, è possibile comprendere, nell’io, il punto di frattura esibito dalla colpa, cioè il passato come ritenzione di qualcosa che non può essere trattenuto.

In altre parole, la colpa è pensabile solo come il precedere dell’altro-io nell’io, dove l’altro è portatore del perfezionamento dell’azione, cioè è il punto di rimozione dell’imperfezione. L’altro-io, però, una possibilità oramai irraggiungibile per l’io stesso, una possibilità trascendente che, nonostante la sua irrealizzabilità, si mantiene, però, in qualche modo, come possibile, provocando sofferenza103.

L’altro è però non mi sta di fronte104 ma è nascosto dentro di me. L’altro assume la forma di una simulazione, di un “come-se” giocato nelle alterazioni stesse proprie del tempo105, come quando, ad esempio, l’io presente “commercia con il suo passato, con l’io che non è più… – appunto – come se fosse un altro” 106. Eppure questo altro lungo le alterazioni del tempo agisce sotto l’ombra del tempo, sotto la pre-costitutività dell’Âion, usurpandone per così dire il luogo, giocando lui stesso – come il bambino gioca – il corso di vita che però è dell’io.

Ciò significa che nell’Io, l’intersoggettività opera già nella sua temporalità intenzionale. L’io, il tu, il noi, gli altri, avverte Husserl, sono determinazioni che pre-giacciono trascendentalmente nell’Io originario, nell’Ur-Ich107, e filogeneticamente affiorano già da sempre nelle prime forme cinestetiche dell’Ur-Kind108. L’estrema intimità dell’io, allora, coincide con suo essere, già da sempre, insieme ad altri. “La mia sfera d’appartenenza —scrive Housset— è quella della mia contemporaneità con tutti gli altri ego109.

In altre parole, rileva Hoffmann, il “pervenire-a-se-stessa (Zu-sich-selbst-kommen) della intersoggettività inizia in soggetti singoli, i quali —conformemente quanto afferma Husserl110— si destano nella vita cosciente”111; dal suo stesso verso, l’uomo è, allora, per essenza, “un essere intersoggettivo112.

Tale intersoggettività operante all’interno dell’io è parte integrale della temporalizzazione sui cui incidono i miei contemporanei, quelli che non ci sono più e quelli che ci saranno ancora, la storia implicita di cui – diceva Benjamin – ogni monade è oscura ricapitolazione.

L’ossessione, il dovere e la colpa manifestano il cortocircuito temporale dell’io, il suo sabotaggio nel suo tentativo di essere lineare, di procedere secondo un ordine di un tempo non altrimenti alterabile113.

Eppure, a partire proprio dalla nozione di tempo come Âion, questo ordine non appare concepibile. La multivettorialità di ogni porzione di tempo vivo, fa sì che ogni punto della linea sia vortice e che l’Io, quindi, sia destinato ad attraversare un percorso di rotatorie e slarghi improvvisi, entro cui la libertà sia primariamente, quella di associare e dissociare il dato temporale che egli stesso conforma. L’andamento dell’io è quindi complicato in origine da una temporalità su cui altre forme — cose, animali, uomini— insistono con il loro movimento, come già evidenziato nell’esempio della passeggiata.

Nel passato che si stacca dall’«ora» per significarla, nel futuro che cade sul senso dell’atto, o nel presente che si cerca di ricordare ancor prima che esso avvenga, si attua una modificazione radicale, un mutamento qualitativamente decisivo, nella costituzione relazionata e relazionale dell’io.

La possibilità del passato o il passato in quanto possibilità, fa emergere dunque in modo decisivo che l’io ha in sé il passato come altro e dunque è un altro, ma anche, specularmente, l’altro è in me, essendo l’alterità e l’alterazione un momento di passaggio e di trasfigurazione in cui l’io e l’altro giacciono annodati insieme (non dissimilmente al rispecchiamento delle autocoscienze di cui parlava Hegel).

Il sentire la colpa significa allora non solo avere il rimorso, ma avvertire la pretesa che l’altro – essendo un altro-io – esercita sull’io in quanto altro, sull’io-altro, secondo un rimando che il tempo – come cortocircuito – sa velare e rivelare e che, nella sua circolarità, è in grado di mantenere.

In questo senso, ancora Nietzsche, aveva compreso che sotto il senso di colpa, si nasconde in realtà il duro rapporto giuridico tra un debitore e un creditore, cioè il rapporto in cui “per la prima volta la persona si misurò alla persona”114.

Nietzsche si chiede infatti: da dove nasce questo oscuro senso di colpa? Allevare un uomo a fare promesse…115 renderlo un animale domestico, lento, prevedibile – e così consegnarlo alla morte. Avete presente la tristezza dello sguardo dell’animale domestico? La sua perdita di istinto? È l’effetto della promessa che ha fatto e che ora sente di dover mantenere.

L’uomo si così indebitato per promesse che neppure avrebbe potuto mai mantenere. E lì, una volta debitore, è entrato nella morsa del diritto che – nell’antica Roma prevedeva si dovesse pagare i debiti con tutti i propri beni presenti e futuri e se non si fosse stati in grado, anche con il corpo, che i creditori smembravano e si spartivano pezzo per pezzo. E così sotto il senso di colpa c’è sempre un debito nascosto ed un creditore che pretende di esigerlo, a costo di smembrare la coscienza; e il creditore a sua volta è debitore di un creditore più grande, perché vi è sempre un creditore del creditore, e così via, in un vortice di rimandi gerarchico di debiti-e-crediti, fino a Dio creditore assoluto (da cui deriva che l’uomo, già alla sua nascita, sia per essenza debitore con impresso il peccato originale).

È interessante dunque vedere che la genealogia – concetto già di per sé implicato nel tempo – conduce all’idea di un passato già compromesso da pesi inauditi che si rimandano l’un l’altro in un vortice infinito (che conduce sino a Dio). Anche la promessa è un modo per arrestare il divenire, per dominarlo e ridurlo ad obbligo e ad obbligazione.

Dio è allora garante e causa prima di un sistema di effetti da cui è proprio l’eterno ritorno (quale morte di Dio stesso) e la volontà di potenza (quale redenzione dal debito del tempo attraverso il tempo stesso) a poter costituire una liberazione.

La liberazione, come detto, consiste nell’assumere su di sé la necessità, l’Ananke (quasi che l’ananke fosse liberatoria rispetto al dovere implicato nel debito assunto), il destino, rispetto al quale la volontà opera una liberazione, una lievitazione di ciò che è pesante. E per questo, essendo la volontà di potenza rivolta verso il passato – a sospirare così volli che fossi – che essa è il contrario della colpa. E, allo stesso tempo, la colpa esprime il livello massimo del cortocircuito temporale, in quanto rivolta ad un passato immodificabile sotto cui si annida il rapporto più efferato sia dato concepire, laddove lo smembramento del corpo è solo l’esito spettacolare di ciò che avviene già a livello del vissuto. Chrónos soggioga infatti l’Âion interrompendone il fluire, la vita come corso, stringendo e costringendo il bambino a dover restituire i pezzi del gioco. Ma Chrónos a sua volta è soggiogato dalla logica dell’essere, in quanto la verità è solo adeguamento, nonché dalla logica del dover-essere, in quanto il tempo è solo il tempo astratto dell’adempimento, ovvero della sanzione. Il tratto inessenziale del divenire viene compreso e compresso tra il momento di assunzione della promessa e il momento in cui la promessa viene onorata: esso si qualifica come un mantenere, appunto, la promessa. La volontà di potenza, dunque, con la sua unica promessa che è quella di tramontare, dice di sì al passaggio, alla morte implicata nel divenire e, allo stesso tempo, alla nascita che – come in una rimemorazione – ci riconduce di nuovo fino a qui.

È ora però di dover comprendere come ripercorrere – in avanti e indietro – il corso della vita che va e la morte che s’annuncia come ombra stessa del divenire.

5. Ritornare: rimemorare, ripetere, riflettere

Vi è una modalità dell’atto intenzionale a cui Husserl assegna un ruolo particolare. Essa è la ri-memorazione, la Wieder-erinnerung.

Essa non è un ricordo, ma è un tornare-di-nuovo sul ricordo. Dal punto di vista logico, la rimemorazione è il presupposto di una identificazione sintetica dell’oggetto116, giacché “se non ci fosse la possibilità di rimemorare sarebbe insensato parlare di medesimo oggetto117 e ciò proprio per il carattere temporale che altera costantemente, in senso eracliteo, le cose. Tuttavia lo steso oggetto cosa significa? Giacché l’oggetto si trova inviluppato nel vissuto, si tratterebbe – anche – dello stesso vissuto a cui – in quanto già ricordato – si ritorna. Se fosse un ricordo, sarebbe l’evocazione di un vissuto passato (dunque trascendente) che agisce ora sul presente vivente come modificazione. Ma la rimemorazione per andare a costituire un’identità – che è solo un’identità temporale – compie un’altra azione. Essa, infatti, torna indietro nel passato come punto di partenza possibile (originario ma allo stesso tempo ripresentificato ora) da cui poter ripartire in avanti verso il presente in quanto suo proprio futuro118.

In questo senso la nozione di rimemorazione è analoga a quella di ripetizione offerta da Kierkegaard (termine, per lui, risolutivo di quel che fu reminescenza presso i greci), laddove annota che “ripetizione e ricordo sono lo stesso movimento, tranne che in senso opposto: l’oggetto del ricordo viene infatti ripetuto all’indietro, laddove la ripetizione propriamente detta, ricorda il suo oggetto in avanti. Per questo la ripetizione, qualora sia possibile, rende felici, mentre il ricordo rende infelici”119.

E, a differenza appunto del ricordo ma anche della speranza, infatti, è proprio il ripetere l’esperienza (ripeterne la possibilità) tornando dal passato di nuovo qui, al presente, a poter rendere felici120.

Con la rimemorazione, infatti, nel senso delineato da Husserl, non si ricorda un’impressione originaria121, ma si ripercorre il corso vivente che, via via, ha condotto dall’impressione stessa fino a qui; non si salta dunque al momento passato per coglierlo o lasciarlo affiorare, ma ci si posiziona all’inizio della strada che, a partire da un punto, ha condotto (di nuovo e per la prima volta) fino al presente che ne è ripresa – così come ad esempio ha inteso fare Proust, in senso narrativo, con la sua ricerca del tempo perduto (che, quasi in senso auto-ciclico, si conclude con le parole: “…nel tempo”).

Essa dunque partendo dal presente (dall’atto che rimemora) mi colloca – grazie al ricordo (Erinnerung) – lì dove ha inizio il flusso di vissuti che mi conduce – di nuovo – fino al presente stesso in quanto altro (giacché tale rimemorare lo ha modificato).

La rimemorazione, dunque, è l’atto di recuperare l’inizio (un diverso inizio) da cui muovere, di nuovo, per rivivere – potenzialmente l’intero corso del tempo che, in qualche modo, poi, mi riconduce al presente (in quanto questo è il futuro del passato è stato). Io D esempio mi pongo nel momento in cui ho iniziato la scuola: non è un ricordo dell’impressione del primo giorno di scuola (che è pur presupposto in esso), bensì è un collocarmi lì per poi andare in avanti, lungo la sequenza di vita, i compagni di banco, le maestre, i primi esami e a quel fluire e rifluire che, con tutte le sue ramificazioni possibili, che corre, di nuovo, fino a qui.

La struttura è circolare in quanto vi è un’appercezione dell’io che si percepisce lì dove il punto-originario ha formato un presente vivente. E dunque vi è un doppio presente vivente, di cui uno è passato, ma ri-presentificato ora e scorre verso il presente quale suo futuro, mentre l’altro è presente, ma si de-presentifica – cedendo dunque la sua attenzione a ciò che è attuale – proprio per recuperare la vividezza originaria del flusso vivente.

Nella rimemorazione, viene dunque riprodotto, per Husserl, l’antico presente, che nella sua fluidificazione, ha condotto la coscienza verso il futuro che è qui ed ora e che così, però, muta – radicalmente – per farsi corso di vita. Essa è, dunque, una riproduzione di qualcosa in tutta la sua durata e in tutta la sua successione. Se, infatti, come afferma Husserl, “ogni ricordo contiene intenzioni di aspettazione il cui riempimento conduce al presente”, la rimemorazione, che è ripresa anche di tali aspettazioni, ha “un orizzonte rivolto al futuro, e precisamente al futuro di ciò che è rimemorato, che è un orizzonte determinato”122, giacché è ovvio che ponendosi nel punto originario del flusso dei vissuti, lo stesso presente da cui muove la rimemorazione, debba apparire come il futuro.

Ora, è evidente che il futuro e il passato qui, ad esempio, muovono l’uno contro l’altro, in direzione contraria e non vi è conciliazione solo per il fatto che l’io – ad esempio – ponga in narrazione il presente vivente originario (del passato) così recuperato, giacché la mediazione del linguaggio conforma il flusso di vissuti in esperienza (che è il lato esteriore del vissuto) e l’esperienza in sequenza logica e crono-logica, con declinazioni e connessioni di tipo essenzialmente causale (permeati dalla consecutio – e persecutio – temporis). Tuttavia, il vissuto si da solo in originale.

Dunque il tentativo della rimemorazione è il tentativo di ripetere ciò che è irripetibile secondo una doppia circolarità intrecciata, dove l’impossibilità di recuperare il momento perduto (annientato da Chrónos), è al tempo stesso la possibilità propria di porsi lì dove l’annientamento è avvenuto – e così far riverberare ciò che del tempo non era una sequenza di “ora” bensì il corso ininterrotto e non divisibile di una vita: dunque ciò che ritorna è l’aspetto non divisibile (vivente) del tempo, che unisce punti lontani nell’unico corso che da qui a lì – per doppio incrocio – ci ri-lancia. Per questo rimemorare rende felici.

Tale corto-circuito, infatti, fa emergere una scissione (e divaricazione) dell’io, ma senza gli esiti della colpa, in quanto, come afferma Husserl nella Krisis, il presente in cui si rimemora, come detto, viene tolto, attraverso una de-presentificazione (EntGegenwaertigung) e l’io, così, si auto-estranea (Ent-Fremdung) per far emergere un atro-io che pur era compresente in me, che è quello implicato nel flusso dei vissuti rimemorato e che ha portato fino all’io – così – estraniato123. Ma questa doppia estraniazione, mi regala l’opportunità (qui come un kairòs) di sentire propria questa vita che torna e, allo stesso tempo, di lasciare che l’alterità (l’alterità dell’io, del tempo, degli altri che sono implicati in questo rimemorare, delle cose stesse) sia altra (senza doverla o poterla ridurre). Così io mi ripeto: come estraneo.

Nel rimemorare, dunque, il tempo manifesta il tratto originale dell’estraneità124. E tale estraneità non è qualcosa di cui io possa disporre (esattamente come del tempo). Ecco che, sul solco di Husserl, per Theunissen, la rimemorazione (così come l’attesa) è una modalità di alterazione immanente dettata dall’altro (di un altro io e proprio) che, lungo proprio la temporalizzazione, giunge fino a me125.

Nella riflessione, il punto è ancora più marcato. Husserl non a caso definisce la riflessione un “andare avanti verso l’origine”.

La riflessione, a differenza dal ricordo e dalla rimemorazione, infatti, è un rapporto di atti liberi – tra flessione originaria e ri-flessione –, in quanto svincolati dal dover riprodurre il ricordo di un oggetto per identificarne i contorni o di dover tener conto del passato in quanto vissuto per riviverlo daccapo. L’atto che viene riflettuto ha infatti un inizio che non è l’impressione originaria del ricordo né il punto di partenza della rimemorazione, bensì l’inizio in senso originario che viene ripreso per la prima volta.

Il nucleo di questo inizio è latente (e trascendente): esso sprofonda nel Welterfahrende Leben, nel flusso originario del tempo che fa esperienza del mondo (è il Vor-Ich, l’io prima dell’io – anche nell’esperienza prenatale – e l’Ur-ich l’io originario, quello proprio impresso nella precostitutività del tempo: il bambino che gioca le stagioni del mondo).

Ciò che viene cercato nell’atto riflessivo non è dunque il decorso temporale (da far riemergere), ma la premessa trascendentale implicata nell’atto temporale di una coscienza che si dirige – sempre – verso qualcosa. È l’inizio che è, appunto, per essenza, non-riflessivo o come direbbe Sartre irriflesso o ad ogni modo pre-riflessivo, che viene appunto – per la prima volta – riflesso. Prima di questo inizio non c’è nulla che appartenga alla coscienza, e per questo esso non è riflesso: esso infatti esprime la flessione originaria di una coscienza che cade ed accade in quanto tempo. Esso è l’inizio di un mutamento dell’io che sta per fare o disfare il corso del suo tempo (essendo, esso stesso, questo correre e scorrere che si fa, appunto, corso).

L’io che riflette tenta in realtà dunque di scavarsi il passaggio verso un’origine che è la sua propria coscienza irriflessa.

Dato che questa origine viene colta ed esplicitata per la prima volta, essa diviene il vero epicentro dell’atto di riflessione.

Nell’atto riflessivo autentico, dunque, ciò che viene “riflesso”, come un fascio di luce che viene specchiato, è anzitutto un nucleo di libertà originaria (che quella propria espressa dall’Âion) la quale “temporalizza”, e “si temporalizza” a partire da un punto (e in ogni punto). È proprio questa origine in cui l’io irrompe sbilanciandosi in avanti, con tutte le sue vacue intenzioni d’atto, le sue anticipazioni, aspettative e protenzioni, a costituire il fondo ultimo verso cui muove la riflessione.

Per questo motivo, si può dire che, nella riflessione, l’io muove sia in avanti, nella attualità fluente del suo riflettere, verso l’origine, sia indietro al fluire passato, il cui è implicato il futuro. I versi sono invertiti come in uno specchio: l’origine (anche quale l’Ur-treiben, spinta originaria del divenire) e il telos (diventare ciò che si è) si mostrano in questo circolo, in questa circolazione, che l’atto ri-flette.

In questo senso, l’oggetto della mia riflessione non è tanto il “me stesso”, non è il che cosa ne è di me, o il che cosa io sono, bensì è l’io che in quanto inizio, si trova implicato all’interno della materia riflettuta (eventi, fatti, stati), che non è un inizio assoluto bensì – sempre – un cominciare di continuare; dunque non “io sono” (né “cogito ergo sum”) ma il pre-riflessivo io-che: il relativo, iletico, temporale “io”.

Così, la riflessione non è ricordo, né rimemorazione, né riproduzione fantastica di un oggetto, ma recupero di una possibilità originaria: l’atto esce dalla flessione, espatria dal circuito, per vedere l’origine della sua possibilità propria, origine del tempo che è di là a venire (e che è già andato via).

La riflessione tende ad abbracciare allora l’intero corso, perché quell’io (la flessione originaria, l’Ur-Ich e l’Ur-Kind) è il corso della vita assunto nella sua origine (che non è inizio, ma è il sempre diveniente del bambino che gioca) dunque nella sua interezza.

La riflessione ha dunque struttura simile della volontà di potenza. Solo che quest’ultima, impone, di più, un volersi che redima dal senso di colpa.

In questo riflettere vi è anche un dimenticare, così come insegna anche Nietzsche, rispetto alla pesantezza dei legacci che imporrebbero di trasformare il vivere in una storia di ruminazioni senza senso.

Nell’io pre-riflessivo, infatti, la memoria neppure esiste forse; come capita a volte in vecchiaia, non si sa neppure a cosa servano i pezzi del gioco qui, di fronte a noi, li si guarda come fossero strani attrezzi capitati lì per caso e la vita è frammento di deserto sul limite del mare, dove il bambino si scioglie, senza far rumore, in un gioco che sembra insensato o dissociato, ma ha sempre l’origine (Ur-kind – appunto) in sé e, nel ripiegare con attenzione le cose, le mette via per tramontare.

Chi misura il tempo qui? Ogni misurazione del tempo è davvero – come direbbe Bergson – “il fantasma dello spazio che assedia la coscienza riflessa”126

C’è qualcosa, in questo riflettersi, che è un tornare dove non siamo mai stati. Anche Dioniso si riflette nello specchio frantumandosi in schegge molteplici e ritornando ad un’unità trasfigurata. È una forma di resurrezione nel tempo dal tempo e, allo stesso modo, un perdersi irreversibile.

La riflessione è proprio questo movimento di ritorno dove non siamo mai stati127. Essa è forse una retroversione (e per certi versi eversione) all’interno dell’irreversibilità. Un ritornare all’inizio nella controcorrente di un andamento irreversibile. In termini fisici, ciò sembra ricalcare la difficoltà di conciliare la reversibilità microscopica con l’irreversibilità macroscopica128.

Allo stesso modo, nell’eterno ritorno, come avevamo detto, tutto ritorna, eppure tutto è irreversibile. Anzi eterno ritorno dell’uguale dice, in modo estremo, “irreversibilità”. Una volta che qualcosa accade, però, essa non si toglie più: il cerchio la mantiene129.

L’opposto dell’irreversibile, il reversibile, sarebbe dunque qualcosa che può ancora succedere altrimenti o non succedere affatto. O che, se anche successe, potrà essere che non succeda più, o, ancor meglio, che sarebbe potuta/dovuta accadere altrimenti e da qui, abbiamo visto, il senso della colpa. In questo senso: colpa, ossessione e dovere non sono forme di un tempo reversibile pericolosamente (disperatamente) calate in una irreversibilità? Non sono queste manifestazioni dell’idea latente che qualcosa può riaversi e può differenziarsi rispetto a quello che è per il tempo o attraverso il tempo? La riflessione, in ciò, ha un intento correttivo? Manifesta cioè l’irreversibilità (di ciò che è reversibile)?

Se nel cerchio fosse, infatti, indifferente percorrere una parte o un’altra della curva, se cioè fosse indifferente andare e tornare, si potrebbe percorrere solo un versante avanti e indietro come se si fosse andati solo avanti o solo indietro, giacché tutti i punti sono uguali. Andare su e giù per un semicerchio o percorrerlo per intero sarebbe uguale.

Se fosse così l’eterno ritorno sarebbe simile alla rimemorazione; non sarebbe altro che una lunga rimemorazione, la quale, partendo da un punto (arco -porta carraia – istante), si distenderebbe avanti e indietro curvando quel tanto che ogni andare indietro sarebbe un andare avanti e viceversa. Rimembrare il passato od il futuro sarebbe identico, identico sarebbe partire ogni volta dal punto di origine e ripercorrere la strada verso il punto da cui si rammemora, verso il presente.

Ma questo significherebbe ragionare in termini puramente spaziali, se non geometrici. Significherebbe ragionare per dimensioni dissociate: il fatto che un evento si ripeta o non si ripeta quale «lo stesso» non ha un senso fisico, bensì metafisico (ma metafisico secondo il tempo).

La reversibilità completa avverrebbe infatti solo se si ripercorre tutto il cerchio e solo se ogni punto fosse revocabile quanto al suo contenuto e sostituibile: il che sarebbe assurdo. Come sarebbe assurdo pensare di mantenere una stessa dimensione —quella del tempo— modificando le altre tre dello spazio.

Invece il cerchio ha una corrente interna, che è la corrente dei vissuti (del vivere): le due teste sbattono contro la porta carraia: lì la riflessione interviene, nel suo tentativo, proprio in questo scontro. Va dal presente verso il passato ma in realtà ci va per giungere al futuro. Muove verso il passato perché sa che lì vi è raggomitolato il futuro e questo futuro è portato, dischiuso (fatto esplodere) proprio dalla riflessione. Infatti, la riflessione è una speranza sul passato ed un ritorno della possibilità futura. Questa reversione è completata, direbbe Nietzsche, dal volere tutto questo così come esso è stato ed è130: volere il passato come se dovesse ritornare e ricordare il futuro che da sempre è.

Questa speranza sul passato sembrerebbe abusiva, illecita giacché – proprio come nella struttura della volontà (di potenza) – essa dovrebbe rivolgersi al futuro. Eppure il passato è – come detto – connesso all’inizio, al principio, al gioco dell’Âion. E qui ci riconnettiamo ad Eraclito, laddove, nel famoso frammento n. 18 (secondo la numerazione Diels-Kranz) dice:

“Chi non spera, non troverà l’insperabile [anélpiston], perché è introvabile [anexeréuneton] e inaccessibile [àporon]”.

Qui, l’insperabile è posto al participio passato, è “insperato”, ciò che da altri non è stato sperato in quanto difficile da sperare (o sottratto alla speranza degli oppressi): è, in ogni caso, è l’assenza di speranza a renderlo introvabile e inaccessibile. Esso è in realtà qui, in prossimità, la possibilità originaria. Sperare è in questo senso attività con la quale accediamo (anche conoscitivamente) a qualcosa che altrimenti resterebbe inaccessibile (come la porta che conduce alla nostra possibilità originaria). La speranza allora, sebbene (analogamente l’utopia) sia – essenzialmente – rivolta al futuro, mostra che il futuro stesso – nella rotazione continua ed infinita – è l’origine e, a sua volta, l’origine è il télos verso cui tendiamo: essa, dunque, nella sua imperscrutabilità, permea l’intera storia131.

La riflessione mostra, in questo senso, la reversibilità nel ri-corso alla possibilità originaria. Ma questo ri-corso avviene, e può avvenire, solo perché opera sulla irreversibilità degli eventi (sul corso – appunto – del vivere).

Essa, se vogliamo, manifesta il tempo, perché si pone sulla soglia estrema di uno sdoppiamento impossibile quello di un altro io all’interno dell’io: un io che ritorna per sorpassarsi nel suo inizio, per ri-presentarsi – di nuovo.

Tuttavia essa non conduce ad una ripetizione dell’identico. Essa si ferma sulla soglia di questa duplicazione. Essa si ferma sulla soglia. Giacché la reversibilità della coscienza dell’«ora» non importa la reversibilità anche dell’«ora». Così il vivere non è reversibile. Ciò comporta che la possibilità originaria sia – appunto – flessione originaria (il principio stesso della nostra finitezza e – dunque – la nostra morte) e ciò nel senso che tenteremo di mostrare nelle nostre conclusioni.

La speranza – in questo senso – rivela, come suggerì ancora Bloch che l’inconscio è nel futuro: nel futuro è la nostra infanzia132 – il nostro paìs paizòn – non importa quanto non ricorderemo o sapremo rimemorare: l’utopia del tempo che verrà, non è dissimile all’origine – alla possibilità propria – alla porta spalancata che non varchiamo, alla luce che noi stessi riflettiamo, di nostra luce, tramontando.

1 Si tratta della terza accezione aristotelica di qualità: cfr. Aristotele, Metafisica E 1020 8. 

2 Aristotele, Fisica, IV, 10.

3 Leopardi, in ordine alla forza delle passioni, ebbe a dire: “la ragione non è mai efficace come la passione” per cui “non bisogna estinguere la passione con la ragione, ma convertir la ragione in passione”: G. Leopardi, Zibaldone di pensieri, Newton, Roma, 2001, p.100 e cfr. pp.293-294. Ovvero come affermò Hume, mentre la passione determina direttamente i fini, la ragione si limita ad organizzare i mezzi per perseguirli (al pari della differenza tra governo e pubblica amministrazione): cfr. D. Hume, Saggio sull’Intelletto umano, Bompiani, Milano 2003, p.551ss.

4 Cfr. il mio Passione e Evento, cit., II e III, in cui ho mostrato come la passione, anzi, a differenza di emozioni, impulsi e pulsioni, si strutturi temporalmente come «durata» e come «fedeltà all’evento» che la stessa passione – attraverso l’immaginazione – prefigura, tenendolo di mira e ponendolo come irrinunciabile (nel senso proprio del muß geschehen ) (e così l’odio, l’amore, ) né per svolgere le linee dello «slancio vitale» nel senso di Bergson o del «desiderio» (così come mutuato dalla lezione di Hegel, che, attraverso Kojève, giunge fino a Lacan). Tali fenomeni sono temporali (e, per certi versi, temporalizzanti) e per cui sono rivelativi della continuità del tempo (si pensi appunto allo slancio vitale come riflesso – e rivelazione – della durée bergsoniana o al desiderio che non si esaurisce con la consumazione dell’oggetto ma rinvia ad altro strutturandosi come desiderio del desiderare stesso – lungo una struttura di rinvii ed alterazioni virtualmente infinite o indefinite).

5 Cfr. il capitolo contenuto in J.P. Sartre, L’essere e il nulla, cit., III, 1 dal titolo «Menzogna e Malafede», nel quale Sartre riprende la nozione Husserliana di coscienza intenzionale (dentro la quale non vi è nulla, giacché essa è solo un esplodere-verso) così sintetizzandola: “la coscienza è un essere per il quale, nel suo essere, c’è coscienza del nulla del suo essere”: essa dunque rivolge la negazione che è le è propria sempre verso qualcosa che è fuori di sé. Tuttavia quando “la coscienza, invece di dirigere la negazione verso l’esterno, la rivolge verso se stessa” si ha l’atteggiamento di “malafede”. Ora, pur avendo la malafede in apparenza struttura simile alla menzogna (dove però chi mente sa di mentire e conosce la verità distorta o sottaciuta), ma è in realtà diversa (e più radicale): infatti nella malafede “colui a cui si mente e chi mente sono una sola e medesima persona, il che significa che devo sapere, in quanto ingannatore, la verità che mi è occultata in quanto ingannato. Meglio ancora, devo sapere con la massima precisione questa verità per nascondermela più accuratamente e questo non in due momenti diversi della temporalità il che a rigore permetterebbe di ristabilire un’apparenza di dualità, ma nella struttura unitaria di uno stesso progetto. Come dunque potrebbe sussistere la menzogna, se la dualità che la condiziona è soppressa? A questa difficoltà se ne aggiunge un’altra che deriva dalla totale trasparenza della coscienza. Colui che è affetto da malafede deve avere coscienza del la sua malafede poiché l’essere della coscienza è coscienza di essere. Pare dunque che io debba essere in buona fede almeno in questo, che sono cosciente della mia malafede. Ma allora tutto il sistema psichico si annulla. Bisogna convenire, infatti, che, se tento deliberatamente e cinicamente di mentirmi, fallisco completamente nell’impresa, la menzogna s’allontana e scompare allo sguardo; è distrutta, alle spalle, dalla coscienza stessa di mentirmi, che si innalza spietatamente al di qua del mio progetto come la sua condizione stessa. Siamo in presenza di un fenomeno evanescente”. È ancora interessante capire in senso però e in che modo, tale struttura (fenomenologica) debba ritenersi, per Sartre, più radicale di quanto affiora dalla ricerca psicanalitica. Scrive ancora Sartre: “per sfuggire a queste difficoltà, si ricorre volentieri all’incosciente.

Nell’interpretazione psicanalitica, p.e., si utilizzerà l’ipotesi di una censura, concepita come una linea di demarcazione con dogana, servizio di passaporto, controllo della valuta, ecc., per ristabilire la dualità dell’ingannante e dell’ingannato. L’istinto o, se si preferisce, le tendenze primitive e i complessi di tendenze costituiti dalla nostra storia individuale rappresenta qui la realtà. Non è né vero né falso poiché non esiste per-sé. È semplicemente, proprio come questo tavolo che non è né vero né falso in-sé ma semplicemente reale. Quanto alle simbolizzazioni coscienti dell’istinto, non devono essere prese per apparenze, ma per fatti psichici reali. La fobia, il lapsus, il sogno esistono realmente come fatti di coscienza concreta, allo stesso modo che le parole e gli atteggiamenti del mentitore sono comportamenti concreti e realmente esistenti.

Soltanto, il soggetto si trova davanti a questi fenomeni come l’ingannato davanti ai comportamenti dell’ingannatore. Li constata nella loro realtà e deve interpretarli. C’è una verità della condotta dell’ingannante; se “l’ingannato potesse ricollegarla alla situazione in cui si trova l’ingannante e al suo piano di menzogna, essa diventerebbe parte integrante della verità, a titolo di condotta menzognera.

Parimenti, c’è una verità degli atti simbolici; è quella che scopre lo psicanalista quando li ricollega alla situazione storica del malato, ai complessi incoscienti che essi esprimono, allo sbarramento della censura. Così il soggetto s’inganna sul significato dei suoi comportamenti, li coglie nella loro esistenza concreta ma non nella loro verità, privo della possibilità di inquadrarli in una situazione primitiva e in una costituzione psichica che gli restano estranee. Gli è che, in effetti, Freud, con la distinzione del ciò e dell’io, ha diviso in due la massa psichica. Io sono io, ma non sono ciò. Io non ho una posizione privilegiata riguardo allo psichismo non cosciente. Io sono i miei propri fenomeni psichici, in quanto li constato nella loro realtà cosciente; p.e., io sono questo impulso a rubare il tale o tal altro libro esposto in questa vetrina, faccio corpo con esso, lo illumino, e “mi determino in funzione di esso a commettere il furto. Ma io non sono questi fatti psichici”. E ancora. “Così la psicanalisi sostituisce alla nozione di malafede l’idea di una menzogna senza mentitore, permette di capire come io possa non mentirmi, ma essere mentito; poiché essa mi pone in rapporto a me stesso nella situazione di altri di fronte a me, sostituisce la dualità dell’ingannatore e dell’ingannato, condizione essenziale della menzogna, con quella del ciò e dell’io, introduce nella soggettività più profonda la struttura intersoggettiva del Mitsein. Possiamo essere soddisfatti di queste spiegazioni?”. “La psicanalisi non ci ha fatto guadagnare nulla, poiché, per sopprimere la malafede, ha stabilito tra l’incosciente e la coscienza una coscienza autonoma e in malafede. Gli è che i suoi sforzi per stabilire una vera e propria dualità-e perfino una trinità es, ich, ueberich, che si esprime attraverso la censura hanno messo capo soltanto ad una terminologia verbale. L’essenza dell’idea riflessiva del “dissimular si “qualche cosa, implica l’unità di un medesimo psichismo, e di conseguenza una duplice attività in seno all’unità, che tende da una parte ad affermare e fissare la cosa da nascondere e dall’altra a respingerla ed occultarla; ciascuno dei due aspetti di questa attività è complementare dell’altro, cioè lo implica nel proprio essere. Separando con la censura il cosciente dall’incosciente, la psicanalisi non è riuscita a dissociare le due fasi dell’atto, poiché la libido è un conato cieco verso l’espressione cosciente ed il fenomeno cosciente è un risultato passivo e truccato; essa ha semplicemente localizzato al livello della censura la doppia attività di repulsione e attrazione. Restano ora, per rendere conto dell’unità del fenomeno totale rifiuto della tendenza che si traveste e “passa” sotto forma simbolica da stabilire legami comprensibili tra i due momenti diversi. Come può la tendenza respinta “travestirsi”, se non involge 1 la coscienza di essere respinta, 2 la coscienza d’essere stata rifiutata perché è quello che è, 3 un piano di travestimento”. Questo piano di travestimento passa attraverso la compressione della propria decompressione d’essere.

6 Cfr. G.W. Hegel, Enciclopedia,cit., § 407.

7 Cfr. ibidem § 408.

8 In questo si dovrebbe dire che, mentre la tristezza è una passione (ed è soggetta a fluttuazioni e transizioni, vale a dire: si muove), il patire, diversamente, nasce da questo immiserimento del moto che, per evitare la tristezza, si fa patimento e – nel voler mantenere questo stato – patologia. Mentre l’Âion inerisce l’appassionarsi che è proprio un assumere attivamente il pathos e il Chrónos articola le passioni stesse, la risultante di questa disarticolazione – in quanto vissuta come disarticolazione logica ovvero come non-sense – è il patire.

9 Ci si riferisce all’opera di Eugène Minkowski, Il tempo vissuto. Fenomenologia e psicopatologia, Einaudi, Torino 1998, (v.digitale 2020) che, come ricorda lui stesso in “quasi una prefazione dell’autore”, fu pubblicata per la prima volta nel 1933 a sue spese (con i soldi del padre) in mille copie, poiché non trovava un editore. In quest’opera, Minkowski, che ha lavorato tutta la vita nei manicomi, rivela il rapporto tra la costruzione del tempo fenomenologico e la sofferenza psichiatrica. Si legge nella introduzione: “Il tempo cronologico, quello indicato meccanicamente dagli orologi, è un’astrazione, quello vissuto è mutevole e cambia continuamente a seconda degli stati d’animo per poi scomparire e non lasciar traccia se non nella memoria, dove diventa altro, un nuovo tempo. Tutto scorre, è in divenire e «il carattere del divenire» è «irrazionale»”. E ancora, sostiene Minkowski che il rapporto con il paziente è retto da una relazione di simpatia, in cui il tempo vissuto scorre l’uno nell’altro: “Non osserviamo soltanto il malato, ma abbiamo anche la possibilità di proiettare quasi in ogni momento la sua vita psichica sul nostro psichismo. Sono come due melodie simultanee e quanto mai disarmoniche; tuttavia tra le note dell’una e le note dell’altra si stabilisce una certa equivalenza che ci permette di penetrare più a fondo nello psichismo del malato”.

10 Per Minkowski, similmente a Bergson, lo slancio vitale è l’unica componente capace di conferire direzione in quanto crea l’avvenire.

11 Ivi, pp. 80-81. Il testo, con deviazioni significative rispetto all’approccio delle Lezioni husserliane, ma anche, per certi versi al Saggio sui dati immediati di coscienza di Bergson, così prosegue: “di solito si considera il tempo come un prodotto d’astrazione, riconducibile, all’origine, ai cambiamenti concreti osservati sia nella nostra coscienza sia nel mondo esterno. Il che, in fondo, non è vero. Il tempo si presenta a noi come fenomeno primitivo, sempre presente, vivo e vicinissimo a noi, infinitamente più vicino di tutti i cambiamenti concreti che riusciamo a discernere nel tempo. Non si esaurisce affatto nella successione dei nostri sentimenti, dei nostri pensieri, delle nostre volizioni. Anzi, direi addirittura che esso viene percepito in tutta la sua purezza quando non c’è alcun pensiero, alcun sentimento preciso nella coscienza; la riempie allora interamente, cancella i limiti tra l’io e il non-io, abbraccia tanto il mio divenire che il divenire dell’universo, il divenire tout court; li fa confluire e confondersi; il mio io sembra risolversi interamente in esso, senza che per questo io provi un doloroso senso di offesa all’integrità della mia personalità. Al contrario, è il solo modo di rinunciare al proprio io senza fare un atto di rinuncia vero e proprio. Noi ci confondiamo con le onde possenti, impersonali, anonime, oserei dire, del divenire, senza difficoltà, senza la minima resistenza, addirittura con un senso di benessere e di quiete.”

12 Ivi p. 82. Continua il brano: “Inoltre non si dovrebbe dimenticare che questa formula si serve, per esigenza del pensiero discorsivo, di un soggetto e di un verbo, mentre il divenire non contiene né tollera una tale disgiunzione, poiché tutto in esso si confonde e niente di ciò che racchiude in sé può essere separato da lui.

In questo modo non abbiamo fatto altro che mettere in rilievo il carattere irrazionale del divenire. Anche i procedimenti più elementari del pensiero discorsivo si dimostrano contrari alla sua natura. In altri termini, in rapporto al divenire non riusciamo a prendere la distanza necessaria per farne un oggetto di conoscenza. Esso è troppo vicino a noi. Volerlo conoscere, analizzare, rappresentare, non corrisponde a niente, poiché in ogni momento possiamo viverlo, possiamo averlo tutto davanti agli occhi”.

13 Ivi, p. 84: “Troviamo una conferma a quanto abbiamo detto a proposito del carattere irrazionale del divenire nel fatto che la logica arriva a dimostrare con una facilità sorprendente che il tempo è contraddittorio in se stesso. Ecco uno degli schemi: il passato è passato, dunque non c’è più; l’avvenire non c’è ancora; il presente si trova così tra due nulla; ma il presente, l’adesso, è un punto senza estensione; dal momento che il presente è qui, già non c’è più; l’adesso è dunque contraddittorio e pertanto esso pure è un nulla. È così che la realtà si riduce per il tempo a un nulla situato tra due nulla”.

14 L’opera era stata preceduta da una lunga ed articolata meditazione che l’autore stesso ricostruisce: “Nel luglio 1914, alla vigilia della mobilitazione generale, portavo a termine uno studio su Gli elementi essenziali del tempo-qualità. L’espressione «tempo-qualità» mostra di per sé l’influenza che l’opera di Bergson aveva esercitato su di me già allora”. E poi: “Così nel 1915 abbozzai due studi, uno su I caratteri fondamentali dello slancio vitale e l’altro su La memoria e l’oblio-, e, nel corso “dell’inverno 1916-17, in una zona tranquilla del fronte dell’Aisne, approfittando di una casamatta relativamente confortevole, tentai di fissare le grandi linee di un lavoro su La fenomenologia della morte. Infine, dopo l’armistizio, cercai di stabilire il piano dettagliato di un’opera più importante, che mi proponevo di intitolare Come viviamo l’avvenire (e non ciò che ne sappiamo). Lo scopo di quest’opera doveva essere lo studio sistematico dei fenomeni proiettati verso l’avvenire, dei loro rapporti e del modo in cui partecipano, nel loro insieme, all’intreccio dell’avvenire vissuto” (Cfr. E. Minkowski, op. cit., pp. 58-60)

15 E. Minkowski, op. cit., p. 63.

16 Emblematico che Minkowski (ivi, pp. 97-100) si affida all’esempio dei due versanti della montagna per spiegare il passaggio dall’«uno» al «due» nella successione: “Nella successione ci sono due avvenimenti, ma nessuno dei due è concepito indipendentemente dall’altro. È come se fossimo su una cresta dalla quale i due versanti della montagna si possono più indovinare che esplorare; la successione è prima di tutto trovarsi sulla cresta, e non guardare, a turno, ciascuno dei due versanti e poi rendersi conto che ci si trova sulla sommità che li separa. Nello stesso modo la durata che scorre non può essere scomposta in una moltitudine di successioni; in tal modo la si deformerebbe e si disconoscerebbe la sua natura. Non bisogna fidarsi, quando si tratta del tempo, delle operazioni aritmetiche troppo sbrigative (…) Il lato irrazionale dei due fenomeni risulta chiaramente da quanto è stato detto prima. Il minimo tentativo di superare gli attributi «essere uno» o «essere due» attribuendo loro uno sviluppo, pure del tutto naturale per il pensiero discorsivo, ci mette in contraddizione con il modo in cui questi fenomeni sono vissuti nella realtà. Così, dal punto di vista razionale, essi si rivelano contraddittori in se stessi.

Ciò può essere messo in rilievo in modo ancor più evidente. Ecco il ragionamento che si fa spesso: abbiamo constatato la successione di A e B; constatare la successione di A e B equivale a dire che A non c’è più quando c’è B; la successione stabilisce una relazione tra A e B; affinché si possa stabilire una relazione tra due termini, occorre che questi due termini siano tutti e due presenti alla coscienza; non è questo il caso per il senso stesso della relazione di successione; dunque in nessun caso possiamo constatare in modo immediato la successione di due avvenimenti. Purtuttavia lo facciamo in ogni momento della nostra esistenza. “La psicologia si è sempre scontrata contro questo problema. Le sue soluzioni finiscono tutte con l’ammettere che l’avvenimento A lascia delle tracce mnemoniche che sussistono quando si produce l’avvenimento B. Ma anche tralasciando il fatto che in tal modo si dà alla memoria un’estensione del tutto artificiale, in questo caso non si tratta che di pseudo-soluzioni, poiché, indipendentemente dalla natura della traccia di A, bisogna che la coscienza abbia già l’intuizione della successione per poter interpretare in questo senso la presenza di questa traccia accanto a B nella stessa sezione trasversale della coscienza, come si usa dire, poiché B + la traccia di A non potranno mai di per sé dare origine alla nozione di successione. Certo si può far appello al ricordo. Ma non solo non ritroviamo traccia di un ricordo nella nostra coscienza quando viviamo la successione di due avvenimenti: per di più il ricordo vissuto concerne sempre un passato più lontano, lascia una specie di intervallo vuoto tra “l’avvenimento che esso evoca e il presente al quale si contrappone, in modo che esso non si può applicare al passato «attuale», se così si può dire, che comporta la successione immediata.

Da parte mia, in questo problema non vedo che l’espressione del carattere irrazionale della successione in quanto fenomeno temporale. Il ragionamento portante è solo una delle varietà di questa applicazione al tempo dei postulati del pensiero che, come abbiamo visto prima (p. 20), porta invariabilmente a dimostrare che il tempo è contraddittorio in se stesso.”

17 Minkowski porta altri esempi utili alla comprensione: “un esempio tra tanti: una malata di settantotto anni, con un grave indebolimento intellettivo, non sa più qual è la sua età, né quando è nata, né in che giorno siamo, né da quanto tempo si trova all’ospedale; ma ascoltiamola parlare:

‘Mia madre (la madre è morta) è venuta tutti questi giorni, ma oggi non è venuta; veniva tutti i giorni, credo che non sia venuta ieri; ma lei veniva sempre a lavorare accanto a me. Finora i miei figli venivano sempre, adesso non vedo più i miei nipoti come li vedevo prima. Quando penso ai miei, mi pare un secolo dacché li ho visti. Se almeno li potessi vedere due o tre volte la settimana, per potermi dire che li ho visti da poco e che li rivedrò presto’.

Infine, in un altro ordine di idee, ricordiamo un malato di Gilbert Robin, affetto da schizofrenia, che sparava revolverate al suo orologio per ammazzare, almeno simbolicamente, il tempo, che considerava il suo peggior nemico” (E. Minkowski, op. cit., pp. 72.73) esattamente, come è accaduto in occasione di rivoluzioni importanti.

18 Vi sono pagine notevoli in cui Minkowski, con piglio letterario, svolge una fenomenologia a partire da eventi che lui stesso a vissuto: “La vita monotona delle trincee ci faceva a volte dimenticare e la data e il giorno della settimana; “in quelle condizioni, separati dalla continuità e dall’organizzazione abituali della vita, questi dati non presentavano nessun interesse immediato; e noi li sostituivamo con un altro «calendario», più appropriato alla situazione, contando semplicemente i giorni trascorsi dal nostro arrivo al fronte e quelli che ci separavano dal ritorno all’acquartieramento di riposo. A volte eravamo, sì, disorientati nel tempo, nel senso corrente del termine; ma avremmo protestato se qualcuno ci avesse detto che eravamo degli esseri «senza tempo»; al contrario tutte le nostre sofferenze, a parte le devastazioni arrecate dalla morte, derivavano dal tempo; eravamo oppressi dalla lunghezza e dalla monotonia delle giornate che si susseguivano e lottavamo contro la noia – fenomeno, come è ovvio, di natura essenzialmente temporale – “che, come una massa morta e vischiosa, penetrava nel nostro essere minacciando di annientarlo. “Non è stato forse detto che, durante la guerra, eravamo esposti non solo al nemico ma anche «alla noia»?” (ivi, p. 71).

19 Scrive sul punto Minkowski rifacendosi a Bleuler: “ciò è così vero che è proprio in questo modo che giungiamo a distinguere i casi «puri» in psichiatria e a stabilire i meccanismi fondamentali che li condizionano. Bleuler, nelle sue recenti pubblicazioni, ha insistito sulla frequenza delle psicosi associate, e più particolarmente delle associazioni dei disturbi della serie maniaco-depressiva e di quelli della serie schizofrenica. Queste associazioni sarebbero addirittura così frequenti che Bleuler vorrebbe vedere in ogni caso l’eterna domanda: follia maniaco- depressiva o schizofrenia? sostituita dalla domanda: fino a che punto follia maniaco-depressiva e fino a che punto schizofrenia?” (Ivi, pp. 520-521)

20 Ivi, p. 522.

21 All’epoca, come è noto, la schizofrenia costituiva il caso maggiore delle malattie psichiatriche, costituendo la depressione, un’eccezione. Poi, come ricorda anche nella sua prefazione Andreoli, il rapporto si è decisamente invertito, dal momento che la schizofrenia risulta attualmente diagnosticata per il 2% della popolazione mondiale, contro il 14% della depressione e il 20% dei disturbi d’ansia. Questo anche per segnalare la dipendenza della corretta individuazione della psicopatologia dai criteri di classificazione proposti, laddove sia Minkowski che – diversamente – Binswanger avvertivano già che la moltiplicazione delle classificazioni psicopatologiche derivava dal numero di domande a cui la scienza non era in grado di rispondere (rischiando così che ogni caso irrisolto portasse con sé una nuova classificazione).

22 Ci si riferisce al testo precedente del 1927 La schizophrénie: psychopathologie des schizoides et des schizophrènes, tradotto in italiano: E. Minkowski, La schizofrenia, Einaudi, Torino 1998.

23 Ivi, p. 633. Aggiunge Minkowski che “il demente senile alla domanda: «Lei dov’è?» risponde: «Sono qui da stamattina» oppure «Sono qui in attesa», preoccupato, si direbbe, di aggiungere un fattore temporale”.

24 “Le idee di grandezza negli schizofrenici – osserva in questo senso Minkowski – (…) hanno in sé qualcosa di «immobile». Lo schizofrenico si dice Dio o Cristo, ma il suo pensiero si chiude in questa affermazione senza andare oltre. Egli continua a spazzare il cortile come se niente fosse. Il suo pensiero basta a se stesso e rimane staccato dalla vita-ambiente. Da essa non emana nessuna spinta” (Ivi, p. 636),

25 Ibidem

26 Ivi, pp. 636-637:

27 Minkowski ci racconta di un altro suo paziente: “è persuaso che «tutto nella vita e anche le sensazioni sessuali si riconducono alla matematica; questo lo porta a formule matematiche e geometriche; nel nostro corpo c’è geometria e c’è da domandarsi, da questo punto di vista, se la forma perfetta per il corpo umano non sia la forma sferica», forma che ovviamente dal punto di vista geometrico, ma solo da questo punto di vista, presenta un alto grado di simmetria e di armonia. A questo punto non saremo più sorpresi di sentirlo dire: Cerco l’immobilità. Tendo al riposo e all’immobilizzazione. In me ho la tendenza a immobilizzare anche la vita che ho intorno. Per questo mi piacciono gli oggetti immutabili, le casse e i chiavistelli, le cose che sono sempre uguali, che non cambiano mai. La pietra è immobile, la terra invece si muove, non mi ispira fiducia. Attribuisco importanza soltanto alla solidità. Il treno passa su un terrapieno; per me il treno non esiste, voglio soltanto costruire il terrapieno” (Ivi, pp. 642-643).

28 Cfr. Ivi, pp. 637-640: “Un malato ci dichiara che nella vita solo i valori spirituali contano, e che le cose materiali di quaggiù contano in fondo poca cosa. Naturalmente questa è un’opinione che non ci turba affatto. Ma quando il nostro malato in nome di questo principio crede di non doversi più occupare del suo alveare, al quale fino allora dedicava volentieri il tempo libero, e quando si sente costretto a collocarlo nella rubrica delle cose materiali, non lo possiamo più seguire. Così pure quando dice che, dovendo dedicarsi a qualche lavoro di giardinaggio per aiutare i suoi genitori, lo sente come un attentato ai suoi principi. Perché in fondo non riusciamo a seguirlo? Perché un precetto, pur potendo essere considerato giusto di per se stesso, muore per il rigore con il quale viene applicato alla vita. Il senso della misura e delle sfumature che circonda come frangia viva tutti i nostri precetti rendendoli infinitamente malleabili e nello stesso tempo essenzialmente «umani», viene a mancare. In queste condizioni si giunge, come diceva il malato, «a staccarsi del tutto dalla materialità, a vedere gli uomini in modo impersonale, ad accostarsi all’assoluto», si giunge a quello che noi chiamiamo atteggiamento antitetico assoluto, atteggiamento profondamente morboso che testimonia di una perdita totale del contatto vitale con la realtà”.

29 Cfr. Ivi, p. 643: “Allora mi è venuta l’idea di lasciare un giorno-tampone tra il passato e l’avvenire. Durante questa giornata cerco di non fare assolutamente niente. Così una volta sono rimasto per ventiquattrore senza urinare”.

30 Bleuler assumeva l’autismo come una componente – qualitativa – della schizofrenia. Minkowski cita direttamente così il suo pensiero: “Gli schizofrenici più avanzati che non hanno più alcun rapporto con l’ambiente, vivono in un mondo che è solo loro. Essi vi si sono per così dire chiusi, con i loro desideri che immaginano realizzati o con la loro sofferenza, risultato di persecuzioni delle quali credono di essere vittima. Essi limitano il loro contatto con il mondo esterno. Chiamiamo autismo questo distacco dalla realtà accompagnato da una predominanza relativa o assoluta della vita interiore”

31 È interessante, sotto tali profili, riportare un’altra anamnesi di Minkowski, quando analizza le indagini condotte da Franz Fischer: “Oss. I. Ieri a mezzogiorno, nel momento in cui veniva servito il pasto, ho guardato il pendolo: perché non si sarebbe dovuto fare, ma c’era qualcosa di particolare. Perché il pendolo non poteva più neanche essermi di nessun aiuto e non aveva più niente da dirmi. Come avrei potuto mettermi in rapporto con il pendolo? Mi sentivo come riportato indietro, come se qualcosa di passato, per così dire, ritornasse verso di me, come se io stesso percorressi un tragitto. Era come se alle undici e mezzo fossero di nuovo le undici, e questo nel senso che non solo il tempo diventava di nuovo lo stesso e ritornava indietro, ma anche che tutto ciò che in questo tempo era successo per me facesse altrettanto. Ma tutto questo è molto più profondo di quanto posso esprimere. Nel mezzo di tutto questo si levava qualcosa che non sembrava farne parte. Tutto a un tratto, non solo erano di nuovo le undici, ma per di più c’era un tempo passato da lungo tempo, e là dentro – gliel’ho già raccontato, del grano in “una scorza grande e dura? Era così di nuovo: nel bel mezzo del tempo, io vengo dal passato verso me stesso. Com’era spaventoso. Dicevo a me stesso, forse il pendolo è stato messo indietro, gli infermieri volevano fare un brutto scherzo con il pendolo. Mi sforzavo di considerare il tempo come normale, ma non ci riuscivo; ed ecco venne un senso di attesa spaventosa che io potessi essere aspirato nel passato o che il passato venisse su di me e mi sopraffacesse. Era inquietante che si giocasse così col tempo, in qualche modo era demoniaco. Doveva finir male per l’umanità. Quale aspetto poteva avere il tempo per gli infermieri, loro hanno ancora il tempo regolare? Poi tutto diventò per me infinitamente indifferente e malgrado ciò ero molto inquieto. Nasceva un tempo estraneo. Tutto si confondeva alla rinfusa e io dicevo, infastidito, a me stesso: voglio conservare tutto, ma devo fare a meno di tutto. Il cielo e la terra cadevano qua e là. Desideravo dentro di me che questo falso tempo scomparisse di nuovo. Poi ebbi fame, era anche l’ora del pasto, ma non era una fame solita, quella che conosco, era la fame del corpo ma anche la fame dell’anima, come una nostalgia, un desiderio di “simpatia, di essere compreso, di aiuto religioso. Poi venne il pasto e tutto era di nuovo come al solito”

32 E ciò, afferma Minkowski, anche per l’espresso influsso degli studi di Kretschmer in cui si vedono contrapposti da una parte schizofrenia, schizoidia, schizotimia e dall’altra follia maniaco-depressiva, cicloidia, ciclotimia, che quasi spingevano a dedurre dai primi i secondi: cfr. Ivi, p. 668.

33 Ivi, p. 675.

34 Scrive Minkowski citando testualmente Kraepaelin (Ivi, p. 676): “Siccome la fuga delle idee non è che una delle manifestazioni della facilità anormale con la quale questi malati si lasciano distrarre, di solito osserviamo che i malati che presentano questa fuga di idee, nella misura in cui sono in generale accessibili agli stimoli esterni, danno, sotto l’influenza di queste ultime, una nuova direzione ai loro pensieri, che si riflette nei loro discorsi. Un oggetto sul quale cada il loro sguardo, un’iscrizione, un rumore contingente, una parola che risuoni per caso alle loro orecchie, sono subito inglobati nei loro discorsi, dando origine a una serie di rappresentazioni simili, spesso collegate le une alle altre soltanto da abitudini verbali o da assonanze. La facoltà di osservare e di comprendere non risulta pertanto per nulla aumentata. Al contrario, questi malati di solito non percepiscono che fuggevolmente e in modo impreciso e non sembrano preoccuparsi molto di quanto succede attorno a loro. Ma quando notano qualche cosa, l’andamento del loro pensiero e generalmente anche il corso del loro eloquio ne sono subito influenzati; essi esprimono le loro percezioni attraverso parole e si ritrovano poi trascinati, senza meta, dalla stimolazione che si è determinata.”

35 Minkowski sul punto menziona la teoria di Volkelt sulla coscienza del tempo come coscienza dell’adesso-continuità (Jetzt-Stetigkeitsbewusstsein) e sul pericolo che tale coscienza venga interrotta provocando un mosaico di interruzioni e si riprese: cfr. Ivi, p. 90.

36 Per questo il depresso troverebbe quiete nell’evocazione del passato. Minkowski, sul punto, riporta (Ivi, p. 679): “A. Ivanoff-Smolensky mi disse un giorno che aveva notato come a volte si riuscisse a calmare per un momento i maniaci e a ottenere da loro risposte pertinenti, facendo fissare la loro attenzione sul passato. Credo che ci sia qualcosa di vero in questa osservazione. D’altra parte quadra con quanto abbiamo detto nel senso che, facendo intervenire il passato, liberiamo il maniaco dall’influsso dell’adesso sotto il quale si trova e del quale è incapace di fare un presente”.

37 Ivi, p. 684.

38 Appaiono interessanti gli esiti delle analisi di studio di Straus, Gebsattel sull’incidenza del tempo su una paziente diagnosticata come depressa-melanconica (così come riportati da Minkowski, ivi pp. 687-688) che qui riportiamo quasi per intero: “Per tutta la giornata ho un senso d’angoscia che si riferisce al tempo. Devo dire a me stessa senza sosta che il tempo passa. Adesso, mentre le parlo, penso a ogni parola pronunciata: ‘passato’ ‘passato’ ‘passato’. Questo stato è intollerabile e provoca la sensazione di essere stravolti in tutto. Comincia dal mattino e si associa ai rumori. Quando sento cinguettare un uccello non posso fare altro che pensare: è durato un secondo. Le gocce d’acqua che cadono mi rendono furiosa, perché devo sempre pensare: ecco un secondo di passato, ecco un altro secondo. Lo stesso per il tic-tac dell’orologio. Non posso perdere il treno, perché il pensiero di dover essere alla stazione alle due e cinque mi è altrettanto intollerabile e provoca la stessa angoscia del pensiero che mi occorrono venti minuti per andare fino a X. Pensare al mio matrimonio mi è intollerabile, perché devo dirmi che la cerimonia durerà un’ora. Non posso capire che gli altri facciano dei progetti, li colleghino a punti precisi del tempo e, nel farlo, restino calmi. Per questo motivo mi sento come un’estranea rispetto agli altri, come se non partecipassi più alla collettività che essi formano, come se io fossi del tutto diversa. Quando gli altri parlano non li posso capire, o piuttosto li capisco con la ragione, ma a dire il vero non riesco a comprendere come possano parlare così con calma, senza ripetersi continuamente: adesso parlo, questo dura tanto e tanto tempo, e poi “farò questo e quest’altro, e durerà sessant’anni, poi morirò, altri verranno dopo, poi altri ancora, vivranno su per giù a lungo come me, mangeranno e dormiranno come me e questo continuerà così, senza senso, per migliaia e migliaia di anni.

«Lo stesso quando vedo gli altri muoversi, camminare per esempio, a ogni movimento, a ogni passo devo dirmi: un secondo, ancora un secondo, e questo mi secca terribilmente. Questi pensieri sono sempre in me, se non in maniera esplicita, almeno come sentimento. Spesso mi ripeto che non sono affatto ammalata, ma che ho soltanto acquisito la conoscenza di qualcosa che gli altri ignorano e che mi sono formata pertanto una concezione della vita che è sventurata, è vero, e che gli altri non condividono, ma che, in fondo, è del tutto logica; addirittura non concepisco più che si possa pensare diversamente. “C’è qualcosa di angosciante nell’essere obbligati a pensare così. Ciò che è inquietante è che lo stato si aggrava. Si aggrava perché gli intervalli che devo rappresentarmi si fanno sempre più brevi, in modo che la sensazione di “essere stravolta interiormente non fa che crescere. La cosa era cominciata perché a casa non riuscivo a stabilire l’uso del mio tempo nel corso della giornata. Ma ecco che gli intervalli per i quali sono obbligata a pensare: questo è durato un’ora, questo un minuto, questo un secondo, diventano sempre più brevi. Così, quando lavoro a maglia, a ogni maglia, a ogni movimento dell’ago, devo pensare al tempo. Questo stato accompagna i rumori, le percezioni, e determina idee di suicidio, perché il tutto è terrificante e intollerabile. «Quando le parlo, dapprima la parola “parlo” si cancella, poi la parola “cella”. Prima sono delle parole che si cancellano, poi delle lettere. Tutto passa, va in briciole. “Non credo che questo stato possa scomparire. A ogni movimento che faccio, sono costretta a dirmi: adesso faccio questo, adesso quello, come per esempio ordinare i miei vestiti nell’armadio, metterli, toglierli ecc. Questo pensiero ha in sé qualcosa di orrendo, è come un modo di uccidere, ed è per questo che è legato al suicidio. La cosa orrenda consiste nel fatto che a ogni movimento, a ogni azione la distanza che mi separa dalla morte diventa più piccola. Così quando qualcuno mi dice di essere contento di veder ritornare la primavera, di rivedere i fiori nel giardino, io non posso capirlo, perché devo sempre pensare che quando sarà primavera la distanza si sarà ancora ridotta e la morte ravvicinata in proporzione. Come ci si può rallegrare di questo? Tuttavia non temo la morte, la morte mi sembra bella, ma l’idea che tutto passa e che la vita diventa più breve mi fa paura. Così quando lavoro a maglia, l’accento non cade sul fatto che il lavoro procede, ma sul fatto che, a mano a mano che procede, la vita diventa sempre più breve, ed è tremendo. Per questo voglio suicidarmi, per sbarazzarmi di questo modo di pensare, e sì “che amo la vita.”

39 Continua ancora la narrazione della paziente: “Credo che la mia malattia abbia come causa la paura di invecchiare. Restavo a casa sfaccendata, il tempo passava, non combinavo niente e così mi innervosivo. Quando mia sorella si è sposata, mi son detta: tra un anno, due, tre, toccherà a te. “Toccherà a me, come tocca alle altre donne. Questo mi sembra sciocco. Succede proprio come quando si deve prendere la parola in una riunione; tocca a questo, poi a quello, poi toccherà a me. Parlo perché tocca a me, e questo non ha senso. Sono contenta, è vero, quando mi regalano qualcosa o quando sono gentili con me, ma quello che è tremendo è che tutto ciò, in fondo, mi è indifferente. In certi momenti questo fatto era così accentuato che non potevo più fare niente, né alzarmi, né vestirmi, dato che tutto mi era indifferente. Posso anche giocare a tennis per esempio, posso farlo, ma con fatica, devo sforzarmi, in fondo non posso farlo ed è sciocco, devo sempre pensare: adesso rilancio la palla, adesso è un altro che lo fa, adesso mi chino – e perché tutto questo?”.

40 Binswanger, come è noto, propone una Dasein-analyse (analisi esistenziale o antropo-analisi), inizialmente incentrata sulle analisi compiute da Heidegger in Essere e Tempo, sui modi esistentivi e deiettivi del Dasein per poi riprendere, di nuovo, la fenomenologia di Husserl, giudicata più utile per l’applicazione al campo psichiatrico. Scrive sul punto: “se da un lato posso apprezzare l’ontologia di Heidegger nel suo significato puramente filosofico, dall’altro lato, tuttavia, la distinguo sempre di più dalla sua “applicazione” alla scienza, anche a quella della psichiatria. Sotto questo aspetto ha acquistato invece per me sempre maggior rilievo la dottrina della coscienza trascendentale di Husserl” (L. Binswanger, Delirio. Antropoanalisi e fenomenologia, Marsilio Editori, Venezia 1990, p. 5). Il distacco si acuirà, non a caso, per l’aver Binswanger assunto una posizione eraclitea sul divenire, riconoscendo che “le parole di Eraclito non ci danno pace, e ci inducono ad assumere nei loro riguardi un contegno produttivo, qualunque possa esserne poi il risultato”: L. Binswanger, La concezione eraclitea dell’uomo, in Id. Per un’antropologia fenomenologica, Feltrinelli, Milano 1970, p. 108 e cfr. p.119). In ogni caso, quello di Binswanger nei confronti di Husserl costituisce in realtà una ripresa, in quanto già nel 1922, con la pubblicazione di Sulla fenomenologia (in Per un’antropologia fenomenologica, Feltrinelli, Milano 1970, pp. 5-41)il metodo husserliano veniva presentato da come la via maestra per una riflessione sui fondamenti epistemologici della psichiatria che prendesse le distanze dalle procedure oggettivanti del pensiero naturalista.

41 Ci riferiamo soprattutto al lavoro del 1960 di L. Binswanger, Melanconia e mania, Bollati Boringhieri, Torino 1971.

42 E non vi è del resto un’analisi approfondita del tempo vissuto, ad esempio, nel pensiero psicanalitico, sul divenire o sulla disarticolazione dei vissuti temporali, forse per l’influenza decisiva di Freud, per il quale il vissuto del tempo è sostanzialmente connesso alla memoria (o alle tracce mnestiche) non rimossa, nella misura in cui elementi psichici possano aver avuto effetto causale sul disturbo psicopatologico. Per quanto rilevante, la linea di incidenza del passato – che si mantiene costantemente essendo la rimozione solo un’eccezione rispetto alla regola della sua conservazione – manca un’analisi fenomenologica del tempo sottostante a tale esperienza, che la pratica psicanalitica affida alla narrazione di un racconto. L’elemento del tempo, interviene, poi, ma solo per via indiretta, nelle nozioni, ad esempio, di regressione o di ritorno del rimosso. O, ancora, in ordine al principio del piacere in forza del quale si tende a negare il tempo, perché il desiderio pretende di ottenere soddisfazione immediata; lì il tempo affiora, dunque, solo laddove il piacere non venga soddisfatto, rivelandosi come tempo dell’adattamento o dell’attesa; ed è dunque in aldilà del principio del piacere, con l’affacciarsi del principio di realtà che il tempo rivendicherebbe la sua forza: ma si tratta in ogni caso sempre di un tempo che unisce il bisogno o il desiderio al suo soddisfacimento (ovvero del tempo lungo cui si tende a voler prolungare il piacere stesso mantenendolo con costanza) e non del tempo in sé posto in questione come tempo vissuto e generatore di disturbo.

Jung, poi, finisce per totalizzare il divenire nel Sé psicologico, premendolo (e comprimendolo) tra temporalità dell’individuazione, da una parte, e l’eternità dell’archetipo (quale forma apriori), dall’altra. Nel saggio sull’Âion, pubblicato per la prima volta nel 1951 Jung qualifica l’Âion come l’Eone cristiano (coincidente con l’era zodiacale dei Pesci) dunque un tempo con un inizio ed una fine tenuto insieme dalla coppia Cristo-Anticristo, nel quale emerge il simbolo del Sé che, nell’articolazione tra l’io (come soggettività dei fattori consci), l’ombra (come luogo delle proiezioni inconsce e delle resistenze da queste prodotte) e la congiunzione tra l’Anima e l’Animus (archetipi del maschile e femminile), rappresenta la personalità totale che unifica tutti i contenuti consci e inconsci. In questo senso il Sé è simboleggiato dal Cristo che, in quanto individualità, possiede i tratti dell’unitemporalità, mentre in quanto archetipo, possiede i tratti dell’eternità. Ma in questo modo il divenire viene totalizzato nell’ente così come l’Âion è totalizzato nell’Eone cristiano, senza che venga svolta alcuna indagine sul tempo racchiuso nella nozione di unitemporalità ovvero di eternità: C.G. Jung, Opere vol. 9/2: Âion. Ricerche sul simbolismo del Sé in Opere Vol. n. 9/2, Bollati Boringhieri 1982, 1° Ed. Dig. 2015. Le sue nozioni di “tempo qualitativo” astrologicamente determinato e determinante o di “sincronicità”, pur permeato di una valenza non-causale o a-causale tra stati psichici (con l’interagenza degli archetipi) non forniscono tracce utili, a mio avviso, per ripensare il problema del tempo.

43 Essi, infatti, avevamo visto, sono i due versanti di un contrasto. In mezzo, fra le loro curve, è il negativo, che è varco di altri tempi.

44 Husserl, nelle Lezioni sulla Sintesi Passiva, parla di “ricordo del presente” (Miterinnerung), proprio ad indicare il modo con cui l’Io attua una presentificazione congiunta (Mitgegenwärtigung) di qualcosa di sfuggevole ed incompleto, rispetto al proprio già sfuggevole flusso: cfr. E. Husserl, Vorlesungen über passiven Syntesis¸trad. it. cit., p.113.

45 Cfr. il dialogo tra il personaggio Filatete e Teofilo in Leibniz, Nuovi Saggi sull’Intelletto Umano, in Opere II, Torino 1968, p.268ss.

46 Cfr. Plotino, Enneadi, VI 9,10.

47 Per far ciò, la contemplazione, secondo Plotino, procede per gradi dalla natura all’anima, e dall’anima all’intelligenza: cfr. Plotino, Enneadi, III 8, 8 e VI 9, 3.

48 Qui theorìa assume una realtà spiccatamente diversa dal pràttéin.

49 Si cade quindi in una zona estremamente problematica della fenomenologia della coscienza interna del tempo, caratterizzata dal limite del flusso e di un fuori-dal-flusso come ragione della sua unità, che è al tempo stesso, unità del tempo e unità della coscienza: Husserl si chiede a un tratto “come è possibile sapere che il flusso costitutivo ultimo della coscienza possiede l’unità?”, per poi rispondere “per quanto sorprendente (se non assurdo al principio) possa sembrare il dire che il flusso della coscienza costituisce la propria unità, eppure le cose stanno così”: E. Husserl, Zur Phän. des inneren Zeitbewusst., cit., §36.

50 O, secondo il significato di Husserl, rimandante indirettamente alla costituzione dell’intersoggettività, una quasi-riflessione (Quasi-Reflexion).

51 L’onda deve vibrare a lungo, “altrimenti —direbbe Weizsäcker— “non si tratta di un’onda periodica, ma di un urto unico, al quale non corrisponde alcuna frequenza”: C. F. Von Weizsäcker, L’immagine fisica del mondo, cit., p.116. Come la linea che, facendosi segmento, risulta divisibile all’infinito secondo il modo della continenza, così l’io non oltrepassa mai l’inizio e la fine del tratto, ma lo scolpisce in sempre nuove forme, sempre più piccole e brevi, forme già implicite e dunque ripetute del tratto stesso. Qui non c’è affezione, giacché “un’affezione —come afferma Heidegger— non potrebbe mai aver luogo come semplice risultato dell’urto e della resistenza” (M. Heidegger, Sein und Zeit, §29, trad. it. cit., p.176). Nell’ossessione, invece, l’onda del tempo assume proprio il tratto dell’urto e della resistenza. Si potrebbe forse dire che ciò riguardi non il tempo, ma la percezione del tempo, o, in genere, della durata di esso. Eppure, qui la percezione del tempo e il tempo della percezione sembrano incatenarsi in modo tale da costituire un’identità nell’identità del flusso: la percezione di questo battito ossessivo e breve è percezione di un intervallo di tempo che si sovra-incide di continuo, che non esce e non può uscire. è riflessività di un tempo che s’avvolge ogni volta di nuovo sullo stesso micro-tratto di vita e lì si fissa in forma.

52 Cfr. E. Lévinas, Altrimenti che Essere o al di là dell’essenza, Jaca Book, Milano 1983, p. 143ss. Il rovesciamento dell’intenzionalità, che da esplicitazione di un Ich-Strahl, di un io-raggio costitutivo di atti, diviene luogo entro cui emerge il differire di un’alterità attiva, è rappresentato da Lévinas anche nella figura dell’Insonnia, pensata, specie nel saggio del ‘74 De la coscience à la veille, come luogo cosciente della differenza, in cui però la coscienza è colta soltanto nell’atto di ritiro, di abbandono dell’esistenza, verso l’esistente. In questa figurazione, la coscienza si attiva solo per ‘passivizzarsi’, per racchiudersi, in ritirata, come ‘asinteticamente passiva’. Cfr. anche P. A. Rovatti, Intorno a Lévinas, Unicopli, Milano 1987, pp.118-119.

53 Cfr. E. Lévinas, Altrimenti che Essere, cit., p.137ss.

54 Cfr. M. Heidegger, Sein und Zeit, cit., §68c, trad. it. cit., p.416s.

55 Cfr. ibidem.

56 Ivi, p.417.

57 Cfr. ibidem.

58 M. Heidegger, ibidem.

59 M. Heidegger, ibidem.

60 Similmente alla figura dell’angoscia, che costituisce per Heidegger, a differenza della paura, un modo autentico (Cfr. M. Heidegger, Sein und Zeit, §68b), l’ossessione non ha un qualcosa: eppure essa non è rivolta al futuro, quanto premuta in un presente che non scorre mai.

61 Esso, dunque, direbbe Heidegger, riguarda il modo esistentivo della presentazione: Cfr. M. Heidegger, Sein und Zeit, cit., §68, trad. it. cit., p.403ss.

62 Cfr. G.J. Fichte, Wissenschaftslehre Nova Methodo 1798, cit., p.237ss.

63 Di più, quindi, l’ossessione sembra governata dalla c.d. B-serie del tempo di cui parla McTaggart (cfr. la fortunata distinzione, già menzionata tra A-serie, in cui vi è una scansione tra passato presente e futuro, e B-serie in cui il presente manca e vi sono solo relazioni —appunto relative— tra il prima e il dopo rispetto ad un evento o ad un osservatore); in modo tale però, che la relazione del «precedente» rispetto al «susseguente, sia anche quella del «susseguente» rispetto al «precedente», in una vuota quanto persistente reversibilità: sia il prima è prima del dopo sia il dopo è il dopo del prima: la funzione conosce due variabili – entrambe noetiche – il «prima», che si caratterizza solo in funzione del «dopo», e il «dopo» che si determina solo in relazione al «prima». Le due variabili sono dunque indipendenti e dipendenti allo stesso modo, indifferentemente, giacché il qualcosa rispetto al quale si dovrebbero determinare, è altrove, trascendente la linea —ridotta a segmento— del tempo immanente. Questa funzionalità è quindi insieme una disfunzione, giacché l’interesse è ovunque, e in nessun luogo: esso, in prima istanza, è l’interesse dell’Io a mantenere l’istante, a mantenersi come “stante”, a fermare il tempo che è appunto nessun luogo e che, sebbene venga assunto al modo di una porzione spaziale, non è – appunto – uno spazio. Qui si ha la «deiezione» cui parla Heidegger, di un modo del presente che, tentando di temporalizzarsi da se stesso, implode all’infinito. Il tentativo di temporalizzarsi da sé stesso, di ricordare il presente a partire dalla propria presenza per poi lì restare, è, infatti, un tentativo di negare l’apertura, di negare la difficoltà dell’equilibrio, la non risolta multidimensionalità dell’ora.

64 Cfr. G.W. Hegel, Enzyklopädie, §407-408, pp.411-413 (trad. it. p.684-685). A differenza di quanto accade nelle passioni, nelle inclinazioni e nell’impulso, per Hegel, nell’autosentimento, la somatizzazione del particolare, crea uno squilibrio interno. La contraddizione dei tempi, infatti, resta appesa al gancio di un Io a sé stante, vale a dire di un Io che si sente identico a sé e così pensa di poter stare. L’Io, pur abitando solo un verso di sé (e del tempo), lo assume per intero elevandolo a universale. La contraddizione non sviluppa, rimane rigida. “Il soggetto si trova allora – scrive Hegel – nella contraddizione tra la sua totalità, sistematizzata nella sua coscienza, e la determinatezza particolare che, in questa totalità, non ha fluidità, e non è né ordinata né subordinata (ein- und unter-geordneten Bestimmtheit)”. Sul punto e sul confronto tra auto-sentimento e passione,cfr. anche il mio Passione ed Evento, cit., §12.

65 Anche in questo senso Gentile parlava di inattualità del dovere morale: cfr. G. Gentile, I fondamenti della filosofia del diritto, in Opere, vol. IV, p.92s. Il «dovuto» è altro da me, ma proviene da me stesso in quanto portatore di un mondo di esperienza.

66 In senso non lontano, l’iniziale forma di dovere morale, per Fichte, consisteva in una tensione verso il ricongiungimento del soggettivo con l’oggettivo all’interno dell’Io: cfr. G. J. Fichte, Sittenlehre 1798, cit., p.3ss.

67 Come affermò Fichte, solo “la limitatezza della libertà come tale è un dovere (Sollen)” e “questo dovere (…) è determinatezza. Una determinatezza che non si trova, ma si deve produrre. Si trova solo che la si deve produrre: ed è dunque un compito da pensare incessantemente…” G. J. Fichte, Wissenschaftslehre Nova Methodo 1798, cit., p.485; trad. it. cit., p.227.

68 Da questo punto di vista, in senso speculativo, Fichte, discutendo il rapporto tra il «determinabile» e il «dovere», sostiene polemicamente che Kant, sebbene abbia affermato che l’io devo implichi anche l’io devo potere (Ich solle können), non abbia colto che tale implicazione sia da intendersi in modo sintetico e non analitico: se il pensiero è infatti un passaggio dall’indeterminato al determinabile, il dovere-potere significa pensare una tale determinabilità come necessaria, e così, destinarsi a determinarla: il dovere “deve venire pensato, cioè deve essere considerato come un dovere: questo voglio necessariamente, cioè il dovere” G. J. Fichte, Wissenschaftslehre Nova Methodo 1798, trad. it., cit., p. 139. Sotto questo aspetto la nozione husserliana di Horizontintentionalitaet, di intenzionalità d’orizzonte, esprimente l’unitario trascinarsi dell’io di “prospettiva in prospettiva” verso l’incessante orizzonte della determinabilità del determinabile, della possibilità pratico-teoretica, del poter-fare-mondo (Cfr. H. Titjen, Fichte und Husserl, cit., p. 274.), nella misura in cui ha la struttura pratica del “volere necessariamente il possibile”, appare fortemente significativa. Questo volere necessariamente implica un necessario esser libero, o come direbbe Sartre, un ineliminabile essere condannati alla propria libertà (Cfr. J.P. Sartre, L’essere e il nulla, cit., p.320ss.). Eppure qui la categoria della necessità sembrerebbe, per così dire, innestarsi in quella del dovere: sembrerebbe cioè che dalla necessità della libertà derivi quell’oscillazione tensionale chiamata dovere; e che tale dovere, in virtù della sua radice di libertà, sia, per essenza, un dover-potere, un “dovere il possibile”. Il punto critico risiederebbe però nel fatto che vi sarebbe un dovere prima ancora del dovere, un dovere originario qualificabile come un dover produrre il dovere: così come vi sarebbe un gioco primitivo rispetto agli altri, il gioco di decidere a quale gioco giocare. In ciò si potrebbe configurare, una differenza tra il dovere inteso quale verbalità originaria, latenza e tendenza dell’io temporale, e il dovere quale sostantivazione, ogni volta di nuovo possibile, di tale verbalità. Eppure tale differenza, colta mediante le categorie modali, o secondo lo schema di genere e specie, o ancora, secondo le nozioni kantiane di dovere incondizionato e dovere condizionato, non darebbe ragione dell’ampiezza del problema. Infatti, la rappresentazione di un io infinito che si finitezza ogni volta, o di un dovere puro quasi inesteso che si concretizzerebbe ogni volta nella parzialità di un dovuto, farebbe quasi intendere che vi potrebbe essere qualcosa come un Dovere Originario, protoforma di ogni dovere, nella struttura razionale dell’io. Invece, ciò che si vuol qui tratteggiare, è che è il pensiero stesso, in virtù della sua conformazione temporale, ad essere, insieme, un dovere: pensare, dover pensare, e pensare di dovere, sono forme cogitative che si inscrivono l’una nell’altra, cumulandosi nel punto in cui il futuro viene, per così dire, presentificato, forse appreso, e forse ancora, in qualche modo, preservato, senza la pre-limitazione dell’impulso, o la frattura insistita dell’ossessione: una presentificazione che segue, in bilico, il tempo in essa appreso, e da essa liberato: una presentificazione che per il fatto di seguire un tempo anziché semplicemente anticiparlo, è ricordo: giacché il futuro è l’attualità inattuale di un destino che, gettato o avvertito, posto o ascoltato, autonomo o eteronomo che sia, è mio atto, o di un atto che sarà il mio destino.

69 E. Husserl, Vorlesungen über passiven Syntesis, trad. it. Lezioni sulla Sintesi Passiva, Guerini Associati, Milano 1993, p.113: qui Husserl distingue “Rückerinnerung (ricordi del passato), Miterinnerung (ricordi del presente) e Vorerinnerug (ricordi del futuro) a seconda della modalità del loro pervenire a sintesi: rinvenimento, co-presentazione (Mitgegenwartung), anticipazione memorativa, cioè vuota rappresentazione dell’attesa pre-riempita da un contenuto di senso noematico”; (cfr. p.114ss.).

70 E. Husserl, Lezioni sulla Sintesi Passiva, cit., p.116.

71 G. Brand, op. cit., p.215.

72 E. Husserl, Man. C 4, p. 9.

73 Questo «dovere» l’io non si limita semplicemente ad indossarlo: è infatti indubbio che io “in quanto sono presente nelle mie possibilità – scrive Brand commentando un passo di Husserl – che mi determinano, devo essere una di queste possibilità…”; ma l’io dice Husserl può “essere soltanto in quanto realizza le sue possibilità – quelle possibilità cioè in cui egli si costituisce attivamente come identità, la quale, a sua volta, è un’idea, un polo nel sistema dei poli: G. Brand, p.218; E. Husserl rl, Zur Phän. der Intersub., vol. III, p.93;Man A V 32, p.50.

74 Come commenta Roth, l’essere-nel-mondo si trasla in un agire-dentro-l’orizzonte-futuro (A. Roth, E. Husserl ethischen Untersuchungen, cit., p.155; cfr. E. Husserl, Man F I 24, p.137.), dunque, in uno “stare” nel futuro, in un iperteso “abitare” l’inattualità; e, nella misura in cui l’identificazione del possibile occulta, sottointende od implicita una determinazione di valore, si esprime in essa il senso noetico del fenomeno “Io-devo” (Cfr. E. Husserl, Man F I 28, pp.336-338).

75 La trascendenza del dovuto si riflette nel carattere non-oggettivante (qui nel senso ancora di Husserl) dell’atto valutativo (dell’atto cioè mediante cui qualcosa è appercepito come doveroso): l’atto valutativo, infatti, non è oggettivante perché non è diretto ad un oggetto, e non è diretto ad un oggetto, perché si trascina nelle lontananze di un futuro che è e dovrà essere “atto”.

76 Cfr. A. Camus, Il Mito di Sisifo, Bompiani, Milano 1947, p.160ss

77 Cfr. Ci si riferisce al penultimo capitolo de Il Processo, in cui il sacerdote, dopo aver fatto visita a K. Che ancora confidava nel tribunale per essere scagiunato, gli dice: “Sul tribunale ti illudi», disse il sacerdote, «nelle Scritture che introducono alla Legge, a proposito di questa illusione viene detto: Davanti alla Legge c’è un guardiano. Da questo guardiano arriva un uomo di campagna e chiede che lo si lasci entrare nella Legge. Ma il guardiano dice che al momento non può concedergli di entrare. L’uomo riflette e poi chiede se allora potrà entrare più tardi. “Può darsi – dice il guardiano – ma adesso no”. Poiché la porta della Legge è, come sempre, aperta e il guardiano si fa da parte, l’uomo si china per guardare attraverso la porta nell’interno. Quando il guardiano se ne accorge, ride e dice: “Se ti attira tanto, prova dunque a entrare, nonostante il mio divieto. Ma bada: io sono potente. E non sono che l’ultimo dei guardiani. Di sala in sala, però, ci sono altri guardiani, uno più potente dell’altro. Già del terzo non riesco più nemmeno io a reggere la vista”. L’uomo di campagna non si aspettava tali difficoltà, la Legge deve essere accessibile a chiunque e in ogni momento, pensa, ma poi osserva meglio il guardiano nella sua pelliccia, con il gran naso a punta, la barba tartara nera, lunga e sottile, e decide che è meglio aspettare finché gli venga dato il permesso di entrare. Il guardiano gli dà uno sgabello e lo fa sedere a lato della porta. Lì rimane seduto giorni e anni. Fa molti tentativi perché lo si lasci entrare e stanca il guardiano con le sue “preghiere. Il guardiano lo sottopone spesso a piccoli interrogatori, gli chiede del suo paese e di molte altre cose, ma sono domande indifferenti, come le fanno i gran signori, e conclude sempre dicendo che non può ancora farlo entrare. L’uomo, che si è provvisto di molte cose per il viaggio, le usa tutte, anche quelle di valore, per corrompere il guardiano. Questi accetta tutto, dicendogli però: “Accetto solo perché tu non pensi di aver tralasciato qualcosa”. Durante tutti quegli anni, l’uomo osserva quasi ininterrottamente il guardiano. Dimentica gli altri guardiani, e questo primo gli sembra l’unico ostacolo per accedere alla Legge. Maledice il suo caso sfortunato, nei primi anni a voce alta, poi, quando invecchia, ormai solo brontolando fra sé. Rimbambisce, e poiché studiando per anni il guardiano ha imparato a riconoscere anche le pulci del suo bavero di pelliccia, prega anche le pulci di aiutarlo a convincere il guardiano. Infine gli s’indebolisce la vista, e non sa se intorno a lui si fa davvero buio o se sono gli occhi a “ingannarlo. Ma nel buio distingue un bagliore che erompe senza mai estinguersi dalla porta della Legge. Ormai non gli resta più molto da vivere. Prima della morte, tutte le esperienze di quegli anni si condensano nella sua testa in una domanda, che fino allora non ha mai rivolta al guardiano. Gli fa un cenno, poiché non può più raddrizzare il suo corpo che si sta irrigidendo. Il guardiano deve chinarsi verso di lui, poiché la differenza di statura si è molto spostata a sfavore dell’uomo. “Che cosa vuoi sapere ancora?” chiede il guardiano, “sei insaziabile”. “Tutti aspirano alla Legge”, dice l’uomo, “come mai, in tutti questi anni nessuno ha chiesto di esservi ammesso oltre me?” Il guardiano capisce che l’uomo è alla fine, e per raggiungere il suo udito che sta venendo meno, gli urla: “Qui nessun altro poteva ottenere di esservi ammesso, perché questa entrata era destinata solo a te. Adesso vado a chiuderla”. Sull’interpretazione di tale passo, oltre a quella affioranti dalla conclusione del capitolo stesso e dal finale de Il Processo: cfr. M. Cacciari, Icone della Legge, Adelphi, Milano 1985; cfr. il mio La norma Impossibile. Kafka e la porta aperta, «Sapientiam Scire», I, 1998.

78 Qui si intendono il destino e il carattere nella specifica dialettica figurata da Benjamin nell’omonimo saggio, pe la quale mentre il destino “svolge l’infinita complicazione della persona colpevole, la complicazione e la fissazione della colpa” così come tenteremo di mostrare, giacché l’impossibile possibilità del passato guadagna la punta di attualità (la Randpunkt di cui parla Husserl) del presente, il carattere scioglierebbe tale complicazione nella semplicità, una sorta di ritorno alla monade, nella trasformazione del fato in libertà, nel raduno dei tempi nell’inizio semplice che è fuga e rialzo del tempo che è adesso, questo atto: il carattere, scrive Benjamin, è “il sole dell’individuo nel cielo incolore (anonimo) dell’uomo, che getta l’ombra dell’azione comica” su tutto ciò che s’attesta tragico (e qui Benjamin rinvia espressamente a Cohen): W. Benjamin, Destino e Carattere, in Angelus Novus, Einaudi, Torino 1990, p.38.

79 Cfr. E. Husserl, Cart. Med., p.164.

80 Sulla non casualità del termine leibniziano di monade cfr. anche E. Ströker, Husserls transzendentale Phänomenologie, Frankfurt am Main 1987, p.156ss.

81 G.W. Leibniz, Principio della Filosofia o Monadologia, cit., p.283ss.

82 W. Marx, Die Phänomenologie Edmund Husserls: Eine Einführung, UTB Verlag, München 1987, p.89.

83 G. Piana, Esistenza e Storia negli inediti di Husserl, Lampugnani Nigri Editore, Milano 1965, p.30.

84 E. Husserl, Zur Phän. der Intersub., III, p.416ss. In direzione del passato, questa dilatazione si svolge generalmente non nella sfera del Ricordo (Erinnerung), ma in quella della Rimemorazione (Wiedererinnerung), nella quale, come detto, l’Io esperisce la forma dell’evento nella sua “identità possibile”, ritrovando così il passato-in-quanto-presente: si legge a p.417: “Rimemorazione è così condotta in continua Autoverificazione, “percezione” del Passato, del mio presente passato [percezione dell’inizio del passato, del passato in quanto presente, in quanto non ancora passato] e nella mia continuità passata del presente Essere”. In direzione futura, essa, come detto, ha la forma della Aspettativa, o dell’Anticipazione del possibile come dovuto.

85 E. Husserl, Zur Phän. der Intersub., III, p. 416ss. e p.574ss.

86 E. Husserl, Krisis, cit., p.175.

87 E. Husserl, Cart. Med., cit., p.166.

88 Scrive in questo senso Schelling: “Passato: un concetto solenne, noto a tutti e nondimeno compreso solo da pochi. I più non conoscono altro passato che quello che si accresce in ogni momento, che diviene sempre, senza essere. Senza un presente deciso, determinato, non c’è passato. Quanti godono di un tale presente? L’uomo che non ha superato se stesso, non ha un passato, o meglio non ne esce mai (…) Solo l’uomo che ha la forza di staccarsi da se stesso (dall’elemento subordinato del suo essere), è capace di crearsi un passato; solo lui gode di un autentico presente” giacché “nessun presente è possibile, che non riposi su un passato deciso…” (F. Schelling, Le età del mondo, Guida Editori, Napoli 1993, pp.97-98).

89 Un’eco sotto il profilo psicanalitico può rinvenirsi ad esempio nella dottrina di Freud sulla conservazione del passato nella sfera della coscienza; cfr. spec. S. Freud, Das Unbehagen in der Kultur, in Intern. Psychoan. Verlag, Wien 1930, pp.7-18: “conservazione del primitivo (Erhaltung des Primitiven) nel campo psichico”, “sopravvivenza dell’originario (das Überleben des Ursprunglichen) accanto a ciò che in seguito è scaturito ad esso”. “Nella vita psichica la conservazione del passato è più regola che eccezione”; il passato non subisce un annientamento; spiegazione genetica del passato psichico; così, “per quanto dimenticato esso può riapparire nuovamente”. La rimozione, in questo senso, costituisce un’eccezione – traumatica – della conservazione del passato.

90 Secondo il modello rettilineo, infatti, poiché il passare stesso di cui il passato è traccia, tende ad infinito, ad un infinito geometricamente progressivo fondato sulla costante erosione del presente, di un presente costantemente ridotto a punta d’ora, cioè all’ora intesa come limite matematico dell’ ora-non-più e del non-ancora (a sua volta costantemente trasformato in semplice, meccanica, ora), il passato non guadagna mai un’autonomia nei confronti dell’istante e del futuro, e si trova a sua volta ridotto, proprio secondo la logica dell’essere, in un non-essere-più. Assumendo perciò sia il procedere rettilineo (l’idea di progresso) che la successione di Chrónos, reciprocamente, quindi, il passato annulla il presente e il presente getta il passato nel non-essere: il che ci riporta di nuovo alla c.d. A-serie del tempo schematicamente prefigurata da McTaggart e all’idea di una irrealtà del tempo. Ma questa irrealtà deriva dall’apprendere il tempo come essere, come se fosse: proprio il tentativo di apprendere il tempo come se fosse qualcosa che è, lo rende infine un non-essere: infatti ciò significa dal punto di vista dell’io tentare di sottomettere il tempo con il proprio presunto essere, e specificatamente con il sé stesso inteso quale parte essente, rispetto alla propria stessa estraneità ontologica che il divenire – incessantemente – rivela. Allora si può dire che il tempo non sia reale solo se il divenire (e la sua contro-logica ovvero la sua logica controversa o contraddittoria) viene espulso dalla realtà in quanto si presume che essa sia una realtà logico-formale e logico-formata. Per correlato verso, dire che il tempo è reale non significa affatto che esso sia un essente o coincida con l’essere stesso; esso, anzi, dal punto di vista dell’essere è un non-essere, così come, però, l’essere, di converso, è solo un non-divenire, ovvero un essere colto entro un presente cronico (e cronologico), spazializzato e dunque abitabile come ambito, nell’ora presente in quiete da cui poter derivare la presenza delle cose che sono nella simultaneità, ovvero un esser-già-divenuto astratto rispetto al flusso, ovvero, ancora, esplicitazione del diveniente in quanto fenomeno, che appare affiorando in manifestazione (laddove si presume che l’essere del fenomeno sia il fenomeno d’essere).

Se, tuttavia, al contrario, si assumesse il tempo come qualcosa che è, allora il passato formerebbe una sussistenza durevole che penetra infinitamente il presente ed erode il futuro: allora il tempo sarebbe la forma rettilinea del discorso, mediata dall’ è copula (quale ora epicentrale) e sorretta da un soggetto (sostanza passata che dura e permane) che è finché trasla il momento del passaggio al predicato, che nel senso del mutamento, è la corruzione, è la morte, la mortalità stessa del se stesso che l’io ha preformato, e non è più dal punto di vista dell’ora-che-è, visto che essa è translucida e solo la punta impercettibile del passato che avanza.

In questo errore, ricadrebbe anche Bergson, laddove, nel tentativo di far coincidere la durata intesa come l’unico tempo appunto reale o concreto, con il tempo autentico dell’io, giunge a dire che “noi non percepiamo praticamente, che il passato, essendo il puro presente l’inafferrabile progresso del passato che rode il futuro”: H. Bergson, Materia e Memoria, cit., p.151. Anche Husserl scrive nelle sue lezioni del 1905, quindi ben prima di un’analisi sulla relazione tra tempo interno e alterità, che “ogni tempo percepito è percepito come passato che termina nel presente. E il presente è un punto-limite”. Husserl poi fornisce un esemplificazione: “Se percepiamo un volo di uccello, uno squadrone di cavalleria al galoppo, e simili, troviamo le differenze descritte nel substrato di sensazione, sempre nuove impressioni originarie, con l’annesso carattere di posto temporale che ne fornisce l’individuazione, e d’altra parte, troviamo gli stessi modi nell’apprensione” [Tali affermazioni, si inseriscono nella complessa disamina del §31 delle lezioni: Impressione originaria e istante individuale obiettivo: op. cit., p.69, trad. it. cit., p.97]. Sebbene le notazioni inziali sul fatto che Husserl nel porre l’epochè sul tempo obiettivo ne conservi surrettiziamente alcuni caratteri essenziali quali durata e successione, siano decisive qui per comprendere il punto critico dobbiamo segnalare che qui la preoccupazione, diversamente da Bergson, non è quella di derivare da una supposta autentica temporalità (la durèe), le conseguenze appartenenti alla struttura del tempo, quanto quella di individuare a partire dal nesso “sensazione-ora-cosa” l’individualità temporale a partire da cui la scia percettiva inizia a retrocedere verso il passato: essa peraltro non retrocede, come sappiamo direttamente nel passato, ma attraverso ritenzioni, che allontanandosi sempre di più fondano la possibilità di costituire un passato, cioè di obiettivare a partire da un nuovo posto temporale, l’obiettività di un passaggio oramai defluito.

91 E in questo, ancora Schelling nei Weltalter, mostrava l’innesto tra passato e inizio e l’inizioquale raduno contrastato da cui emerge la creazione e la coscienza della possibilità di una creazione: cfr. Schelling, Die Weltalter,¸cit., p.200, tad. it. cit., p.40.

92 Cfr. E. Husserl, Phän. des inneren Zeitbewusst., trad. it. cit., p. 72ss.

93 Cfr. Ivi, p.78.

94 Cfr. Ivi, p.80.

95 Husserl, in altre parole, intende sospingere la monade verso il limite della sua unità, per discoprire il luogo sul quale l’estraneità con tutta la sua ingombrante consistenza può fenomenologicamente annunciarsi. E, dunque, tutto il solipsimo che si attaglia al termine-concetto di «monade» viene trasportato verso il un punto di assoluto non ritorno. E’ ora comprensibile perché, dunque, il solipsismo, come acutamente ha osservato Ricoeur, svolge metodologicamente in Husserl un ruolo analogo a quello che il genio maligno svolse per Cartesio.

96 Cfr. J. Nabert, Element pour une Ethique, Gallimard, Paris 1948, pp.3-19.

97 Cfr. E. Husserl, Zur Phän. der Intersub., II, cit., p.201: “egli non è come nella natura dove gli stati di cose passati sono nulla e solo il presente è reale e realmente ‘opera’… le mie decisioni passate divengono riproduttivamente di nuovo vive e agiscono ora in modo nuovo e rinnovato”.

98 E tuttavia – come avevo delineato anche nella terza parte del mio Tempo e Multiverso – l’io, anche se non-identico, viene assunto comunque come imputabile. Certamente, come nota Ricoeur, le nozioni di Ich-Strahl e di Ich-Pol mostrano l’imbarazzo di Husserl nel descrivere una identità del soggetto e una piena ascrivibilità degli atti ad una agente (Cfr. P. Ricoeur, Sé come un Altro, cit., p.90ss.). Tuttavia, anche a voler considerare la colpa una costellazione di atti attuali e potenziali difficilmente attribuibili ad un io in quanto disgiuntivi, potremmo considerare però che essa, costituisca un insieme e che questo insieme, in quanto formato da atti che trovano senso e riferimento gli uni negli altri (poiché, in virtù dell’insussistenza del requisito dello “stesso tempo”, non è invocabile qui il principio di non contraddizione), è comunque un insieme concordante che si insinua nell’io attualmente riflettente come sua passività: potremmo cioè considerare questo insieme una sintesi passiva che l’io ha posto sotto il titolo di colpa. Chiamiamo, dunque, il lato noematico dell’atto “colpa” (l’altro dell’io) e il lato “noetico” dello stesso “imputabilità” (l’io dell’altro). Un tale Io, non è, quindi, come quello di Kant, una funzione trascendentale dell’io empirico, cioè “l’io penso che accompagna le mie rappresentazioni”; in Kant l’io è fenomenico o psicologico: solo l’attività morale, in quanto espressione pratica del Faktum der Vernunft (Il fatto della ragione è il dovere, quindi, la libertà) è noumenale (cioè, appunto non secondo l’imperativo disgiuntivo ma secondo quello categorico). In Husserl l’io cogito qua cogitatum è aldilà della contrapposizione fenomeno-noumeno, (come del resto, può dirsi, lo era l’Io di Fichte). Per cui esso è Noesis di un Noema e, sebbene non si possa parlare di una vera sostanza, l’Io puro, con in suoi Erlebnisse puri, non è un io fenomenico, ma l’io di ogni Atto e che è ogni atto, l’io non ulteriormente riducibile o, in senso Fichtiano, non ulteriormente deducibile, e che si concretizza in un corpo, come temporalità immanente delle sue Esperienze, e come Raggio intenzionale permanente capace di intuizione intellettuale oltre che sensibile. L’illimitazione avviene, dunque, entro la Monade; ed avviene solo nella misura in cui la monade appercepisce sinteticamente la colpa come propria. Analiticamente, allora, l’auto-imputarsi qualcosa può essere considerato come il rinvenimento di quell’io che in ultima istanza ha agito, nella qualità di sorgente originaria del procedimento: di quell’io che ha quindi agito in assenza di quelle circostanze nelle quali l’io stesso altrimenti non agit sed agitur, come ad esempio, il caso fortuito e la forza maggiore. In questo senso, l’autoimputazione, traducendosi in colpa, illimita l’io trascinandolo nella lontananza del suo aver-potuto-iniziare altrimenti la serie causale dei fenomeni: e, così, accendere nel passato, il senso dell’inizio.

99 In questo senso, scrive Ricoeur, “la colpa è un’avventura le cui possibilità sono immense; al suo limite estremo è una scoperta dell’infinito”: P. Ricoeur, Il volontario e l’involontario, Marietti, Genova 1957, p.25.

100 Proprio dal Kern dell’Ego.

101 È sussumibile in questa tensione specificamente drammatica l’esperienza del pentimento o dell’espiazione? Non è forse nella trasformazione dell’impossibilità in «possibilità impossibile» che l’espiazione trova la sua ipotesi di lavoro?

102 Scrive infatti al riguardo Schopenhauer: “Per un evento sfortunato, ormai avvenuto e che quindi non si può modificare, non ci si deve neppure permettere di pensare che le cose sarebbero potute andare diversamente, e ancor meno il pensiero di come si sarebbero potute evitare: è proprio tale pensiero che accresce il dolore rendendolo insopportabile, di modo che diventa un eautontimoroumenos [n.d.c. punitore di se stesso]”; inoltre, scriveva qualche riga sopra Schopenhauer, “si teme che la sofferenza sia la conseguenza di una qualche colpa”: A. Schopenhauer, La saggezza della vita. Aforismi, Newton, Roma 1994, cap. V, aforismi 11 e 12, p.138.

103 Aristotele, Metafisica, libro Q, 1046 a 14-35 e 1050b 5-25, trad. it., Milano 1993, p.397s. e p.423s.

104 Scrive in questo senso Husserl: “Io ho nel mio presente originario il simulare (Fingieren) e il simulato (Fingierte) e ho il simulato come velo che nasconde (verdeckend) ciò che per me è, e il Simulare in un certo modo come nascondente il mio essere reale. Il Nascosto (Verdeckt) è, ciò che per me effettivamente vale …. mentre il Nascondente (Verdekende) è valido (geltend) nel Come-Se, e in questo modo “è” finzione; esso tuttavia per me non è Realtà e perciò non contrasta con la realtà, quanto piuttosto con un’altra Finzione, in caso che io mantenga entrambi nell’unità di un Come-Se in quasi-Validità, ciò che è [un] Fatto (Sache) della libertà. Così la finzione di altri in me non è ancora una Costituzione di altri in quanto essenti, e la mia comunità con loro è una comunità come-se e non una comunità effettiva”: E. Husserl, Zur Phän. der Intersub., III, cit., pp.417-418.

105 Ciò anzi significa che la riflessione stessa subisce, per così dire, il flusso della temporalità, della scansione presente-passato-futuro, senza costituirlo: la mancanza dell’altro in quanto Altro, avrebbe come effetto quello di porre la riflessione stessa nella tensione tra tempo e atto, giacché anche pre-riflessivamente l’io è temporale: Cfr. G. Brand, op. cit., pp.140-145; si legge a p.140: “Se l’io fosse temporale non nella riflessione ma in seguito alla riflessione, la riflessione sarebbe la creazione della temporalità”; e, ancora, scrive Brand: “L’io fungente nel flusso ha, come dice Husserl, “il suo modo d’essere come pre-temporalizzazione” (Cfr. Man C 17 IV, 4); si legge inoltre a p. 142: “L’io non è dato, ma è pre-dato che esplicita attivamente la sua passività, cogliendola nella riflessione (cfr. E. Husserl, Ideen, II, 252)”.

106 E. Husserl, Krisis, trad. it., p.198.

107 E. Husserl, ivi, p.110.

108 Cfr. E. Husserl, Zur Phän. der Intersub., III, pp.604-605.

109 E. Housset, Personne et sujet selon Husserl, cit., p.127.

110 E. Husserl, Zur Phän. der Intersub., III, p.378.

111 G. Hoffmann, Zur Phänomnologie der Intersubjektivität, in «Zeitsch. für Phil. Forsch.» n.29, 1975, p.148.

112 E: Husserl, Ideen, II, p.352; cfr. G. Römpp, Husserls Phänomenologie der Intersubjektivität, cit., p.125ss.

113 Cfr. in questo senso, ancora l’idea di Kant di una causalità della ragione di fronte alla causalità della natura, di una libertà morale di contro a una necessità meccanica: probabilmente, è per la stessa concezione del tempo che Kant non ha visto il passaggio di confusione tra le due sfere, sebbene nell’esperienza estetica e nella corrispondente nozione di giudizio riflettente, sono, forse, avvertibili barlumi concettuali che invitano il discorso a camminare in questa direzione.

114 Cfr. F. Nietzsche, Genealogia della morale. Uno scritto polemico, Newton Compton, Roma 1992, p. 85ss. In questo testo del 1887, dunque successivo alla redazione delle comunicazioni dell’eterno ritorno e al delinearsi della nozione di volontà di potenza, Nietzsche affronta uno dei punti nevralgici della sua riflessione filosofica, vale a dire la genesi del senso di colpa, della cattiva coscienza, del sentirsi in difetto rispetto ad una promessa che è stata estorta e che non è possibile mantenere (il che conduce al concetto di peccato originale).

115 Ibidem: “Allevare un animale che “possa fare delle promesse” – non è proprio questo il compito paradossale che la natura si è imposto nei confronti dell’uomo? Non è questo, in realtà, il vero problema dell’uomo?”

116 Cfr. E. Husserl, Vorlesungen ueber passiven Syntesis, Hua XI, p.327.

117 Cr. E. Husserl, Logica formale e trascendentale, Laterza, Roma-Bari 1983, p. 291.

118 E. Husserl, Zur Phän. der Intersub., III, cit., p. 416ss.

119 S. Kierkegaard, La ripetizione. Un esperimento psicologico, Rusconi BUR, Milano 2000, p. 12.

120 Cfr. Ivi, pp.12-13: “L’unico amore felice è quello del ricordo, ha detto uno scrittore. E in ciò ha pienamente ragione, a patto però di ricordare che sulle prime rende infelici. In verità, l’unico amore felice è quello della ripetizione. Al pari dell’altro non conosce l’inquietudine della speranza, la sfida angosciosa della scoperta, ma in più gli è ignota la mestizia del ricordo – ha la sicurezza beata dell’istante. La speranza è un vestito nuovo fiammante, tutto liscio e inamidato, ma non li si è mai provato per cui non si sa come starà o come cascherà. Il ricordo è un vestito smesso che, per quanto belo, però non va perché non entra più. La ripetizione è un vestito indistruttibile che calza giusto e dolcemente, senza stringere né ballare addosso. La speranza è una donzella leggiadra che sguscia via tra le dita; il ricordo una donna anziana, bella sì, ma mai soddisfacente alla bisogna; la ripetizione una compagna amata di cui non ci stanca mai, siccome è solo il nuovo ad annoiare. Il vecchio non annoia mai, e la presenza sua rende felici, e felice davvero sarà soltanto chi non inganna se stesso fantasticando che la ripetizione debba essere una novità, poiché allora verrebbe a noia. C’è bisogno di giovinezza per sperare, di giovinezza er ricordare, ma c’è bisogno di coraggio per volere la ripetizione. Chi vuol solo sperare, è vile; chi solo ricordare, voluttuoso; ma chi vuole la ripetizione è un maschio vero, e tanto più profondamente umano quanto più fermamente avrà saputo penetrarla. Chi invece non afferra che la vita è una ripetizione e ciò sta la bellezza della vita, s’è giudicato da se e non merita più di quanto gli accadrà comunque – perire. Che la speranza è un frutto invitante che non sazia, il ricordo un viatico stento che non sfuma; ma la ripetizione è il pane quotidiano che nutre in abbondanza. Solo una volta circumnavigata l’esistenza verrà fuori se si ha coraggio di capire che la vita è una ripetizione, e voglia di gioirne. Chi non ha fatto il giro della vita prima di cominciare a vivere, non giungerà mai a vivere; chi l’ha fatto rimanendo però sazio, aveva una cattiva costituzione; chi ha scelto la ripetizione, vive. Costui non corre a caccia di fardelli come un ragazzino, ne sta in punta di piedi a spiare le glorie del mondo, che le conosce. E neppur siede come una vecchia a filare la rocca del ricordo, ma va tranquillo per la strada sua, lieto della ripetizione. Si, senza neanche una ripetizione, cosa sarebbe poi la vita? Chi potrebbe augurarsi d’essere una lavagna su cui il tempo scrivesse ad ogni istante un rigo nuovo, o d’essere un memoriale del passato? Chi potrebbe augurarsi di venir eccitato da tutto l’effimero, da tutto quel che sempre in modo nuovo diletta mollemente l’anima? Se Dio stesso non avesse voluto la ripetizione il mondo non sarebbe mai nato.”

121 Nel ricordo infatti il flusso del cogito va a retroagire dal nuovo (il presente) sul vecchio (il passato) per riprodurne l’impressione: cfr. E. Husserl, Zur Phänomenologie der inneren Zeitbewusstsein., cit., §3, trad. it. cit., p. 51: “Il ricordo (Erinnerung) – scrive Husserl – è un flusso costante”, nel quale “ogni nuovo reagisce sul vecchio”

122 E. Husserl, Zur Phän. des inneren Zeitbewusst., cit., p.411, trad. it. cit., p. 84

123 Cfr. E. Husserl, Krisis, trad. it. cit., p.212: “L’auto-temporalizzazione, che avviene, per così dire (nella rimemorazione) attraverso una de-presentazione (Ent-Gegenwärtigung), trova la sua analogia nella mia auto-estraniazione (Ent-Fremdung). Così «un altro io» perviene alla validità d’essere in quanto compresente in me”.

124 Cfr. G. Römpp, Husserls Phänomenologie der Intersubjektivität. Und ihre Bedeutung für eine Theorie intersubjektiver Objektivität und die Konzeption einer phänomenologischen Philosophie, Kluwer, Dordrecht/Boston/London 1992, p. 191.

125 Cfr. M. Theunissen, Der Andere, pp.143-144.: giacché la detrascendentalizzazione dell’altro è una “presentificazione della coscienza trascendentale (cfr. E. Husserl, Erste Philosophie, II, p. 497)”, il primo analogo della empatia e dell’altro come immanente al movimento di ritemporalizzazione dell’Io.

126 H. Bergson, Saggio sui dati immediati della coscienza, cit., cap. II, p. 47.

127 Risalendo il flusso di coscienza a contrario, lo si percepisce come se fosse un flusso obiettivo. Eppure, non v’è dubbio, che questa percezione è anche una appercezione giacché include l’io, insieme all’«ora» in cui l’atto di riflessione stesso ha preso inizio. A questo dato, però, si può a sua volta obiettare dicendo che l’«ora» dell’atto riflessivo e l’io riflettente stesso sono però dislocati, gettati nella corrente contraria in cui altri «ora» sono incontrati come originari e non affatto derivati rispetto all’«ora» da cui si muove. L’«ora» e la coscienza dell’«ora» non coincidono, e ciò è una difficile regola generale, già incontrata, che qui riaffiora in tutta la sua complessità e che fece sospirare molte volte Husserl che, ad esempio, esprime questo dilemma in modo lucido, in una pagina databile tra l’ottobre 1908 e i primi mesi del 1909, in un testo intitolato «La modificazione memorativa primaria» (poi inserito nel volume Zur Phän. der innere Zeitbewusst., n.50, p.333, trad. it. cit., p.326): “c’è qualcosa —scrive Husserl— di assurdo nel fatto che il flusso temporale venga visto come un movimento obiettivo? Sì! D’altra parte, il ricordo è pur qualcosa che ha un proprio «ora» e lo stesso «ora», per es., di un suono. No. Ecco l’errore di fondo. Il flusso dei modi di coscienza non è un processo, la coscienza di ora, non è a sua volta adesso. Ciò che nella ritenzione è insieme alla coscienza-di-«ora» non è adesso, non è simultaneo all’«ora», il che anzi è privo di senso… Si commette questo errore quando si indica la ritenzione in rapporto alle precedenti fasi di coscienza, come ricordo (…) Queste sono cose della massima importanza, forse le più importanti dell’intera fenomenologia”.

128 Cfr. K. Dembigh, Three Concepts of Time, Springer Verlag, Berlin 1981, p.34ss.; e cfr. M. Dorato, Time and Reality. Spacetime Physics and the Objectivity of temporal Becoming, Clueb, Bologna 1995, p.17ss.

129 Su questa interpretazione dell’eterno ritorno cfr. M. Heidegger, Nietzsche, cit., p.258ss.

130 Essa è quindi anche una reversione sul presente: non una spinta verso un’anticipazione del futuro che non arriva mai —ossessione— ma un volere ciò che è; nel senso di volere ciò che l’attualità è, con gli atti e gli stati che vi sono liberamente/necessariamente implicati.

131 Cfr. E. Bloch, Il principio di speranza, Garzanti, Milano 2002, p. 108ss.

132 Ivi, p. 32ss.



È scrittore, laureato in giurisprudenza e in filosofia, due dottorati di ricerca (Filosofia del Diritto presso L’Università degli Studi La Sapienza e Filosofia Teoretica presso la Pontificia Università Gregoriana), ha pubblicato una ventina tra saggi, monografie e articoli in campo filosofico tra cui “Tempo e Multiverso: indagine sulla struttura originaria del tempo” (Stamen 2008). E’ stato assistente alla Sapienza e professore alla European School of Economics; attualmente esercita la professione di avvocato urbanista. Autore di circa sessanta testi teatrali, un suo romanzo Il male è chiaro, è stato finalista al premio Calvino (pubblicato nel 2013(, mentre nel 2021 è uscita la tetralogia “Il Fondo”. Ha collaborato come organizzatore e promotore di molte iniziative culturali in campo filosofico e teatrale ed è tra i fondatori Centro nazionale di drammaturgia italiana contemporanea. All’interno del progetto Libertà di Studiare, in collaborazione con La Sapienza, il Consiglio dell’Ordine di Roma e la Scuola Forense, ha tenuto per i detenuti di Rebibbia corsi di diritto e filosofia del diritto all’interno del corso di laurea in Giurisprudenza


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