L’occasione tra “La parola e il canto”. A colloquio con gli autori di un nuovo manuale di (anti) letteratura greca.

Almeno per due motivi non potevamo farci sfuggire l’occasione di discutere di cultura greca con un gruppo di ricerca brillante e affiatato che ha appena portato a termine l’impresa editoriale di La parola e il canto, l’ultimo manuale di letteratura greca uscito per Mondadori quest’anno.

La prima ragione la si ritrova già nell’indice di quest’opera: i temi infatti sono anteposti alle classiche gerarchie di autori e di epoche e si sviluppa dando risalto ai fatti culturali ben prima delle loro formalizzazioni testuali e dei loro incasellamenti teorici. I curatori, tanto per intenderci, per indicare quanta ricchezza di dati e di segni si possono nascondere dietro i testi classici, hanno parlato dei testi omerici come un’enciclopedia tribale…

La seconda ragione è che l’occasione di incontro in un certo senso è stata generata proprio dal concetto di ‘occasionalità’ che gli autori di quest’opera hanno utilizzato più come grimaldello che come chiave di volta per scardinare l’errato approccio ai testi classici e al concetto di letteratura greca che generalmente abbiamo. Il lettore infatti viene portato davanti al fatto compiuto che i greci soprattutto dell’epoca arcaica vivevano il loro tempo scevri dalle fisime dell’autorialità e del vezzo narcisistico, calati come erano nel flusso di un tempo eterno scandito da liturgie e feste ricorsive che costituivano l’occasione del testo cosiddetto ‘letterario’. Temporalità e civiltà, culto e letteratura erano fortemente legati e venivano vissuti nel flusso quotidiano della vita, e quello che è giunto sino a noi sottoforma di testi ne rappresenta solo una infima parte. Ma, badate bene, non perché sia andato perduto nel tempo quanto piuttosto perché i greci stessi non hanno avuto alcuna esigenza di tramandarcelo; non ne avrebbero del resto sentito l’urgenza. Il loro evento cultuale-culturale era fine a se stesso, nel senso che trovava senso e compimento nel suo espletarsi, dando linfa e stabilità alla loro esistenza in società. Per coglierne un lampo dei modi di vivere culturalmente (più che letterariamente) la comunità e di stare nel e sul tempo dei greci, potremmo vederne un’intuizione nelle performance artistiche dei situazionisti del secolo scorso, nell’opere d’arte che si distruggono ad un’asta internazionale, o nelle ‘storie’ di facebook che durano un giorno. In altre parole i greci erano liberamente, naturalmente anti letterari e non rincorrevano il tempo perduto perché, come aveva intuito Nietzsche, lo danzavano. L’evento di stare insieme per un matrimonio, un funerale una libagione o una festa dionisiaca non era occasionale ma un’occasionalità.

Questo passaggio da aggettivo a sostantivo, da qualità a concetto, da evento a temporalità, non poteva che intrigarci e provocare le tante domande che abbiamo rivolto Livio Sbardella, Riccardo Palmisciano e Andrea Ercolani, autori di un’opera che per certi versi potrebbe essere definita come un manuale di anti-letteratura greca.

BRAMBILLA (Leussein)

Partirei da un’osservazione personale. Da studente della scuola superiore, di ormai parecchi anni fa, una delle mie difficoltà è sempre stata quella di un approccio alla letteratura che non si traducesse soltanto nel culto assoluto del testo fine a se stesso. Questo significava di fatto impararlo prima quasi a memoria (con la traduzione e le figure retoriche) e solo dopo giungere al contenuto vero e proprio e alla sua contestualizzazione, spesso in maniera frettolosa. A questo si aggiungeva un’impostazione dello studio della storia della letteratura come se fosse una sorta di supermercato con i suoi vari reparti. Ad esempio, per la letteratura greca c’era il reparto dei lirici con tutti i suoi scaffali corrispondenti ai vari autori e sui vari ripiani i testi, poi il reparto degli storici con Erodoto, Tucidide e Senofonte, e così via. Insomma, tutti i nomi e tutti i testi erano lì, belli ordinati ma scollegati tra di loro. Poi al limite stava al docente fare un po’ da collante. Tuttavia, spesso il docente di letteratura era autonomo dall’insegnamento della storia, pur magari essendo la stessa persona; perciò i testi rimanevano in qualche maniera avulsi dal loro essere parti di storia. Da storico la cosa mi ha sempre lasciato un po’ perplesso e insoddisfatto.

Passato dall’altra parte della barricata, da docente, ogni anno si arriva al periodo in cui gli uffici e le sale insegnanti si riempiono dei libri di testo portati dai rappresentanti che propongono nuove soluzioni da adottare per gli anni successivi, spesso molto simili nell’impostazione. Venire a contatto con la vostra proposta e con un testo che cerca di cambiare l’approccio allo studio della letteratura nella direzione che, da studente, ho sempre sentito come mancante è una ventata fresca.

Detto questo inizio con una domanda provocatoria: che senso ha scrivere un’altra letteratura greca oggi?

ERCOLANI (autore)

Da un un punto di vista prettamente didattico la risposta è in buona sostanza nelle tue parole. Uno dei nostri obiettivi era provare a far capire che i testi hanno un senso e un valore che non è soltanto letterario ma sono una chiave d’accesso a una cultura a tutto tondo. Questo, dal punto di vista della contingenza disciplinare, si è tradotto in un approccio diverso che già di per sé potrebbe bastare a giustificare la genesi di una nuova letteratura, nello specifico della letteratura greca.

L’altro elemento, invece, scaturisce da una riflessione più profonda su cui noi autori ci siamo soffermati in più di un’occasione: la letteratura greca è un unicum nel panorama delle letterature occidentali perché ha alcune caratteristiche sue proprie, tra cui una componente aurale, e prima ancora orale, che richiede particolari strumenti di analisi, nonché prospettive di approccio e di valutazione altrettanto specifiche. Di fatto, questo si traduce nella messa a punto di un armamentario critico che nessun’altra letteratura, tra quelle che normalmente si studiano a scuola, è in grado di fornire.

Faccio un esempio, soltanto per intendersi: leggere i poemi omerici dal punto di vista dell’antropologia e intendere il testo dell’epica come una “enciclopedia tribale”, una summa di conoscenze, un deposito di valori, saperi e modelli, è diverso dal leggere, ad esempio, l’Eneide che, per quanto presenti alcuni contenuti simili, non ha quel ruolo di “maestro del popolo”, di testo fondante per la società. Perché questo è il vero punto nodale: il testo letterario greco si inserisce all’interno di una società con la quale interagisce profondamente e intimamente, direi quasi strutturalmente.

Nel caso di quella che convenzionalmente definiamo “letteratura greca” non si ha a che fare con una sovrastruttura in termini marxisti ma si tratta di struttura; è un elemento fondativo come proprio il sistema delle occasioni tipico della cultura greca dimostra chiaramente.

In sintesi, dunque, sono due gli elementi che hanno guidato il nostro operato: da un punto di vista più strettamente didattico e immediato, la prospettiva che abbiamo cercato di veicolare con questa nostra opera serve esattamente a dare il senso del testo all’interno della cultura che l’ha prodotto; a ciò si aggiunge un secondo intento di medio e lungo termine, ovvero quello di fornire ai ragazzi la possibilità di acquisire strumenti cognitivi e critici che soltanto lo studio di questa disciplina, la cosiddetta “letteratura greca”, riesce a dare.

BRAMBILLA

Parlando di sistema delle occasioni entra in gioco il rapporto dell’opera letteraria con il contesto culturale che l’ha generato. Qual era tale rapporto nel mondo greco?

PALMISCIANO (autore)

Innanzitutto, ritengo sia importante riflettere sul concetto stesso di letteratura. Il fatto che i Greci non avessero una parola che corrispondesse al nostro vocabolo “letteratura” è molto significativo, considerata anche la ricchezza della lingua greca. Se non avevano la parola, non avevano neanche il concetto. Noi autori ci siamo posti in questa prospettiva, abbiamo cercato di adottare questo approccio. Almeno fino a tutta l’età classica, infatti, abbiamo evitato di usare il termine “letteratura”.

Inoltre, non abbiamo cercato di contestualizzare la letteratura, perché anche questa idea ci sta stretta: contestualizzare un testo letterario è un’operazione che si fa nello studio di tutte le letterature, ma nel caso della letteratura greca è necessario cambiare la prospettiva e partire proprio dallo studio del contesto. Il testo letterario greco, infatti, è intimamente connesso con il contesto, che è l’occasione per cui esso è nato ed è la società per cui esso ha svolto una determinata funzione. Quindi per noi è risultato molto importante partire dall’indicare la funzione di un testo all’interno della società che l’ha generato, evitando invece di rivendicare l’autonomia del fatto letterario in sé, una dinamica che in Grecia, se mai è rintracciabile, si può percepire solo a partire dall’età ellenistica e con innumerevoli eccezioni.

Quindi la riflessione su quella che per comodità viene chiamata “letteratura greca” consente anche di impostare in modo radicalmente diverso da come è stato fatto nella cultura occidentale il rapporto fra struttura e sovrastruttura. Questo dilemma, infatti, non si pone nel caso della cultura greca e non è metodico porselo.

SBARDELLA (autore)

Noi abbiamo usato un’immagine per sintetizzare questa idea, ovvero l’immagine del solido culturale. La cultura greca produce testi, ma si pone come una sorta di cristallo che deve essere guardato nella sua interezza per essere compreso. Il testo è solo una delle facce di questo solido e, dunque, non è sufficiente concentrarsi solo su di esso. Almeno fino all’età ellenistica quello greco non è un sistema letterario, ma è una cultura che produce testi e quindi il testo deve essere per forza compreso insieme al suo portato culturale complessivo. Se il testo viene estrapolato dal contesto e viene trattato come si fa in altre letterature, ovvero come un qualcosa che fa sistema con altri testi, nel caso della cultura greca si sbaglia l’approccio. Nel contesto greco il testo fa sistema con il contesto e non con gli altri testi. Almeno fino all’ultimo scampolo del IV secolo a.C., per non dire al III secolo a.C., nella letteratura greca non esiste uno specifico letterario che funziona in quanto tale. Poi, in età ellenistica, questo specifico letterario comincia a formarsi ma con delle peculiarità che comunque lo contraddistinguono.

PALMISCIANO

Tornando alla domanda precedente, ne consegue che una letteratura greca che risponda a queste sollecitazioni intellettuali deve essere diversa già dall’indice. Noi eravamo in qualche misura insoddisfatti delle pur ottime letterature che sono in circolazione, perché se uno prende l’indice di queste letterature e lo confronta con l’indice di una letteratura italiana, francese o inglese trova una consonanza strutturale. Ma essendo la natura del fenomeno che indichiamo come “letteratura greca” profondamente diversa dalle altre letterature, ed essendo la cultura greca un unicum, la diversità si deve percepire sin dall’indice.

ERCOLANI

I testi nella società greca arcaica e classica, e in parte anche in quella successiva, non sono mai atti comunicativi isolati e fini a se stessi, ma sono accompagnati da un insieme di fattori che sono anche funzionali alla ricostruzione storica di un tessuto sociale, di un tessuto connettivo che li pone in essere, che li richiede e li prevede, che ne ha bisogno. Questo è vero non solo per la poesia, ma anche nell’ambito di quella che, usando una categoria binaria semplice, viene chiamata prosa, ovvero il testo non metricamente organizzato, che sia quello dell’assemblea, quello del tribunale, quello della memoria storica o quello della riflessione politica. In altre parole, il testo non è mai qualche cosa di accessorio, non è un di più, ma è qualcosa di consustanziale alla società che l’ha generato; non risponde a un bisogno intimo di eco romantica, ma è una necessità, perché i testi sono i codici, i canali e gli atti comunicativi che consentono la sopravvivenza e il funzionamento di quella società.

Quella che proponiamo, dunque, è in certa misura una ricostruzione sul modello longue durée della scuola de Les Annales. Noi utilizziamo un aspetto, il testo, per cogliere il solido culturale.

BRAMBILLA
Gli spunti di riflessione sono veramente tanti, ma vorrei concentrarmi sul concetto del solido culturale. Fondare un approccio di studio su questa idea di una complessità che è fatta di tante sfaccettature, le quali tutte insieme danno l’immagine della società studiata, è un concetto che funziona e permette anche di andare un po’ oltre alcune categorie granitiche e inattaccabili. Questo, a mio parere, aiuta anche nella didattica, perché spinge necessariamente gli studenti a uscire dai famosi compartimenti stagni della memoria tanto e giustamente esecrati da ogni professore. Un approccio di questo tipo al fenomeno della letteratura aiuta, naturalmente, a plasmare le menti dei ragazzi affinché adottino un approccio più completo allo studio. Peraltro, rende anche più comprensibili, e forse anche più affascinanti, tanti concetti e tante sfumature.

SBARDELLA

Certo. Inoltre, permette di introdurre categorie legate, per esempio, al sistema della comunicazione che aprono la mente dei ragazzi a problematiche che riguardano, appunto, la comunicazione e che, nella loro metodica, anche se non nei contenuti, sono di estrema attualità. In altre parole, in qualche misura i ragazzi sono costretti a riflettere su un sistema di comunicazione complesso e molto diverso da quello attuale, ma che per certi versi diventa una palestra di formazione per capire che cosa sia la comunicazione all’interno di un gruppo sociale. Il che serve anche a capire certi fenomeni del presente.

BRAMBILLA

A questo punto, però, mi viene naturale chiedere che cosa sia l’“occasione”, perché a volte si rischia di fraintendere il concetto e avvicinarlo a quello di “occasionale”, che porta a introdurre un elemento di casualità. Come fare passare questo concetto ai ragazzi?

PALMISCIANO

L’occasione è l’evento sociale che genera il testo, che richiede l’esistenza di un testo, il quale risulta necessario ai fini dell’occasione stessa. La poesia d’occasione greca è una poesia necessaria e necessità è il contrario di casualità. Peraltro, è importante sottolineare che nella cultura greca al posto di Mimnermo, Alceo, Simonide e così via avrebbero potuto esserci altri nomi, e ci sono state altre persone che hanno svolto quella stessa funzione nel solido culturale. Molti di questi autori, la stragrande maggioranza, sono rimasti anonimi proprio perché erano riconosciuti all’interno del gruppo sociale di cui facevano parte: non si sentiva il bisogno di esplicitare il loro nome perché era noto a tutti nel contesto in cui essi operavano e perché il focus non era sull’autore e sulla sua esigenza soggettiva, ma sul testo e sulla sua funzione collettiva. Questo permette anche di superare l’approccio autoriale alla materia.

ERCOLANI

Il concetto di occasione deve essere certamente disambiguato dal concetto di occasionale. L’occasione è un momento comunitario di rilevanza collettiva, ripetuto nel tempo perlopiù con cadenza regolare, in cui è prevista anche la performance di un testo che diventa momento costitutivo comunitario. È fondamentale, dunque, sottolineare la dimensione collettiva e comunitaria di tutti gli eventi nella società greca, contrariamente a quanto accade nelle nostre società occidentali, che, da Gutenberg in avanti, ovvero dall’invenzione della stampa a caratteri mobili, prevedono tanti momenti solipsistici di fruizione individuale del testo. Nel mondo greco, invece, c’è una dimensione collettiva comunitaria che chiaramente proietta su un piano completamente diverso anche il momento della genesi e della fruizione del testo. Una maniera di provare a intuire il funzionamento di tale mondo è provare a osservare la dimensione collettiva e comunitaria della vita di paese dell’Italia degli anni ’50, in cui spesso non c’era uno scarto tra privato e pubblico, tra individuale e collettivo, e c’erano occasioni legate a ritmi della vita comunitaria. È necessario, dunque, lasciare da parte la dimensione solipsistica moderna ed entrare in un’ottica diversa. Allora diviene possibile capire meglio che cosa voglia dire occasione comunitaria.

SBARDELLA

Mi ricollego alla difficoltà di parlare di letteratura per quanto riguarda il mondo greco di età arcaica e classica. Per far capire la differenza che c’è tra un sistema letterario e una cultura che genera i testi per le occasioni bisogna, secondo me, sottolineare il fatto che in una società della letteratura il testo nasce per un’esigenza individuale, cioè il testo nasce da una spinta soggettiva del suo creatore a comunicare qualcosa da lui sentito come importante. Il testo così generato potrebbe anche avere in alcune circostanze delle occasioni di performance, ma questo diventa un fenomeno secondario, perché quella che ha dato vita al testo è un’istanza di tipo individuale, soggettivo. In una cultura dell’occasione come quella greca, invece, vale esattamente il contrario, ovvero il testo non è mai prodotto in risposta a un’esigenza del singolo individuo, a una necessità soggettiva, ma è sempre concepito per un’esigenza collettiva e oggettivata nella sua importanza da un rito sociale, da un rito religioso, insomma da circostanze significative per un gruppo sociale. Questa è la grossa differenza e ciò permette di capire che “occasione” è tutt’altro che “casualità”.

SACCO (Leussein)

Dato che questo numero di Leussein intende proprio prendere spunto dal concetto di occasionalità così come l’avete utilizzato nella vostra ricerca ovvero (riprendendo proprio l’ultima definizione data da Andrea Ercolani): “Un momento comunitario di rilevanza collettiva ripetuto nel tempo per lo più con cadenza regolare in cui è previsto anche un testo”, vorrei chiedervi di soffermarci sul rapporto tra il concetto di occasionalità e il concetto di tempo. Prendo ad esempio la tripartizione del concetto di tempo nell’antica Grecia come declinato nel Vocabulaire européen des Philosophies, curato da Barbara Cassin, ovvero: Kairos (il tempo opportuno), Kronos (il tempo atmosferico) e Aion (il tempo del flusso vitale, dell’esistenza del fanciullo, del gioco e del dio) 1. A quale di queste tre percezioni o intuizioni del tempo secondo voi aderisce maggiormente il concetto di occasionalità così come viene utilizzato nel vostro manuale?

SBARDELLA

A mio avviso insistono nel concetto di occasionalità sicuramente sia il tempo kairologico sia quello aionico. La dimensione kairologica è sicuramente presente perché nelle culture orali persiste l’idea che la singola occasione in tutte le sue componenti di carattere contestuale ed emotivo è irripetibile, è qualcosa che si può verificare così e in quel modo solo una volta nel tempo, e quindi è un evento. Però attenzione nel concetto di occasionalità è presente un kairòs per così dire unico ma non effimero, perché viene proiettato all’interno di una visione aionica, l’ aiòn. Quella greca, infatti, è una società che si proietta nel tempo e che si immagina nel tempo. Le ‘occasioni’, per quanto diverse l’una dall’altra, servono comunque a costruire e a proiettare verso il futuro un’immagine che questa società ha di se stessa attraverso le proprie istituzioni religiose, civili e politiche e quindi in qualche modo a solidificarle e a renderle durevoli. Si, io vedo interagire tutt’e due queste componenti: quella momentanea e immanente di evento unico del kairòs, che però si proietta in altri eventi unici nel tempo che hanno tutti lo stesso significato aionico, e intorno ai quali si costruisce un’identità comunitaria che vuole essere durevole e progettuale.

SACCO

Ma tra le due, kairòs e aiòn, è possibile affermare che la dimensione aionica prevalga in qulache modo su quella kairologica? Mi spiego. Quando in redazione abbiamo posto il tema dell’intervista e i possibili approfondimenti, uno dei nostri redattori (Alessandro Nardis) ha ricordato un passo dell’Odissea (VIII Libro) in cui l’aedo Demodoco (che secondo gli studiosi potrebbe rappresentare lo stesso Omero) viene chiamato nella corte dei Feaci a introdurre e cadenzare la giornata di festa celebrativa per lo straniero (Odisseo). Ebbene uno dei primi atti che fa è invocare la musa ispiratrice. Ecco, dal tipo di evento narrato si può percepire come la divinità venga invocata perché si entri in un’altra dimensione: nel flusso divino che trasforma la quotidianità in un tempo immortale.

PALMISCIANO

Io sottolineerei più l’aspetto aionico, un po’ di più di quanto ha fatto Livio, perché credo che nell’epoca arcaica i Greci avessero una visione immersiva del tempo e quindi un’esperienza del tempo come flusso. Non tanto come tempo strutturato, come tempo lineare, ma come flusso di cui si percepisce lo stare immersi. E questo si vede anche nel sistema verbale greco, dove la definizione di un’azione in rapporto a questo flusso interminabile prevale nella fase più antica rispetto alla definizione di un tempo strutturato. Quest’ultimo sarebbe certamente piaciuto di più ad Aristotele, che distingueva un presente rispetto poi a un passato e a un futuro come una sovrapposizione razionale su un’esperienza del tempo che era tutt’altro. Il tempo per i greci era invece un flusso interminabile, come un fiume dove non si possono mettere le mani due volte nella stessa acqua. Però rispetto a questa visione del tempo, il sistema delle occasioni, visto che corrisponde ad un calendario festivo, e questo calendario è ricorrente, impone una ciclicità al tempo e non una linearità. Quindi la strutturazione arcaica del tempo, se mi posso sbilanciare, anche se non sono un esperto, è appunto proprio quella che esprime un’idea forte di ciclicità. Per cui la singola festa, in un certo calendario festivo peraltro ricchissimo (sono state contate più di 80 festività per l’Atena classica durante un anno) veniva percepito come un evento individuale però ricorrente. Quindi ha ragione Livio nel vedere entrambi questi aspetti, però io penso che l’uomo greco arcaico avesse una visione del tempo più concreta della nostra, meno intellettuale; e si sentiva immerso in un flusso nel quale era trasportato e che aveva una strutturazione soltanto ciclica con il ripetersi di un certo numero di eventi ogni anno.

ERCOLANI

Dico la mia. Per quel poco che sono riuscito a vedere studiando a proposito di Esiodo e la Zeitrechnung, ovvero le modalità di computo del tempo, quello che è stato detto funziona perfettamente. Da un lato c’è un dato esperienziale concreto che è la ciclicità stagionale, che tende a ritornare identica a se stessa; e non è un caso che larghissima parte del calendario religioso tenga in conto di questa ciclicità legata alle stagioni, alla vegetazione, ai ritmi lavorativi sanzionati, chiamiamola così, per ancoraggio divino. Dall’altra c’è la chiarissima consapevolezza di un flusso lineare del tempo che è la scansione per generazioni. E questo lo vediamo nei paradgmi divini, le lotte fra generazioni diverse di dei. Lo vediamo nella stratificazione epica di diverse generazioni di eroi. Lo vediamo nell’apparato genealogico che dà una profondità storica ai ghene e prima che ai ghene ai modelli eroici. Quindi ha ragione Riccardo quando dice che erano all’interno del tempo ma ne avevano una concezione empirica e non tanto teorica. Tant’è che nel V secolo quando con Metone i primi calendari cominciano a essere razionalizzati, nel momento in cui si interrompe questa concezione immersiva del tempo e si crea un calendario ‘politico’ e quindi deve essere lineare, si incontrano i primi problemi dei giorni addizionali, delle datazioni assolute che i greci risolvono attraverso i sincronismi, attraverso le Olimpiadi, e quindi ancora una volta hanno bisogno per così dire di un ancoraggio di tipo religioso. Se guardiamo anche i primi calendari di cui abbiamo notizia, e al calendario di Esiodo, tutto questo funziona molto bene. Del resto già Nilsson aveva messo in luce la doppia dimensione del tempo che si sovrappone e si interseca: una momentanea, rappresentata dal concetto di Kairòs che però è inserito in un ritmo ciclico che tende a ripetersi inalterato. Il fatto che domani sarà uguale all’oggi, o per lo meno auspicabilmente uguale all’oggi, questo è fondamentale per una società perché garantisce stabilità: l’occasionalità è un fattore di stabilizzazione.

BRAMBILLA

La riflessione sulla dimensione collettiva della genesi e della fruizione del testo come parte di un sistema complessivo, articolato e occasionale mi spinge a pensare al mondo delle performance teatrali nell’Atene classica e alla loro funzione all’interno del sistema culturale e politico della polis. Si tratta di un tema che abbiamo avuto modo di affrontare in un altro numero di Leussein (Il teatro della democrazia, vol VIII, n. 3 2015) ma che fornisce sempre spunti di riflessione importanti. In occasioni precise i cittadini ateniesi andavano ad assistere a uno spettacolo in cui un drammaturgo metteva in scena qualcosa con cui l’osservatore era costretto a fare i conti. Nel caso della commedia si trattava di qualcosa di molto immediato. Per quanto riguarda la tragedia spesso si assisteva a una proiezione nel passato mitico di dinamiche che non erano estranee al presente storico. Il cittadino osservava questi grandi personaggi, giganteschi, che prendevano decisioni sbagliate e dovevano scontare conseguenze spesso tremende ed era chiamato a ragionare sulla dimensione del prendere una decisione corretta. In altre parole, il cittadino era chiamato a confrontarsi con la dinamica del processo decisionale e con il rischio di dysboulía, avendo così la possibilità di riflettere su come scegliere nella maniera più adeguata (v. intervista a Edith Hall Teatro e democrazia). Quegli stessi cittadini che assistevano agli agoni teatrali, poi si recavano sulla Pnice e votavano, non sempre prendendo decisioni adeguate. Certo, siamo in una società in parte diversa rispetto a quella più arcaica. Siamo oltre l’oralità, tanto che, come sembra ricordarci lo stesso Aristofane, esistevano testi scritti e forse il pubblico poteva usufruirne.

Mi chiedo, dunque, se il rapporto tra testo teatrale e comunità dei cittadini dell’Atene di V secolo sia lo stesso che c’era tra, ad esempio, un brano di Saffo o Alceo e la comunità per cui questo era stato prodotto e performato. In altre parole, quella teatrale è un’occasione direttamente correlabile ad altre tipologie di occasioni che marcano specificamente la cultura greca di età arcaica?

ERCOLANI

Detto in maniera un po’ netta, il teatro è certamente un’invenzione ateniese nella sua dimensione di strumento di comunicazione di massa. Dopo le guerre persiane, in Atene il teatro comincia ad assumere una fisionomia specifica e di tutto rilievo, che sarà ulteriormente potenziata in età periclea con l’introduzione del theorikón. Atene si rende conto che per consolidare ideologicamente se stessa ha bisogno di un baricentro di aggregazione che non poteva essere l’epos, perché era un qualcosa di già eccessivamente connotato in funzione “peloponnesiaca”. Neanche la grande lirica corale, che pure era inserita nello stesso sistema festivo delle rappresentazioni teatrali, si prestava da sola a questo scopo, in quanto portatrice di una dimensione eccessivamente limitata nell’approccio. La scelta, dunque, ricade sul teatro ed è una contingenza politica che induce a potenziare uno specifico meccanismo della comunicazione, quello dello spettacolo teatrale, che rispetto alla parola semplice ha un effetto più ridondante, quindi forse più efficace.

SACCO

Possiamo dire che il teatro è un bisogno della democrazia ateniese, quindi del concetto di stesso di democrazia?

ERCOLANI

In larga misura sì. Nel V secolo siamo di fronte a una spinta politica democratica che sembra quasi scegliere il tragediografo e quasi gli impone alcuni elementi che devono essere affrontati, come a fare della tragedia un manifesto politico che viene orchestrato dietro le quinte dal corego che finanzia. Si pensi a Temistocle con le Fenicie di Frinico o a Pericle con i Persiani di Eschilo. Un fatto è molto evidente: il teatro si propone come forum aperto alla discussione politica perché porta in scena quelli che sono i problemi contingenti della polis. Da questo punto di vista non è un teatro che va a ricercare altro: attraverso sistemi comunicativi diversi, che sia il paradigma del mito in ambito tragico, che sia invece l’intromissione diretta della storia e delle vicende contemporanee nella commedia, il teatro è una cassa di risonanza importante di quella che era la politica ateniese del tempo.

Quanto ai re, ai tiranni e alla distanza nel tempo, questo in realtà è un discorso di tecnica comunicativa. Se andiamo a guardare bene, la maggior parte dei grandi personaggi presentati in maniera positiva nella tragedia operano esattamente secondo le logiche assembleari, quelle dell’ekklesía: non prendono decisioni impromptu, ma sottopongono le loro eventuali scelte a una decisione assembleare. Laddove, invece, c’è una connotazione particolarmente negativa, si ha la netta impressione che ci si trovi di fronte a una presa di posizione politica in chiave anti-spartana, come è evidente nell’Andromaca di Euripide. Quando c’è una caratterizzazione fortemente negativa, si tratta di eroi perlopiù legati all’ambiente spartano con cui Atene sta conducendo prima una guerra fredda, poi una guerra sul campo, uno scontro durato sostanzialmente un sessantennio.

SBARDELLA

L’occasione che genera il testo teatrale è sostanzialmente correlabile con altre occasioni che punteggiano la cultura greca arcaica. È vero che noi sulle origini del teatro greco sappiamo poco ma quel poco che sappiamo ci orienta molto. Il teatro non nasce in età democratica ma prima. Le testimonianze antiche ci parlano dell’età tirannica come la culla non del teatro in sé ma di un’operazione di ingegneria sociopolitica in cui il teatro è parte di una visione più complessa della società, che implica il rituale, e quindi la religione, il culto, e la strutturazione del corpo sociale ateniese in età tirannica. Non a caso Pisistrato riforma il calendario religioso, riforma il rito dionisiaco, crea delle festività che prima non esistevano, perché il rito dionisiaco era di tipo rurale. Pisistrato fa diventare le Dionisie un rito cittadino: quelle che divengono Dionisie urbane o Grandi Dionisie erano nate come l’opposto; erano un rito che portava i cittadini fuori dallo spazio urbano, mentre Pisistrato lo fa diventare un rito aggregativo che porta la comunità dentro lo spazio urbano, con la statua del dio che veniva presa da uno dei demi e portata dentro la città all’inizio della festa, accompagnata da cori ditirambici. Quindi il teatro all’inizio è un’offerta rituale a Dioniso in una nuova occasione religiosa pensata da un tiranno come elemento coesivo di un nuovo modello di cui ci parla anche Aristotele nell’Athenaion Politeia. Quest’ultimo, o chi per lui, dice esplicitamente che l’Atene democratica non sarebbe mai nata se a formare il corpo civico e la struttura socioeconomica della polis non ci fosse stato prima Pisistrato, il quale sembrava essere demotikótatos. Ora, per quanto a noi risulti ossimorico attribuire un carattere democratico al governo di un tiranno, Aristotele dice che sostanzialmente le basi sociali, economiche e culturali della democrazia sono state gettate prima della nascita del sistema democratico vero e proprio, grazie a questa grande operazione di ingegneria sociale che fu iniziata, appunto, in età tirannica. Anche in questo caso il teatro era solo una parte di questa operazione: non era il teatro in sé la cosa importante, ma tutta l’operazione che era di carattere religioso, civile e politico. Il teatro era parte di tutto questo e quindi è necessario tornare a quel concetto del solido culturale che aiuta a comprendere meglio l’intero quadro. Certamente poi la democrazia ha sfruttato quell’elemento di novità che era costituito dal ruolo del teatro e lo ha potenziato in quanto strumento di comunicazione di massa, caricandolo di significati politici e civili cari alla democrazia. Tuttavia, ribadisco, è importante guardare alle origini del teatro, che sono origini antichissime e che si legano alla ritualità.

PALMISCIANO

Nella fase in cui il teatro era essenzialmente rituale, noi troviamo testimonianze di azioni drammatiche anche fuori da Atene in vari contesti diffusi praticamente in tutta la Grecia e con particolare sviluppo nell’Italia meridionale e in Sicilia, dove si costruirono dei teatri in pietra prima ancora che ad Atene. In questo brodo culturale che accomuna tutta la Grecia a un certo punto Atene introduce quell’innovazione che è preparata da Pisistrato e che poi collima in modo veramente sorprendente con la riforma di Clistene. Proprio negli anni della riforma di Clistene c’è una modifica nel calendario delle Grandi Dionisie con l’introduzione dell’agón dei ditirambi, che viene celebrato per la prima volta subito dopo la riforma di Clistene. A quanto pare qualche anno dopo fu introdotto anche il sistema della tetralogia e promossa una riforma che riguardava la forma tragica dello spettacolo. A questo punto la componente rituale passa un po’ in secondo piano, ma non viene assolutamente eliminata: essa continua a essere importante e a un certo punto viene anche recuperata attraverso il dramma satiresco. È fondamentale ricordare che il primo spettatore della performance teatrale era sempre il dio, che assisteva alle rappresentazioni dal tempio e, in forma umana, attraverso il sacerdote di Dioniso che occupava il seggio più importante di tutto il teatro. Quindi gli Ateniesi che entravano nel teatro, vedevano nel seggio centrale, nella migliore seduta di tutta la cavea, il sacerdote di Dioniso e si ricordavano che quello era un evento in onore del dio. Per gli Ateniesi, dunque, l’elemento rituale non fu mai solo una cornice.

ERCOLANI

Nel manuale abbiamo provato a far capire come ci sia una pluralità di forme di dramma rituale e come quella ateniese sia una speciazione, che ha determinate contingenze. Il teatro e le manifestazioni teatrali restano primariamente un atto di culto al quale si vanno poi a sommare ulteriori funzioni. Il nostro maestro, Luigi Enrico Rossi, sosteneva che l’inserimento del dramma satiresco all’interno della tetralogia risponde proprio a questa esigenza di integrare un tessuto sociale extraurbano all’interno della polis, andando incontro a quelle ambientazioni extraurbane che erano sistematiche nel dramma satiresco. Anche quando andiamo a guardare ai testi c’è la possibilità di percepire l’insistenza di questa ingegneria sociale posta in essere già da Pisistrato e, mi permetto di dire, proseguita anche dalla politica di Pericle sulla cittadinanza.

PALMISCIANO

Bisognava educare un’intera cittadinanza a una forma nuova di governo dello Stato. Fatta la costituzione democratica, era necessario formare il cittadino democratico, ovvero il cittadino abituato a dibattere sulle questioni, ad ascoltare l’oratore che parlava dalla tribuna senza farsi raggirare troppo rapidamente dalle sue parole. Si è parlato giustamente di mestiere del cittadino che, come tutti i mestieri, ha bisogno di un apprendistato e la scuola migliore che Atene ha trovato per far fare agli Ateniesi l’apprendistato da cittadino è stato il teatro.

LIVADIOTTI (Leussein)

Dal quadro che avete ricostruito emerge bene la specificità del mondo greco, questa occasionalità comunitaria che è alla base della produzione di quelli che poi chiameremo testi. Come avete impostato il rapporto con altre civiltà del mondo antico che, pur non avendoci lasciato nulla di scritto, avranno avuto i loro momenti comunitari all’interno dei quali è possibile che fosse previsto un qualcosa di affine? Penso ad esempio alla civiltà etrusca o a quella punica.

PALMISCIANO

In un certo senso il “miracolo greco” spesso idealizzato ne esce un po’ malconcio, nel senso che ci siamo sforzati di mostrare la cultura greca nel contesto delle culture del Mediterraneo antico, cercando quindi di mettere in luce anche i debiti che la cultura greca ha contratto con le civiltà del vicino Oriente e con l’Egitto. Inoltre, abbiamo cercato di contestualizzare da un punto di vista antropologico molti dei fenomeni della cultura greca, per cui essi sono apparsi meno unici di quanto si sia ritenuto finora. L’uso costante di un approccio antropologico per interpretare la cultura greca ci ha permesso di fare dei confronti con altre culture. Ora, ovviamente in un testo scolastico questi confronti sono necessariamente più accennati che sviluppati, però laddove possibile abbiamo cercato di mettere in guardia dal considerare certi fenomeni come manifestazioni unicamente greche. Questo, però, non deve spaventare, perché alla fine offre anche uno strumento didattico più comodo da usare rispetto alla visione tradizionale legata all’autore e al genere: se uno individua delle costanti importanti all’interno della cultura, queste costanti diventano anche dei punti di aggregazione della memoria. Alla fine, e questo è il nostro pensiero, in questo modo si lascia una traccia più duratura nella mente degli studenti.

LIVADIOTTI

Proprio per questo approccio che oserei definire più da antichisti che da “classicisti”, avete registrato qualche perplessità o qualche resistenza dal punto di vista editoriale o da quello dei professori con cui avete interagito e che saranno coloro che dovranno maneggiare il vostro manuale?

SBARDELLA

Ad essere onesti abbiamo incontrato alcune resistenze, che però sono state per noi molto utili, nel senso che ci hanno portato a bilanciare meglio il nostro lavoro di antichisti che cercano di spogliarsi dell’approccio “classicista” per provare a dare un’immagine della cultura greca antica il più possibile oggettiva, senza idealizzazione. La necessità di mettere da parte l’idealizzazione rispetto all’oggetto di studio quando si vuole fare un’operazione storicamente onesta ha animato da sempre il nostro percorso culturale e i tanti anni di confronto continuo tra di noi. Non sempre tutto questo è stato facile da far passare in un contesto quale quello della scuola, che a volte rischia di essere molto conservativo e fortemente incentrato sul concetto di “classicismo”. La cosa bella è che i docenti ai quali abbiamo proposto l’opera nella sua fase di elaborazione al fine di avere un riscontro concreto, seppure inizialmente piuttosto restii e perplessi, nel momento in cui hanno iniziato a leggere i materiali e ad addentrarsi concretamente nell’approccio da noi proposto hanno cominciato a dare feedback positivi e costruttivi, che ci hanno permesso anche di tarare il tutto sulle esigenze della scuola. Il nostro tentativo non è mosso da una volontà di originalità fine a se stessa ma stiamo proponendo qualche cosa che abbia una sua coerenza dal punto di vista del metodo e questo ci sembra sia stato colto.

BRAMBILLA

È pur vero che la didattica è spesso imbrigliata nelle maglie delle esigenze ministeriali che impongono scadenze ravvicinate, resoconti del proprio operato che siano il più possibile omologabili, e burocrazia infinita. Forse anche per questo l’adozione di un approccio che non abbia l’appiglio facile, e in qualche misura rassicurante, della scansione per autori e generi spaventa e può creare resistenze?

ERCOLANI

Proprio perché esiste un calendario scolastico che è rigido e che impone, lo sappiamo bene, una serie di ritmi, di selezioni, di percorsi obbligati, di tappe di verifica e così via, ci siamo detti che non è necessario spiegare tutto ma è importante fornire degli strumenti tali per cui anche un testo che venga sottoposto ai ragazzi per un’analisi non guidata dal docente possa essere ben compreso.

Ad esempio, per quanto riguarda la tragedia abbiamo proposto alcune chiavi di lettura, quella storico-religiosa, quella antropologica, quella politica e quella più puramente strutturale e formalistica; a questo punto, avendo acquisito una specifica sensibilità, uno studente che va a leggere per la prima volta un testo può valutarlo con approcci diversi ed efficaci, superando il rischio di un’interpretazione erroneamente univoca. Questo, anche in termini didattici, può essere un valore aggiunto. È per questo che abbiamo deciso di organizzare il materiale per temi e non per autori.

SACCO

Superare lo scoglio della autorialità mi sembra uno degli aspetti più originali e innovativi del vostro manuale. Un lavoro che appare autenticamente meta-autoriale nel significato etimologico del termine, cioè non solo nel senso di aver attraversato e aver lasciato alle spalle il falso e depistante concetto di autorialità nella Grecia classica per mettere in prima vista i temi, ma anche nel senso di aver pubblicato un corposo manuale dopo anni di ricerca insieme. Se non sbaglio infatti, il vostro è un gruppo di ricerca che si è costituito ed è rimasto coeso sin dai tempi degli studi universitari. Allora la domanda da parte di una rivista come la nostra che incontra non poche difficoltà ad andare avanti sia negli stimoli sia nell’organizzazione pratica del lavoro di redazione, è: come avete salvaguardato e corroborato negli anni la vostra ricerca e come siete riusciti a difendervi dall’aggressione ‘individualista’ del sistema chiamiamolo universitario, culturale o epocale portando a temine in modo corale un vera e propria impresa editoriale come La parola e il canto?

PALMISCIANO

Per me scrivere i testi insieme a Livio e ad Andrea forse è stato l’aspetto più bello di questo lavoro, insieme ovviamente al fatto di leggere i contributi dei collaboratori più giovani e discuterne con loro. Ci sono delle pagine di questa letteratura che io non saprei neanche attribuire a uno di noi tre. Alcune cose le abbiamo scritte praticamente a sei mani. È stato davvero un lavoro corale in cui abbiamo sfruttato un’amicizia trentennale senza la quale tutto sarebbe stato più difficile. Quindi devo dire che è stato molto bello ma anche molto facile trovare questa collaborazione così spinta e credo che sia stata anche una salutare terapia contro le derive narcisistiche della autorialità.

ERCOLANI

Io partirei proprio da queste ultime parole di Riccardo: le derive narcisistiche della autorialità. Paradossalmente nessun di noi si è mai prefissato di voler vedersi attribuito qualcosa. Riccardo diceva della scrittura a sei mani, io ricordo come ci siamo ritrovati qui tutti e tre a scrivere e mettere a posto, a fare i menabò dei capitoli. La condivisione è stata totale. Poi è chiaro che nel momento in cui uno in funzione di redattore si faceva carico di scrivere quel singolo paragrafo o l’intero capitolo, la base e l’impalcatura concettuale era stata già discussa assieme. Rimaneva il ruolo fisico di un estensore, che ha naturalmente delle sue idiosincrasie in termini di stile, però tendenzialmente siamo difronte ad un Wu Ming, ovvero un’opera senza un autore ma di tre autori, tant’è che alla fine della premessa non ci sono i nostri singoli nomi ma ‘gli autori’. E siamo stati tutti concordi e felici di lasciare questo segnale non autoriale, di dire al lettore che ciò che avete davanti è stato curato da tutt’ tre. Senza il gruppo e il supporto di tutti gli altri collaboratori veramente questo lavoro non esisterebbe. In poche parole io credo che la condivisione sia stato il vero punto di forza.

SBARDELLA

Si, è vero. Noi abbiamo passato giorni a discutere prima che a scrivere. Questo è stato importante. Poi la scrittura è avvenuta conseguenzialmente. Anche lì dove qualcuno di noi ha scritto individualmente, in quella scrittura ci ha messo i contenuti dei confronti e delle discussioni e io stesso non saprei dire esattamente se un capitolo o un profilo lo abbia scritta io. Perché i contenuti sono stati scritti con Andrea e Riccardo ma anche spesso con i nostri collaboratori più giovani. Attraverso questo metodo si perde una autorialità intesa in senso pieno e narcisistico. Ma ci si guadagna io credo in chiarezza di idee, in senso critico e in coerenza. Perché se ci fossimo semplicemente divisi il lavoro, per quanto ci siano delle consonanze forti tra noi tre, e avessimo messo insieme le parti, avremmo perso in coerenza.

SACCO

Comunque non vi siete dati un nome come gruppo di ricerca? Un’identità superiore ai vostri nomi?

ERCOLANI

No, ma la stiamo costruendo sopra altri progetti comuni che ci vedono impegnati assieme da anni. Per esempio sull’oralità, sul sommerso.

SACCO

E invece, strutturare il gruppo intorno a una rivista?

SBARDELLA

Noi tre già facciamo parte di una rivista che esiste da tempo ma sull’ipotesi di fare una nostra rivista, ci stiamo in effetti pensando.

1 Vocabulaire européen des Philosophies, a cura di Barbara Cassin, Ed. Seuil, 2004, pp. 44 ess



About

Leussein (nasce nel 2008) in greco antico significa vedere cose luminose che suscitano emozione forti (stupore, gioia o timore) ma anche vedere lontano e vedere per i primi il futuro. Secondo Bruno Snell, il suo significato è simile a quello del tedesco schauen che si ritrova nel Faust "saper guardare è la nostra missione". Anche il logo che abbiamo scelto allude ad un libero procedere in mare aperto sorretto però da uno sguardo attento e lungimirante, insieme alla convinzione che, come dice Hegel, “il mare libero rende libero lo spirito”.


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