II sentiero: l’âion e l’eterno ritorno dell’uguale

Abstract

Percorso il primo sentiero che ha tentato di chiarire il significato del termine «Âion» (così come affiora nel pensiero greco e, soprattutto, in Eraclito) ci avventuriamo adesso nel secondo che conduce verso il tempo circolare come pensiero assimilato nel vivente (lungo la dottrina di Nietzsche dell’eterno ritorno dell’uguale e della volontà di potenza); 

1. Nietzsche: l’eterno ritorno e la morte di Dio

La circolarità del tempo greco è stata ripensata da Nietzsche nella dottrina dell’eterno ritorno dell’uguale.

Nietzsche non propone – come è noto – una teoria dell’eterno ritorno dell’uguale; non vi sono elaborazioni teoretiche di questo pensiero. Vi sono solo «comunicazioni» dell’eterno ritorno, per lo più in forma di enigmi e racconti svolti con simboli e linguaggio allegorico.

Tuttavia, l’espressione poetica di Nietzsche si rivela, come intuì Heidegger nelle sue celebri lezioni, estremamente teoretica, vale a dire filosofica in massimo grado (quasi il contraltare della speculazione in versi di Hölderlin o di Rilke). Si tratta dunque di una modalità poetica/teoretica necessaria, nella sua propria forma, per aggirare e per certi versi vanificare le barriere di un linguaggio che, se svolto in ordine logico-formale, fallirebbe, già in partenza, il suo tentativo. Si tratta di un pensiero, in ogni caso, che una volta nella vita è capace di attraversare un uomo: cioè di annichilirlo con il suo peso insostenibile. Quando Nietzsche afferma che si tratta del pensiero più pesante, si riferisce al peso proprio – che è intimamente connesso peraltro con l’idea di tempo1 – di ciò che spinge e costringe verso il basso. Dunque di un pensiero che può schiacciare senza, però, perciò stesso, rivelarsi.

È necessario dunque avvicinarsi ad esso, con gradualità, senza affrettarsi e forzare i passaggi.

Il peso di tale pensiero è simboleggiato innanzitutto dalla gravità che vi è nel salire verso la vetta di una montagna. Zarathustra, come è noto, ama salire sulle montagne2 e così, narra di essersi messo un giorno in cammino (sfidando il peso che ne deriva dal camminare verso l’alto), su per un sentiero che, tra l’altro, non è affatto comodo; ma anzi è “un sentiero, in salita dispettoso (…) maligno, solitario, cui non si addicevano più né erbe né cespugli”3.

Come se non bastasse, è costretto a portare sulle sue spalle, un nano che rappresenta proprio lo spirito di gravità4.

Il nano inoltre non vede, è metà nano e metà talpa, è storpio; gli scendono gocce di sudore pesanti come piombo che, cadendo nel cavo dell’orecchio del povero Zarathustra, gli instillano pensieri plumbei nel cervello. Tutto è dunque pesante, sin dalla formazione e conformazione dei pensieri.

Il nano lo avverte anche: è inutile che provi a scagliare la pietra filosofale in alto, perché ogni pietra è destinata a ricadere e finirai solo per lapidare te stesso. Tentare di alleggerire il pensiero filosofando è dunque inutile. Bisogna solo portare e sopportare il peso.

Lo spirito è lì, dunque, solo per pesare, per rendere il cammino verso la vetta più gravoso: non dice nulla, né suggerisce il perché del suo dover esser portato come un peso sulle spalle5. Il nano, infatti, dopo aver avvertito Zarathustra, smette di parlare e si fa muto.

Zarathustra, tentando di non lamentarsi, sale; ma tutto lo opprime. Non ce la fa più. Ed è costretto a fermarsi.

Non vorrebbe affrontare il nano, così come non vorrebbe tirar fuori da sé il peso che lo opprime. Tuttavia, prendendo il coraggio a due mai6 decide di affrontare lo spirito di gravità e lo affronta ponendogli una domanda. La domanda verte sul “pensiero più pesante” che, essendo “il più pesante”, sembra quasi l’origine di ogni peso possibile e dunque della stessa ragion di peso del nano7.

Il nano capisce immediatamente che il volgersi a lui della domanda sul pensiero più pesante, lo rende quasi ininfluente in termini di gravità e infatti scende subito dalle spalle di Zarathustra per ascoltarla.

A questo stadio, la domanda non è affatto una domanda chiara, declinata, ma un’immagine sotto forma di enigma – perfino, di indovinello. E così Zarathustra domanda al nano: c’è una porta carraia con su scritto ‘attimo’. Da questa partono due vie infinite che sbattono, proprio sotto la porta dell’attimo, la testa l’una contro l’altra. L’una è l’infinito passato e l’altra l’infinito futuro. Tu sai dirmi com’è possibile8?

Qui, va subito notato che il tempo non è mostrato come pura negatività. Non vi è un “ora” da cui ripartono due negativi: l’ora-non-più e il non-ancora. Il divenire non è, in altre parole, liquidato come non-essere di cui solo il presente è. Né è prefigurato come un divenire-niente, vale a dire come un passaggio dall’essere al non-essere (o, in senso platonico, all’essere altro). Il passato e il futuro vengono mostrati come due corsi infiniti che non partono dall’ora presente (lo scolorire del passato che non è più e l’annunciarsi del futuro che non è ancora) ma con tutto il loro peso (la loro gravità) sbattono l’uno contro l’altro, dunque insistendo e consistendo, nel loro convergere, verso l’istante (che semmai è assottigliato al suo limite massimo, ovvero come «limite» esso stesso). Questo significa e presuppone che Nietzsche abbia preso la questione del divenire in modo serio e che, lungi dal liquidarlo o superarlo a favore dell’essere, abbia inteso ravvicinarlo, semmai, pericolosamente, all’essere stesso, facendo, però, contrariamente a quanto teorizzato da Heidegger, dipendere il secondo dal primo. L’annuncio “Dio è morto!” è proprio un grido contro tutto ciò che nega l’evidenza, vale a dire, che nega il divenire (il divenire come problema, il divenire come questione, così come aveva fatto prima di lui Eraclito)9.

La morte di Dio annuncia, denuncia l’impossibilità di poter coprire (ancora) l’errore e l’orrore del divenire, con il velo dell’essere, dell’ente e, massimamente, dell’ente supremo, l’ens subsistens – che è Dio. Da ciò conseguono in(de)finite conseguenze, sul piano morale (giacché il divenire è di per sé innocente e non finalistico), teoretico e perfino scientifico (è noto che Nietzsche prima di ammalarsi avesse annotato il suo proposito di iscriversi a facoltà scientifiche, a Fisica probabilmente, per sviluppare le sue intuizioni10).

Tale impossibilità – e dunque la morte di Dio (e del tempo che il Dio giudaico-cristiano pre-supponeva) – impone il non poter essere rassicurati che l’ente abbia stabilità e noi stessi e il dio che potrebbe accoglierci, in un tempo fuori-dal-tempo chiamato eternità.

Il celebre incipit tragoedia dell’aforisma §342 de La Gaia Scienza sta proprio a significare che tale pensiero non potrà essere privo di conseguenze11, che anche ciò è divino diventa umano, troppo umano, e si prepara a tramontare12; come si delinea nel susseguente aforisma §343 la morte di dio inizia a gettare ombre sull’Europa – e sull’Occidente che da questa prende sinistramente avvio.

E si tratta di un avvenimento, come denuncia Nietzsche “troppo grande, troppo lontano, troppo al di fuori della capacità di comprensione dei più, perché si possa dire anche soltanto che ne sia già giunta notizia”13.

L’enigma è tale perché contiene una contraddizione apparentemente insuperabile. Il divenire infatti sembrerebbe avere un verso e questo verso insiste nella successione implacabile dei momenti di cui Chrónos è simbolo, dunque ha il senso dell’irreversibilità. La successione del prima e del dopo è implicata dalla causalità, dalla distinzione o distinguibilità di una causa e di un effetto: il verso irrecuperabile del tempo sta nel fatto che esso abbia una conseguenza (lungo il susseguirsi) irreversibile. Il passato è il regno di tale irrecuperabilità, di tale irreversibilità compiuta.

Tuttavia la visione non presenta né una irreversibilità, né una reversibilità: sembra essere posta anzi prima di arrivare ad una simile conclusione. Il passato e il futuro non sono né reversibili né irreversibili, sono controversi, hanno un verso che preme contro l’altro, la loro contraddizione è più radicale di quella del vero e del falso, dell’essere e del nulla, del più e del meno.

Ma torniamo all’enigma. L’enigma è posto dunque al nano (allo spirito di gravità) nella forma di una visione. Come è possibile che vi siano due vie infinite? Come è possibile che vi siano due infiniti? Ovvero un infinito sdoppiato in due? Passato e futuro hanno versi e direzioni distinte, inconciliabili, incompatibili. Sono infiniti che non comunicano tra di loro e che sbattono, insistono, su questo istante, il quale, si potrebbe dire, è solo una confluenza o una risultante di questo scontro. Eppure è l’unico – l’istante – a possedere una struttura (e un nome): una porta carraia che lo indica come “Attimo”. Dunque anche l’istante ha una sua consistenza, data dalla contrapposta insistenza di due tempi infiniti. Dallo scontro e dunque dall’istante i tempi infatti prendono, a loro volta, a defluire via. La doppiezza dell’istante, la sua ambiguità, tra fugacità del deflusso e apparente archi-struttura (la porta carraia che lo indica con sicurezza) della confluenza non consente affatto di concludere che esso sia puramente inesteso14. Esso è però inesteso se ci si riferisce all’estensione in senso geometrico o spaziale: l’estensione dell’istante è puramente temporale (in un certo senso qualitativa) ed essendo frutto di uno scontro tra tempi infiniti non è neppure individuabile all’interno della indivisibilità dell’infinito stesso.

È interessante rilevare ancora che Nietzsche non connota i due sentieri del passato e del futuro come infiniti in sé e per sé, ma come «infiniti per noi», poiché è sicuro che nessuno li ha mai percorsi tutti. Essi però sono eterni – e dunque infiniti sotto lo specifico aspetto temporale e dunque il passato e il futuro non si perdono e disperdono come chrónos, non collassano come serie di punti finiti, ma insistono e resistono, formando essi stessi la contraddizione più grande di cui l’attimo è risultante, di cui l’attimo è acmé. Chiede infatti Zarathustra: “ma, chi ne percorresse uno dei due – sempre più avanti e sempre più lontano: credi tu, nano, che questi sentieri si contraddicano in eterno?”.

È il nano a sciogliere l’enigma. Ed è nello sciogliere l’enigma che noi capiamo meglio anche quale fosse il nodo racchiuso in questa visione. Il nano risponde all’indovinello dicendo che la linea, apparentemente rettilinea e divergente, rotta nei due infiniti co-insistenti verso l’attimo, è in realtà curva. “Tutto ciò che è dritto mente” dice il nano: la realtà è curva. “Il tempo è un circolo”15 e, curvando, l’infinito – pur avendo due teste, quella del passato e quella del futuro – è uno ed uno solo e si congiunge, impattando o compattando, in sé stesso, nell’attimo.

Dunque il nano ripropone la visione greca del tempo curvo contro l’ipotesi rettilinea (ebraico-cristiana) o finalistica che domina – anche con l’idea di progresso – nella modernità16.

L’enigma sembra risolto. Ma solo apparentemente. Il nano infatti si è limitato a delineare (nel senso proprio del descrivere e riscrivere) la linea del tempo. Ma da tale delineare scaturisce solo una figura geometrica che, a parte risolvere l’ostacolo immediato posto dall’indovinello, non rende conto della profondità della domanda.

Zarathustra infatti ammonisce subito il nano: “Tu, spirito di gravità! (…) non prendere la cosa troppo alla leggera!”. E così, alludendo alle conseguenze della soluzione fornita dal nano, alza il tiro del suo domandare: alle nostre spalle – all’indietro della porta carraia su cui vige l’attimo – comincia, infatti, una via lunga, eterna, che è quella del passato; e allora: “Ognuna delle cose che possono camminare, non dovrà forse avere già percorso una volta questa via? Non dovrà ognuna delle cose che possono accadere, già essere accaduta, fatta, trascorsa una volta? E se tutto è già esistito: che pensi, o nano, di questo attimo? Non deve anche questa porta carraia – esserci già stata?”

Ecco che l’archistruttura dell’attimo in realtà non segna alcuna stabilità, alcun riferimento certo del tempo; anche l’attimo sviene all’indietro e torna in avanti fingendo di essere un irripetibile istante.

Ancora, Zarathustra, guardando al sentiero in avanti, verso il futuro, domanda: “E tutte le cose non sono forse annodate saldamente l’una all’altra, in modo tale che questo attimo trae dietro di sé tutte le cose a venire? Dunque: anche sé stesso?”

Qui Zarathustra fa riemergere il carattere continuo e concreto dell’Âion, in cui le cose vengono saldate l’una con l’altra, poiché vi è una unità sottesa (quella temporale) superiore alla separabilità delle cose, laddove anche l’attimo non è l’irripetibile, inesteso ed ineffabile colpo d’occhio (nel senso proprio dell’Augenblick) bensì qualcosa capace di trascinarsi dietro, come un rimorchiatore, l’intera via delle cose future, compreso se stesso, come se davvero potesse, tale istante, muoversi da solo.

“Infatti, ognuna delle cose che possono camminare: anche in questa lunga via al di fuori – deve camminare ancora una volta!”

Le cose che possono camminare, sono quelle evidentemente viventi o – meglio – morenti, giacché, per Nietzsche, il vivente è solo un’eccezione rispetto alla morte (visto che i morti sono assai più dei vivi) ed è dunque un vivente solo in quanto morente e viceversa. Allora anche l’attimo è vivente – o almeno non può essere neppure pensato se non associato a qualcosa di vivente (o, ancor di più, nel senso che vedremo, è il vivente stesso a farsi attimo).

Qui, però, non vi è un inno alla irripetibilità delle cose, bensì la notazione dolente che ogni cosa – anche la più inutile e priva di senso – sia destinata a ripetersi sempre; Zarathustra osserva: “e questo ragno che indugia strisciando al chiaro di luna, e persino questo chiaro di luna e io e tu bisbiglianti a questa porta (…) – non dobbiamo tutti esserci stati un’altra volta?” – e non siamo così condannati a ripetere – in eterno – “questa lunga orrida via”?

Ora, va notato, che Zarathustra non aggiunge soluzioni all’enigma, né contrappone al nano soluzioni diverse da quella che il nano ha provato a dare in modo immediato; bensì si limita a far notare al nano quali siano le conseguenze della sua risposta. E la conseguenza è: se il tempo è un circolo dove passato e futuro sbattono la testa l’uno contro l’altro, percorrere un lato o l’altro della circonferenza è uguale, l’infinito futuro è già stato e l’infinito passato tornerà ad essere: ogni attimo che si presenta irripetibile è in realtà già accaduto e di nuovo accadrà.

Ma allora: la soluzione data dal nano è giusta? E il problema è solo che egli l’abbia data alla leggera? Che abbia risolto l’indovinello con spavalderia senza tener conto delle conseguenze? Le conseguenze incalcolabili che sono quelle stesse della «morte di Dio» dell’aforisma §343 de La Gaia Scienza?

Zarathustra, dopo aver delineato le conseguenze immediate di un tale pensiero, si sente flebile, debole, perché ha paura dei suoi stessi pensieri. Sono pensieri spettrali che indicano allo stesso tempo il nostro essere ripetitivamente eterni, ma anche il nostro esser stati – ed essere anche ora – fantasmi gettati nella ruota dell’eterna insensatezza. Ogni cosa che accade si ripeterà: significa infatti anche che ogni cosa che accade è in realtà già accaduta infinte volte e noi non possiamo far altro che ribadire il non-sense di questo essere-già: l’è stato, l’è e il sarà coincidono o si annullano – come aveva indicato Platone per l’Âion (in quanto non gli si addicono), ma qui è sul piano dell’esistenza, della vita singolare di ognuno, che pesano senza possibilità di salvezza. Noi non possiamo uscire dal destino, dalla necessità che ha già imposto – all’infinito – quello che siamo e che – dunque – diventeremo (essendolo già divenuti).

Proprio lì, quando il tratto spettrale del pensiero si fa tutt’uno con quello della notte, si sente un cane ululare inquieto. L’ululato del cane sposta – se così si può dire – il piano della narrazione dall’abissalità del pensiero al semplice pericolo che l’animale avverte. Tuttavia tale pericolo è avvertito proprio perché l’animale – nel suo istinto infallibile – fiuta che vi sia qualcosa nell’aria: “ha il pelo irto, la testa all’insù, tremebondo”. Se il cane è all’erta è perché il pensiero non è solo una suggestione del momento, ma è qualcosa che evoca una scia di conseguenze che scavano nella effettività del vivente, di cui il cane è parte. Si tratta di un pensiero che emana, dunque, a partire da chi lo porta e lo sopporta, qualcosa che può essere fiutato dall’istinto che – come quello animale – non mente. Tale pensiero viene simboleggiato dalla luna piena (anch’essa dunque tonda, circonferente) che, in un silenzio di morte, si ferma sul tetto di una casa – annota Nietzsche – “come su roba altrui”, quasi ad indicare che il pensiero non è affatto ancora nostro, ma è tangente alla linea del tetto di una casa che non è nostra. Qui, la linea è il tempo lineare su cui il cerchio della luna sta, in contrapposizione, tangente. Ed è proprio ciò ad aver massimamente inorridito il cane ed averlo fatto di nuovo ululare.

L’inquietudine del cane è solo il primo segnale del fatto che l’enigma non sia stato risolto (o meglio che l’enigma non costituisca un semplice indovinello, bensì qualcosa di più).

Il secondo segnale, è un episodio sinistro. Mentre Zarathustra nell’oscurità si aggira come un sonnambulo inquieto, giacché non riesce più a vedere dove si trovi il nano e tutte le cose evocate nel suo domandare17, al chiaro di luna, “in mezzo ad orridi macigni”, si avvede che vi è un uomo per terra. Il cane accorre e il suo ululato si fa urlo (dunque, umano); l’uomo è un giovane pastore che si rotola per terra, “soffocato, convulso, stravolto in viso” con un serpente nero che gli penzola dalla bocca. Forse – si dice Zarathustra – il serpente gli era strisciato dentro mentre dormiva e gli aveva morso le viscere.

Il punto – assai noto e discusso nella letteratura filosofica – è rilevante e lo riprenderemo in seguito: il serpente, che simboleggia l’anello dell’eterno ritorno, con la testa che morde la coda, soffoca il pensiero del vivente cogliendolo però nel sonno; vale a dire in posizione non vigile, lì dove esso è meno vivente e somiglia già quasi ad un morente: è nella passività che il pensiero penetra – nella forma più nefasta – quella di un serpente nero che striscia nella notte per mordere lì dove sorge il respiro, il soffio vitale, l’unico capace di conferire ritmo a un tempo – altrimenti – indifferente.

Dopo aver provato invano a tirar via il serpente – Zarathustra gli urla “mordi! Mordi! Staccagli il capo! Mordi!” (ed è un grido urgente che sorge aldilà del bene e del male18).

Il pastore morde il serpente staccandogli la testa e sputandola via. Quindi, sentendosi di colpo liberato, recuperato il respiro e avuta salva la vita, ride colmo di felicità19.

Questo episodio svela che, per quanto una parte del peso sia stata eliminata, perché si sia iniziato a chiarire il punto, si è ben lontani ancora dall’essersene davvero liberati. Il morso è certamente una liberazione. Staccare la testa del serpente significa infatti sciogliere anche il circolo e recuperare l’indipendenza, se così si può dire, dell’attimo. Significa in altre parole fare dell’attimo un presente, un presente vivo. Ma in questo modo, nel modo vale a dire crono-logico, in cui l’attimo si è fatto di nuovo “ora” nella scansione tra un passato e un futuro recisi tra di loro e di nuovo tradotti a due tronconi negativi (l’ora non più e il non-ancora) l’enigma, oltre ad essere stato risolto, si è per così dire disciolto.

Che cos’è che soffocava il pastore? Era il tempo ciclico che necessariamente torna in sé nello sdoppiamento e scontro frontale di passato e futuro a togliergli il respiro? O era il peso per lui insostenibile del tempo infinitamente ciclico che, ruotando in se stesso, stringe e costringe ogni cosa che è stata a tornare? A sovrapporre – nel contrapporsi – l’infinito passato con l’infinito futuro, in modo tale che ogni cosa che è stata, sarà e ogni cosa che sarà sia stata già?

Il pensiero di essere stati qui e ora infinite volte soffoca? Specie se assunto passivamente? Nel sonno?

Questo pensiero dell’infinito che si congiunge nell’inconciliabilità del suo scorrere, cosa comporta? Che tutto ciò che è passato è destinato a tornare? Che tutto ciò che sarà, in realtà, è stato già almeno una volta? Che, nell’infinito delle combinazioni possibili, i dadi torneranno agli stessi numeri, le pedine nelle stesse posizioni e il gioco riprenderà di nuovo – sempre allo stesso modo – per sempre? Che l’inscrizione dell’infinito nel finito e viceversa lo scorrere del finito nell’infinito fa sì che il perdersi e il ritrovarsi, l’essere unico ed il ripetersi, siano la stessa cosa?

Si potrebbe sostenere che il senso del mordere, come è stato da più parti suggerito, sia quello di un recidere-decidere capace di nuovo di avviare e riavviare il senso del tempo e recuperare, così, l’inizio20; il senso del gioco della vita che, a partire da una risata che esplode in tutte le direzioni, riprende il suo corso.

Tuttavia, l’indagine continua. Il pensiero infatti più pesante non va solo pensato. Va assimilato21.

Il punto è chiaramente espresso da Nietzsche e Heidegger, nelle sue lezioni, contribuisce a sottolinearlo22, a partire dal testo dell’abbozzo del pensiero risalente alla famosa illuminazione dell’agosto 188123. Assimilare significa mandar giù nel corpo, nella sede della vita stessa, nel cuore pulsante del pensiero che pensando prova a rassicurarci cartesianamente che siamo, che ci siamo, che siamo qui ed ora, per poi essere digerito, fatto proprio, metabolizzato24.

Il pensiero è il più pesante perché è il più estraneo (l’eternità del tempo che ciclicamente ritorna) ma è quello che, più di altri, ci appartiene sin dall’origine del nostro vivere, e dunque va fatto proprio perché altrimenti, nella sua pesantezza, finirebbe per schiacciarci.

Zarathustra, nel capitolo Di antiche tavole e nuove rielabora il suo pensiero in forma poetica – tentando di innalzarlo lì dove evoca luoghi remoti dove “il divenire tutto mi sembrò una danza” “e il mondo sciolto e sfrenato e rifluente in se stesso” un “beato contraddirsi, udirsi di nuovo” e “il tempo tutto un’irrisione beata di secondi” ed infine la necessità come “la libertà in persona”, dove l’uomo deve essere superato nel superuomo, nell’oltre-uomo (Über-mensch), in quanto sa essere un passaggio (Über-gang) e in tramonto (Unter-gang): in quanto “è solo un ponte e non uno scopo”25. Tali pensieri costituiscono già la traccia di come Nietzsche intenda assimilare il pensiero. Eppure, per comprendere meglio il punto, è necessario tornare al racconto. Zarathustra, infatti, per aver assunto il pensiero, in realtà non si libera: al contrario, si ammala gravemente. Resta inerte senza parole steso in un giaciglio per giorni. La pesantezza del pensiero è grave che, pur tolto di mezzo lo spirito di gravità che per così dire si è accontentato della prima pur convincente ma non definitiva spiegazione, bisogna non solo salire verso la vetta ma assimilare in sé questo peso.

Come è noto sono gli animali, l’aquila e il serpente a guarire Zarathustra26. Nel capitolo intitolato Il convalescente, assistiamo alla guarigione di Zarathustra ed è una guarigione gioiosa, animata da un moto poetico che rasenta un pensiero panteistico. Gli animali infatti cantano e, cantando, evocano il ritorno delle forze in Zarathustra che, pur provato dagli strascichi della malattia, canta insieme a loro. Ogni cosa è qui per guarirti, dicono, “tutte le cose vogliono farti da medico!” Non una medicina in particolare, non una rassicurazione precisa, ma ogni cosa. E cantano i colori dell’eterno ritorno:

Tutto va, tutto torna indietro; eternamente ruota la ruota dell’essere. Tutto muore, tutto torna a fiorire, eternamente corre lanno dell’essere.

Tutto crolla, tutto viene di nuovo connesso; eternamente lessere si costruisce la medesima abitazione.

Tutto si diparte, tutto torna a salutarsi; eternamente fedele a se steso rimane l’anello dell’essere. In ogni attimo comincia l’essere; attorno ad ogni quiruota la sfera là’. Il centro è dappertutto. Ricurvo è il sentiero dell’eternità

Gli animali, così come era stato per l’ululato del cane, non mentono, hanno una capacità immediata di incidere – proprio a partire dalle loro movenze vive, libere e prive di condizionamenti, sugli istinti del corpo che cerca la sua guarigione.

Essi, tuttavia, pur avendo un effetto curativo non arrivano però al picco di questo pensiero: non manifestano l’interezza del peso e dunque non lo liberano dalla visione. Hanno solo reso leggero il peso: lo hanno alleviato. Si potrebbe dire strappando un verso di Celan dal suo contesto, hanno cantato: “qui lievita il più pesante”.

Ma ciò che serve a guarire, ad alleviare, non racchiude però l’interezza del pensiero.

Per affrontare questo, ci vuole il recupero di tute le forze. Il canto rende leggero un pensiero altrimenti insostenibile. Trasforma l’idea dell’eterno ritorno in ritornello, in refrain, ripetendolo nella melodia fino ad integrarlo nell’armonia del tutto. Il fatto però che lo si riesca a sostenere, lo si riesca a cantare, come in un blues che sopporta e supporta la durezza di un destino, non equivale ad assimilarlo per intero.

Infatti, gli animali hanno inteso cantare il circolo del divenire come un anello dell’essere, hanno tentato di consolare Zarathustra ravvicinando l’eterno e contraddittorio divenire – il comporsi e lo scomporsi delle cose – come l’essere che infintamente torna su se stesso per far vibrare così la sua eternità. Ma il canto, pur alleviando, non dice la verità.

Ed è così che Nietzsche, pur con riconoscenza, apostrofa i suoi animali: “O voi, maliziosi burloni e organetti cantastorie!”.

Cantare dell’eternità dell’essere con gioia è solo una buffa canzoncina che non tiene conto dell’abisso di cui si discute. E così Zarathustra ricorda ai suoi animali che ha dovuto mordere il serpente (che è del resto un altro animale ed è quello proprio che manifesta l’anello del ritorno) e sputar via la testa, per salvarsi, così – tra l’altro – svelando che quel pastore incontrato nella notte era lui stesso o che in qualche modo con lui co-incideva. E addirittura li rimprovera di aver assistito alla sua sofferenza, come a volte fanno gli uomini, quasi con crudele soddisfazione, come chi partecipa – con sottile crudeltà e piacere – a spettacoli cruenti come le corride o crocifissioni; o come a volte accade nell’assistere i malati gravi, dove la canzone dell’eternità sembra non è traccia di un’empatia, ma di una falsa compassione dove il vivente morbosamente gode dello spettacolo offerto dal morente.

Tuttavia gli animali, a loro volta, lo ammoniscono: basta parlare ed esci fuori dalla caverna a cantare! L’invito è convinto, compatto. Nessuno degli animali tentenna. E così Zarathustra esce fuori – da convalescente – e si unisce al canto.

E il canto cura. Ma non risolve, né concede la liberazione. È necessario – e ancora qui le lezioni di Heidegger contribuiscono a mettere in rilievo tale passaggio – porsi nella prospettiva dell’istante, anzi per così dire porsi come instante, dunque: non assumere questa visione come se fossimo spettatori dall’esterno (o cantori della bellezza di tutte le cose che divergendo coincidono che potrebbe pur derivarne) né limitarci ad essere nei pressi (presso l’istante), ma per così dire precipitarvici dentro, lì sotto la porta carraia. Porre lì, da quel punto sospeso, ambiguo, che, in termini husserliani, diparte il raggio intenzionale della coscienza, per chiedersi, dal punto di vista fenomenologico, in che modo la coscienza essa possa costituire, a partire dall’instante, ed assimilare lo scontro che in esso accade, tempo interno, come atto. Ma non è su questo piano che ora va posta la domanda.

Quando Zarathustra sale sulla vetta della montagna può ammirare l’infinito distendersi davanti a sé delle cose che appaiono (“anima mia io ti insegnai a dire ‘oggi’ come se fosse ‘un giorno’ e ‘un tempo’, e a danzare al di sopra di ogni ‘qui’ e ‘lì’ e ‘là’ la tua danza circolare”).

Se assumiamo il senso del “grande meriggio” vale a dire di quel momento della giornata in cui il sole è più alto e più corte son le ombre, in un punto sospeso tra antemeriggio e pomeriggio, potremmo liberare la contemplazione verso qualcosa che – per l’istante – sembra in quiete, sembra poter stare, e l’instans stesso slargarsi nell’atto appunto di contemplare, di abbracciare, radunando in un sol tempo e in un sol tempio, tutte le cose che luminose si manifestano nel loro misterioso saper stare (l’ente che è). Tuttavia, il versante della montagna è doppio. La vetta ha due versanti: l’uno davanti a me e uno alle mie spalle; girandomi dalla parte opposta c’è un altro infinito che premeva alle spalle. Posso far ruotare lo sguardo, così discoprendo – ancora – che il doppio versante è rivelativo di una circolarità; posso intravedere che ogni versante – così come ogni verso del tempo – indica l’infinito (giacché mai una volta io lo percorrerò tutto). L’infinito che mi stava di spalle non è però separato dall’altra, proprio come nel circolo (e negli opposti eraclitei). La vetta non è un punto inesteso sul quale ci siamo arrampicati: la vetta ha la sua consistenza di vetta. Ma appunto, nel senso che abbiamo detto, consiste e non sussiste. Il doppio versante preme sul verso della vetta stessa.

Chi abita l’istante, chi prova a porsi nella fugacità e, al stesso tempo, nel consistere (irregolare) dell’istante può forse cogliere e ancor più assimilare il pensiero più pesante. Tale pensiero afferma che se ogni cosa che è, è già stata e di nuovo tornerà nella ruota incessante che si ripete, implica che, come detto, ogni cosa sia indifferente, perché piccola o grande, infima o rilevante che sia, tornerà in ogni caso: non vi sono momenti superiori ad altri, non vi sono eventi o punti determinanti e unici, tutti non sono altro che ripetizione fatale (nel senso proprio del fato) di cose già successe infinite volte e che di nuovo succederanno (e su cui nulla possiamo).

Dall’altra parte, al contrario, ogni cosa che facciamo è determinante, in quanto destinata ad iscriversi nella ruota – eterna – del destino. Tutto ciò che viviamo è assolutamente decisivo, proprio in quanto destinato ad iscriversi nel calco circolare dell’eternità e così a ripresentarsi – sempre. Ogni cosa è così diversa nella sua assoluta singolarità, perché pone una differenza all’interno della ruota dell’eterno. In questo contrasto, i due flussi non sono due torrenti addomesticati che si mescolano in una comoda confluenza dove immergersi con la natura tutt’intorno che canta, ma due linee eternamente contrarie che, in virtù della loro infinitezza conformano e comportano un’unità e ancor più un’uguaglianza. Tale ravvicinamento che si sovrappone in uguaglianza è, proprio, quello tra essere e divenire, giacché ogni cosa che è in realtà diviene, e ogni cosa che è stata, è divenuta e diverrà di nuovo.

Non è però come pretenderebbe Heidegger (e per altri versi Severino) un avvicinamento a favore dell’essere. Al contrario è un trascinare l’essere – definitivamente – al cospetto del divenire. Svelare che l’intima essenza dell’essere è divenire. Solo che il divenire, pensato a fondo, non è solo chrónos: è sia âion che chrónos l’uno che scorre dentro l’altro. E dunque: tutto ciò che è, è – solo – divenire: diviene sempre, continuamente, quel che è già stato e sarà: le dimensioni del passato e del futuro non cristallizzano l’essere tale quale esso è, ma spingono, ognuna in direzione contraria affinché ciò che è, sta in realtà solo divenendo e diviene ciò che è già, proprio perché ritornerà infinitamente su di sé.

Come si fa a ritornare infinitamente su di sé in modo da manifestarsi tale quale si appare ora? Come è possibile che ciò che è, in realtà, sia solo in quanto eguagli, nel suo ritornare, il sempre-divenire, vale a dire, l’esser-sempre-diverso?

Ciò che è, non è ente (semmai è ni-ente) è solo diveniente e dunque parte inscindibile (e dunque neppure parte ma momento) del divenire. Ciò presuppone però che il divenire sia la totalità (nel senso di circolarità infinita) del tempo.

Ancor di più il mio divenire e il divenire della cosa si incrociano in modo tale che da questo rapporto sorga ciò che è irripetibile rispetto a tale ripetizione, e che dunque la singolarità di ciò che viviamo sia la singolarità stessa del divenuto-diveniente – vale a dire dell’ente che è stato e sarà. Per questo, Nietzsche chiama la dottrina dell’eterno ritorno anche la teoria della circolazione incondizionata e infinitamente ripetuta di tutte le cose.

2. L’eterno ritorno come volontà di potenza

Ma come assumere il divenire che torna su di sé entro la finitezza del vivente? Ecco che la nozione di volontà di potenza appare non solo decisiva, ma l’unica per certi versi possibile rispetto al pensiero dell’eterno ritorno. La volontà di potenza infatti è ciò che mostra a che punto su di sé può agire l’assimilazione dell’eterno ritorno.

Torniamo di nuovo al celebre aforisma 341 de La Gaia Scienza, lì dove la volontà di potenza affiora come conseguenza del pensiero più pesante:

“che faresti se un giorno o una notte un demone si introducesse di soppiatto nella tua solitudine più solitaria e ti dicesse: «Questa vita, quale la stai vivendo adesso e l’hai vissuta, dovrai viverla ancora una volta e ancora innumerevoli volte; e in essa non ci sarà niente di nuovo, ma ogni dolore e ogni piacere e ogni pensiero e sospiro e ogni cosa incredibilmente piccola e grande della tua vita dovrà per te ritornare, e tutto nello stesso ordine e successione — e così pure questo ragno e questo chiaro di luna tra gli alberi, e così anche questo attimo e io stesso. L’eterna clessidra dell’esistenza viene sempre di nuovo capovolta — e tu con essa, granello di polvere!» — Non ti getteresti a terra, digrignando i denti e maledicendo il demone che così avrebbe parlato? Oppure hai vissuto una volta un attimo prodigioso, per cui gli diresti: «Tu sei un dio e mai ho sentito una cosa più divina!»? Se questo pensiero acquistasse potere su di te, avrebbe su di te, quale sei, l’effetto di trasformarti e forse di schiacciarti; la domanda di fronte a tutto e ogni cosa: «Vuoi tu questo ancora una volta e ancora innumerevoli volte?» graverebbe sul tuo agire come il peso più grande! O quanto dovresti amare te stesso e la vita per non desiderare nient’altro che quest’ultima eterna conferma e suggello?”27

L’anelito conclusivo è già l’avvio del pensiero sulla volontà di potenza.

Quello che era l’amor fati – amare che l’uomo sia la fatalità di un tramonto28 – ora ha assunto una dimensione nuova, vitale, quello del volere ancora una voltaed innumerevoli volte – la vita che è questa: per darle ancora, di nuovo, conferma.

Il salto avviene, ancora, nel capitolo di Zarathustra intitolato proprio Della redenzione dove si delinea la nozione di una «volontà che crea» e di «un uomo capace di volere la ripetizione eterna della propria esistenza», non capace di superare il passare del tempo di chrónos, ha la forza di volersi come passato, redimendosi dall’idea di dover essere altro o dover tendere ad altro rispetto ad una creazione che è e diventa, incessantemente, potenza29.

La volontà di potenza è dunque la conseguenza del pensiero dell’eterno ritorno e non il contrario. L’unico modo per assimilare il pensiero più pesante e farlo proprio è voler vivere e rivivere quest’attimo come se si ripetesse in eterno – perché eternamente si è ripetuto e ripeterà.

Da qui il monito di Nietzsche: voler rivivere la propria vita così come essa è infinite volte, volere che essa ritorni sempre, esattamente così come è stata ed è – e in ogni caso essa ritornerà.

Cosa significa, però, voler vivere e rivivere la vita così come è stata, volere che ritorni? E cosa significa che in ogni caso essa ritornerà? Perché c’è bisogno di volerla rivivere se tanto siamo chiamati (o condannati) a riviverla in ogni caso?

Il punto è di fondamentale importanza. Volere che la vita torni tale quale essa è sempre stata, significa trasformare ciò che è un mero fatto – il fatto che sia andata così e così andrà di nuovo – in atto e, a sua volta, l’atto in potenza (anche se tali nozioni non vanno intese in senso aristotelico). Significa trasmutare la condanna come forma di libertà.

Se si sovrappone la volontà-di-potenza al semplice accadere, ne deriva che la pura contingenza (quasi il passato si trattasse di un caso inspiegabile) che ci appare, però, necessaria perché invalicabile (come quella del passato immodificabile) torni ad essere prima (di nuovo) contingente (dunque casuale – materiale per artisti direbbe Nietzsche) e poi pura potenza: qualcosa che è ancora lì da venire: qualcosa che è nel corso – incessante – del divenire. Volersi infinite volte non è semplicemente accettarsi così come si è, ma voler diventare, continuamente, quel che si è perché si è già stati e si sarà, nei tempi sempre diversi e divergenti che nell’istante divampano insieme, in modo da eguagliare se stessi, dunque eguagliarsi, tornare (eternamente) uguali (o che è lo stesso: sempre differenti al punto da far emergere, proprio nel tramontare, la singolarità finita, ciò che siamo in quanto lo stiamo, ogni volta, divenendo).

È come se l’uguale che ritorna non sia, vale a dire, un risultato (nel senso di Hegel), ma una risultante continua: si tratta di una dialettica bipolare che non ha sintesi, se non quella – contesa – del tempo che solo la volontà, assimilando il tempo come eterno ritornare, può assumere, nella sua potenza.

In questo senso l’esser già stati non è affatto qualcosa di stabile: non è un’identità appesa ad un’auto-sussistenza: non è l’orpello di una sostanza o di un’essenza data. Il diventare – la continuità del tempo – è superiore al punto che per essere quel che si è in questo istante bisogna, sempre, diventarlo. Non vi è un diventar altro rispetto a quello che si era prima: noi siamo questa alterazione permanente, né prima né dopo possiamo poggiare su un ente che ci stabilisca, che non sia solo il nostro corpo vivente: ma questo è un fatto, così come è un fatto che tutto si alteri e sia sempre-diverso, compreso il nostro corpo.

Noi siamo la risultante di una alterazione che la volontà, volendo all’indietro e in avanti, lungo direttrici incompatibili, vivere la stessa vita infinite volte, rende unitario (ragguagliando, ogni volta di nuovo nell’istante, il continuo divergere) in quanto assunto su di sé come potenza, ciò che altrimenti sarebbe un vivere senza alcun destino, cioè un vegetare nel gregge, un vivere tanto per vivere (zoè, a tratti bìos, ma non âion), dove a tornare è sempre lo stesso vuoto istante e la storia rimane una ruminazione senza senso, appesantita da sensi di colpa e timori reverenziali al cospetto dei nostri creditori (fino a Dio creditore assoluto)30.

Se dovessimo dunque indicare una qualche identità questa sarebbe quella del vivere: la vita stessa; dunque l’interezza del tempo, di nuovo: il corso della vita. Non la vita come decorso. Se si dovesse chiamare «destino», a caricare di fatalità questo corso di vita, non sarebbe per farlo dipendere da forze imperscrutabili, da fili invisibili, o da divinità soggiacenti che, nascoste come gobbi sotto la scacchiera, si mettano a maneggiare, dal di sotto, le mosse del gioco (e dunque dell’âion).

Il destino sta, anzi, ancora, come Nietzsche prefigurò, nella demolizione della fede che vi siano un prima e un dopo regolati da un vincolo di dipendenza31: se causa ed effetto sono simultanei, è solo l’intelletto postumo che li distingue, li isola e li pone in sequenza32; causa ed effetto dunque sono nel tempo ma non sono il tempo. Distinguerli potrà essere utile nel dispiegamento logico degli avvenimenti e dunque nel poter spiegare ciò che apparirebbe altrimenti inspiegabile (perché in-dispiegabile), ma non esaurisce affatto la verità sottesa che è quella di una continuità del sempre-diverso, giacché solo ciò che è sempre-diverso ritorna.

In questo senso Nietzsche, quasi ai limiti della logica, assume sia il divenire come mutamento incessante di qualcosa, dunque alludendo che qualcosa persista (giacché, come avvertì già Kant, solo ciò che muta resta), sia il molteplice (che sarebbe proprio della successione dove sono molte le unità e i momenti distinguibili nella loro molteplicità). Ma in senso temporale, il divenire, in sé non è qualcosa-che-diviene, giacché ogni cosa è, a sua volta un divenire – dunque non un ente, né un ni-ente, ma un diveniente -, vale a dire contesa di passato e futuro sul liminare dell’istante – che solo, come detto, una insistenza (giacché di per sé non esiste) di due contrari può confortare. Quindi, se l’instante è il sempre-diverso (perché sempre divergente per via dell’insistere di passato e futuro) anche ciò che vi è implicato si diversifica (in questo senso non ci si può bagnare due volte nella stessa acqua) e non è mai identico-a-sé. Tuttavia l’unità complessa e complessiva di questi sempre-diversi è imposta (non presupposta) dal fatto che la vita è finita: che il vivente è un esperimento finito. La forza è per essenza finita. Pertanto il sempre-diverso finisce nella sua diversità. Cosa finisce? Il corso della vita del vivente. Che cosa resta? Il corso della vita di ciò che ha voluto vivere in modo tale da voler rivivere la stessa vita infinite volte. Il finito assume, assimila, l’infinito del tempo: l’eternità dello scorrere che lo ha attraversato. Si tratta dell’eternità del proprio tempo (che è proprio non nel senso della proprietà, è proprio e non è proprio, è anche espropriante qui nel senso di Heidegger, anche se qui la nozione dei Ereignis in realtà porterebbe a fuorviare il discorso).

La volontà del tramontare (l’oltre-uomo) porta (e comporta) l’uguale: l’uguagliarsi. Tale uguagliamento sta nel ritorno di ciò che si oltrepassa sempre e che – dunque – è sempre diverso. Il molteplice che ritorna e l’uno che scorre sono lo stesso nella totalità (che è solo una totalità temporale) del divenire

Se in Hegel la disuguaglianza di sé (nella coscienza ed autocoscienza) imponeva lo sbilanciamento dialettico (già avviato dalla disuguaglianza posta dalla contraddizione originaria) sino all’assoluto (che l’inizio ed è il presupposto – secondo il circolo del presupposto-posto), in Nietzsche la lacerazione degli istanti, su cui sbattono le opposte vie, trova il senso nel ritorno e nell’assimilazione del ritorno come volontà di potenza.

È primariamente il nostro corpo vivente, che diviene sempre, che porta dentro di sé il divenire cronico, e porta dunque in sé il corso della vita, le pedine del gioco, il distruggere e creare. Ed è, come rilevò Deleuze ravvicinando Spinoza e Nietzsche il Sé del corpo a declinare questo corso vivente33 (che per Deleuze, dal cui pensiero però ci discostiamo, più che un divenire, è in un certo senso – proprio in bilico tra divenire e ripetizione – un rivenire34).

Ma anche il Sé del corpo è segno della volontà di potenza, vale a dire rendere il corpo che vive non una mera presenza, nell’illusione e delusione che perdura, non un ente, ma una potenza che raccoglie l’essere già da sempre un corpo, nella temporalità di tutto quello che è e sarà, senza che questo essere possa mai convertire o sovvertire, il divenire che vi è implicato.

Heidegger sostiene che l’eterno ritorno dell’uguale e dunque la volontà di potenza sembrano la massima stabilizzazione dell’instabile sia dato pensare (e su questo Heidegger sfrutta proprio l’idea di peso rispetto al “pensiero più pesante”, capace di tenere ancorato ciò che fluttuerebbe via), in quanto ciò che è puro divenire si torce nell’essere35.

Eppure è vero il contrario: si tratta della massima instabilità pensabile sull’essere e l’ente-che-è: la contesa di passato e futuro infinitamente premuti contro l’istante, fa sì che noi non possiamo stare, né sostare, ma solo instare, possiamo porci come instans, dunque instabili, tenuti, premuti, dalle due instabilità del passato e del futuro che insistono (eternamente) ora e qui. L’instans, dunque, è l’insistenza di due forze contrapposte, l’insistere di una contraddizione. Sono tre instabilità, quella dell’instante (che non é né presente né semplice presenza), quella del passato che preme e del futuro che viene contro/incontro a produrre, a provocare una stabilità sospesa – e contesa – che è dunque solo potenza – non certo una mera possibilità né un pro-gettante poter essere – ma una necessità piegata da una volontà singolare: quella di volersi al passato e al futuro contemporaneamente, di volere all’infinito la vita che scorre già via, la vita che siamo e che va (di nuovo) a finire: il nostro stesso tramontare.

L’unica unità possibile è quella che tiene, trattiene e perciò rilascia (perché non si può tenere, contenere l’infinito) l’eterno ritorno entro la curva della volontà di poter essere quello che si è già stati.

E ogni ente, allora, invece di stare semplicemente lì, è solo in quanto volontà di potenza: tutto ciò che è, tutto ciò che si manifesta, è (solo) volontà di potenza, solo in tanto che si vuole nell’interezza del proprio corso – incessante – di vita, lì dove l’istante e l’âion co-incidono.

Si tratta di una volontà contro-corrente. Non è una volontà infatti tesa e intesa verso un fine, non è la volontà rispetto a uno scopo, quindi nella razionalità delle scelte possibili, delle strategie e della tensione verso un obiettivo. Non è una volontà che, come è per essenza il volere, si rivolge al futuro.

La volontà di potenza si rivolge principalmente al passato (o meglio al passato che è anche futuro), vale a dire al tempo non disponibile, nella misura in cui esso ha svelato la sua intima connessione con lanànke: con il fatto di non potere più nulla, di doversi sottomettere a quel che ormai è andato.

Non è dunque una volontà di agire, non è rivolta ad un’azione, bensì, controcorrente, una volontà di passione, intesa nel senso originario di pathòs, dunque di affezione o qualità, del tempo36. Quindi è una volontà curvata nel senso dell’âion, che ha, diversamente, di mira la vita intera. Lì dove vivere è una forma involontaria, dunque passiva nel senso proprio del pathòs, dell’affezione, di qualcosa che, agendo, subiamo – come la tavoletta di legno è suscettibile di essere tagliata ed incisa.

Il fatto che tale volontà si rivolga infatti a qualcosa di massimamente ineluttabile come il tempo passato, o alla vita intera così come ci appare ora già andata, già finita (perché il vivente è solo una eccezione rara, bizzarra, rispetto alla morte) ha qualcosa di incalcolabile e di tragico. Ma è anche, uno dei pensieri di maggior vitalità che siano stati gettati sul tavolo del pensiero filosofico.

La volontà di potenza è una volontà che si rivolge al passato per il fatto di essere, solo un’andata ovvero un inutile ritorno, dunque qualcosa su cui noi non possiamo più (apparentemente) incidere, né con cui possiamo neppure coincidere (perché non accettiamo tutto quel che accade o è accaduto come nostro) né tantomeno sfuggire.

Tuttavia, volersi al passato è, proprio per questo l’opposto del senso di colpa (e sul punto torneremo). Mentre il senso di colpa infatti è un immissione nel passato di una possibilità (l’aver potuto agire altrimenti) che assume il volto di un’obbligo (giacché avremmo dovuto agire altrimenti), senza che però una modifica sia più possibile, volersi al passato significa riconoscere il futuro (l’avvenire) che è impigliato nel passato (perché è la volontà a sformare il tratto del tempo) e al contempo l’assenza di finalità – e dunque di dovere e di colpa – inscritta in questo avvenire (e così liberarlo, fino a qui, fino all’attimo in cui giunge ora e su cui preme). Il passato cioè è sempre possibile, è sempre potenza, non nel senso della sua modificabilità, ma nel suo continuo divenire che non cessa, non si arresta, nel suo giocare innocente (e dunque senza colpa), sulla spiaggia delle stagioni e dei giorni: gioca ora, giocherà di nuovo, i pezzi si spostano, sfuggono e cadono, formano un’iscrizione o una combinazione irripetibile, poi ritornano nella loro casualità, nella loro intima strategia, senza poter vincere nulla se non il giocare stesso, ossia il liberare lo spirito dall’oppressione della necessità (o assumere la necessità stessa come libera)37.

Nel senso di colpa è la possibilità-non-più-possibile a far passare l’idea di un dover-essere: avremmo potuto fare diversamente, avremmo dovuto fare ciò che era nelle nostre possibilità in una regressione anche all’infinito lungo la corda del poter-essere (laddove anche lo schiavo sarebbe potuto non nascere schiavo, il che implicherebbe una rivoluzione prima della rivoluzione).

La maschera della possibilità implicita nel rimorso (l’aver potuto e dovuto essere altrimenti), infatti in realtà nasconde una normatività tutt’altro che innocente, laddove il possibile ma che si staglia nella nostra disponibilità apparente non è affatto la nostra potenza che è quella di volere e rivolere la vita, e dunque estraneo rispetto al nostro destino che ci inchioda e però ci libera nel nostro poter-essere-quello-che-già-siamo-e-saremo, nella nostra ciclica vita tramontante38.

Volersi al passato significa riconoscere l’innocenza implicita nel divenire ciò che si è, al di là del bene e del male, ovvero rifiutare sia l’idea che vi sia un creditore rispetto al quale non avremmo assolto (ancora) il nostro debito, sia che vi sia qualcuno che ci abbia indotto a fare quello che non volevamo fare; assumersi interamente la volontà di tutto quel che è accaduto: la volontà del caso, la volontà di ciò che è apparso necessario: la volontà di quello che si è subiti, la volontà di quel che abbiamo fatto e disfatto: in quanto tutto questo è in divenire è il nostro divenire: e, dunque, si ripeterà.

La volontà di potenza, dunque, designa la forza di volersi così come si è e si sarà, in quanto tutto quello che siamo già stati è ancora lì da venire, è in divenire, è nel corso della vita che scorre pezzo dopo pezzo: dunque è ancora in potenza pur essendo già stato atto. Volersi al passato, significa sospirare: così volli che fossi.

Ciò significa che il divenire – già in sé innocente – è assunto ed assolto come il nostro stesso divenire, il nostro destino – che è la potenza del suo ripetersi.

La volontà di potenza, oltre alla colpa, vince anche l’invidia che nasce dal voler essere quello non si è e non siamo stati – e che dunque non diventeremo: di voler avere la vita che altri hanno avuto, di voler dunque uscire (evadere) dal flusso del proprio divenire per anelare all’essere astratto dell’altro ridotto a immagine (dell’altro frutto di rappresentazione e dunque sottratto al suo stesso concreto vivere e divenire)39.

Tale volontà implica smisurata forza (non certo infinita, perché la forza in Nietzsche è, per essenza, un concetto di forza finita) in quanto ritorce il senso proprio della volontà in un modo del tutto diverso da quella che si è soliti prefigurare40.

Ecco che il celebre monito di Nietzsche diventare ciò che si è, non è un’autociclica rivendicazione della propria immutabilità, ma il compito smisurato di diventare il corso della propria vita.

Ciò impone ed implica un grado di creatività, di capacità plasmatrice e riplasmatrice, di grado elevato. Farsi opera d’arte significa scolpire incessantemente la materia che siamo già: ancor più significa amare la nostra mortalità, perché anche morire si inscrive nell’eternità del divenire, amare il fatto di essere un tramonto e non un fine. La volontà qui non ha un fine, così come non lo ha, per sua essenza, l’autentica creazione artistica.

La volontà si rivolge sempre a qualcosa di finito e definito, verso un obiettivo, che è, in questo senso, proprio una obiettivazione di ciò che altrimenti sarebbe puramente indeterminato: è l’orizzonte (del divenire, del morire) ridotto e tradotto in objectum, la fine stessa così incerta o indeterminata conferita in fine, cosicché il fine e la fine siano lo stesso (Dioniso e Ade, come evocò Eraclito).

3. Divenire e apparire

Riprendendo l’articolazione iniziale del discorso, potremmo dire, dunque, che tutto ciò viene divorato da Chrónos è destinato a tornare nel cerchio dell’Âion come diveniente.

Innanzitutto, però, è Chrónos che, isolando i momenti (superstiti) e dunque identificandoli (ed enumerandoli), proprio grazie alla sua distruttività (che consente di dividere, separare ed annientare), consente di far sorgere le cose nella loro individualità. Consente, vale, a dire, di distinguere gli enti (financo i pezzi del gioco).

Così distinguendoli, li distrugge: poiché è la condizione della loro isolabilità (della loro astrattezza in senso hegeliano) e del loro reciproco annientamento.

Chrónos ha a che fare, infatti, con la successione degli enti, il loro mutevole scambio, il loro annullarsi a vicenda, con il loro comparire ed il loro scomparire: dunque, con il loro apparire. Ce lo ricorda Heidegger nel corso del semestre estivo del 1932, che cita Sofocle e ne commenta il verso dell’Aiace: «Chrónos possente e imprevedibile fa sorgere tutto ciò che non è manifesto e vela tutto ciò che sta nellapparire»41. L’apparire è anzi, in senso greco, come indica Heidegger, l’unità del comparire e dello scomparire42.

Il famoso frammento di Anassimandro, in questo senso, si riferisce a Chrónos e viene tradotto da Nietzsche: “donde le cose hanno la loro nascita, colà devono altresì perire, secondo la necessità: esse infatti devono pagare il fio ed essere condannate per le loro ingiustizie, conformemente allordine del tempo»43. Rispetto a tale traduzione, allorquando il frammento fu restituito nel testo originale, venne aggiunto l’avverbio allélois («vicendevolmente» o l’«un l’altro»): per cui le cose devono pagare vicendevolmente, le une alle altre, il fio, ad indicare la disputa – quasi da tribunale – che ogni cosa ha con le altre (come in una disputa pubblica di una qualsiasi polis ionica – suggerisce Jaeger) laddove il tribunale è però la natura e il giudice (imperscrutabile e non manipolabile) è il tempo che garantisce, nel suo corso, quella giustizia immanente a cui nulla e nessuno può sfuggire44.

Chrónos ordina (comminando la sanzione) in quanto, essendo unidimensionale, consente di far apparire una sola volta per tempo e dunque decreta il reciproco escludersi e sopraffarsi – sul limite del comparire e dello scomparire – delle cose45. Il frammento di Anassimandro contrassegnato con 12A11 (secondo l’ordine Diels-Kranz) è chiaro: «Chrónos è ciò che determina la generazione, la distruzione e l’esistenza dei mondi», esso favorisce, dunque, l’emersione di mondi e il loro inabissamento.

Tuttavia questo «apparire» ha anche l’ulteriore carattere di Âion, giacché nessuna mossa esce realmente dal gioco finché il gioco dura e finché la partita – pur disfatta in indefinite occasioni – continua.

Ora è evidente che solo l’apparire mostra la singolarità della cosa. In senso fenomenologico, ad esempio: questa foglia qui ora. L’essere (la verità logico-formale), invece, la disperde. Per Nietzsche è chiaro: solo la cosa singolare così come appare – in quanto vivente – ha senso (e verità).

La singolarità della cosa, tuttavia, implicherebbe la sua irripetibilità (e non la sua ripetizione).

Eppure, per ciò che abbiamo delineato, l’irripetibilità, qui, significa ritorno infinite volte. Proprio perché questo stesso momento è tale da ripetersi infinite volte, esso, in realtà, segna la sua irripetibilità. Infatti che si ripeta infinite volte o una sola è lo stesso. Data la sua singolarità, il momento che ritorna all’infinito è un’infinita moltiplicazione dell’uno, L’uno non è una cosa, ma l’istante in cui è avviluppata la cosa: ed è questo inviluppo ad essere singolare, a non poter essere scambiato con nient’altro se non con sé stesso. L’eterno ritorno dell’uguale significa dunque singolarità assoluta di ciò che ritorna e che – solo così – può tornare. Come farebbe infatti a tornare qualcosa che non sia singolare?

Il tempo non ricuce, né propriamente conduce: lascia che il mutamento corra, scorra, nella sua incompatibilità. Il tempo lascia che gli inconciliabili, gli opposti, pur nel loro incidere insieme (nel loro co-incidere) rimangano opposti. Non c’è nessuno scioglimento nell’Uno. L’Universo si mostra – sempre – Diverso. Il rinnovare, dunque, è un continuare, ma il continuare è una rottura che si consuma nell’attimo.

Noi non abbiamo possibilità di stare, di sostare, di avere sussistenza. La cosa più stabile è l’attimo che è sospeso conteso nello scontro di infiniti.

Ciò che né il nano, né gli animali (l’aquila e il serpente) colgono della dottrina dell’eterno ritorno è che lo scontro tra l’infinito passato e l’infinito futuro è qui, nell’attimo che noi siamo. Entrambi restano spettatori dello scintillio circolare del tempo e dell’eternità, senza essere l’attimo. Il nano non sta nell’attimo, vi si accovaccia accanto. Gli animali non colgono il ritorno, lo cantano soltanto come ritornello, pur alleviante, pur costituente e ricostituente, come una cura, un farmaco, per il convalescente.

È invece l’istante – il nostro farci istanti – ad essere singolare e dunque irripetibile pur nel suo infinito tornare.

Eppure come si combina la singolarità dell’istante con la continuità non-discioglibile del divenire? Solo pensando che il divenire cessi? Vale a dire: tramonti? Questo significherebbe accettare di Chrónos solo l’ultimo decreto – quello che toglie l’eccezione (e l’eccezionalità) al vivente – vale a dire: la morte?

La volontà di potenza vorrebbe redimere46, forse, nell’amare il nostro destino incalcolabile, ciò che la morte (l’idea della morte, la paura della morte) sembrerebbe togliere (e soprattutto conformare come Chrónos)?

La volontà di potenza, nel volersi all’indietro e in avanti, mostra che il tramontar via, il tempo-che-dilegua è in realtà un ritorno; ed è anzi l’unica manifestazione dell’eternità possibile, non perché il tramonto venga sospinto all’indietro – nell’ineffabile uguaglianza della luce declinante e di quella sorgente – dall’alba che verrà, ma perché il tramontare stesso, il finire, lo sfinire, è la risultante sospesa e contesa di un tempo infinito: dunque, il suo dileguare è già un ritorno e il suo tornare è – subito – già uno scorrere via.

L’essere è sottomesso a questo cerchio, perché per quanto il tempo sia infinito (e il divenire in esso iscritto), esso è finito. Il ragno sul muro, il nostro bisbigliare, la luna che tonda si poggia sulla casa non sono “cose”, ma visioni, sono – nel senso che diremo – vissuti, atti del nostro vivere, che non esistono – dunque – a prescindere o a trascendere da noi.

Pertanto, bisogna evitare di affrettarsi a voler richiudere il divenire – e la fatalità insita nella doppia circolarità di âion e chrónos – in una sorta di salvezza: in un cerchio in cui l’eternità possa rivelarsi – come pretenderebbe Severino ad esempio – nella gioia dell’essere, redimendosi così da chrónos (ovvero dall’auto-contraddittorietà del divenire stesso)47. Quello che alcuni autori hanno tentato, infatti, proprio dalla lezione di Nietzsche – e il primo è stato Heidegger – è prendere sul serio la questione per poi però evitarla di assimilarla e – ancor di più – deviarne il peso cercando una redenzione dal tempo e non nel tempo stesso.

L’âion non è l’eternità dell’essere di cui chrónos è apparenza. L’âion consente di indicare l’identità (non-identica) di una vita, il corso di una vita, il corso di un secolo, il corso del mondo sin dalla sua nascita, il corso delle cose: un’interezza che pur finita, non ha limiti: un bambino-che-gioca, concentrato sul suo gioco, che non ha finalità, né altro fuori di sé, non ha propriamente neppure uno spazio vero a proprio se non quello che si forma, che risulta da questo movimento di gioco.

Ora la possibilità di indicare un’unità – anche discorsiva – pur dal di dentro dell’unità stessa (nel senso eracliteo), implica o che il nominarla costituisca solo uno dei pezzi di questo gioco dislocato su una non meglio identificata scacchiera; ovvero che noi siamo nella creazione e distruzione di questo gioco, vale a dire che il nostro sforzo creativo, ricreativo e distruttivo è in qualche modo inviluppato nel movimento del gioco stesso. Ora poiché qui non vi è propriamente sequenza, ma una ciclicità di atti che aprono e chiudono le stagioni di questo gioco, ciclicità che non importa affatto una riproducibilità, quanto semmai una ripetizione di ciò che è irripetibile, dunque un ricominciare (nel senso di Kierkegaard), noi siamo implicati in questo inizio. L’inizio è contrastato, conteso. Non è una pagina bianca su cui possiamo scrivere liberamente. L’inizio è già iniziato, Ogni cominciare è un cominciare di continuare, diceva Husserl. La storia è già compromessa. È storia degli oppressi, direbbe Benjamin, storia di coloro che neppure hanno parlato, che neppure hanno potuto dire la loro. Ma, ad ogni modo, è un inizio su cui sbattono il passato con tutto l’infinito corso contro il futuro: due non-essere dal punto di vista puramente logico, il non-ancora e l’ora-non-più; che però hanno un verso e hanno un verso contrario, dunque una capacità di impatto, una forza nel loro sbattere-contro: e dunque pur essendo ni-ente nel senso heideggeriano del non-ente, non sono propriamente nulla (né possono assimilarsi all’ “essere” che non è l’ente). Essi sono i due versi incompatibili (gli opposti del divenire eracliteo) dell’unica realtà che è il tempo della vita. La circolarità non è perfetta, non si chiude, non si conchiude in una circonferenza senza interferenza: l’attimo è un arco vuoto ma abitato: siamo noi l’istante: noi che non stiamo, non sostiamo, stiamo aperti perché, siamo quel che non siamo e non siamo quel che siamo, perché siamo – come direbbe Sartre – una decompressione d’essere e dunque un farsi continuo, lì dunque dove il puramente logico non soddisfa alcuna equazione (io=io) e meno che mai arriva ad offrire il segno dell’uguale (che è la condizione di possibilità per aversi un’equazione) perché se vi è un uguale è – solo – nella misura di un ritorno.

1 Cfr. sul punto Franz Von Baader, Sul concetto di tempo, in Filosofia Erotica, Rusconi Milano 1982, pp.117-118 e il § 4, cap. I, del mio Tempo e multiverso, cit., p. 17ss.

2 Come narra l’incipit del Prologo “Giunto a trent’anni, Zarathustra lasciò il suo paese e il lago del suo paese, e andò sui monti. Qui godette del suo spirito e della sua solitudine, né per dieci anni se ne stancò”. Ci riferiamo, da qui in poi, alla seguente traduzione di Colli e Montanari della redazione dell’opera completata nel 1885: F. Nietzsche, Così parlò Zarathustra. Un libro per tutti e per nessuno, Adelphi, Milano 1976. La narrazione è la ripresa del celebre § 342 Incipit Tragoedia de La Gaia Scienza: “Compiuti che ebbe i trent’anni, Zarathustra abbandonò la sua patria e il Lago Urmi e andò sulle montagne “Qui godette del suo spirito e della sua solitudine, e per dieci anni non ne fu stanco.” così a collegare la parte in cui annunciava la morte di Dio e “il pensiero più pesante” del § 341de La Gaia Scienza con lo Zarathustra.

3. F. Nietzsche, op. cit., III, Della visione e dell’Enigma, 1.

4Ibidem: “Verso l’alto: – a dispetto dello spirito che lo traeva in basso, in basso verso abissi, lo spirito di gravità, il mio demonio e nemico capitale”

5 Sembrerebbe trattarsi di un peso acquisito, di una tradizione, in particolare, la tradizione cristiana: altrove, Nietzsche avverte: “si avvicina il tempo in cui dovremo pagare per essere stati cristiani per due millenni: perdiamo il peso che ci faceva vivere” (F. Nietzsche, Volontà di potenza, Bompiani, Milano 1995, p. 233) alludendo al fatto che tale peso, pur gravando, consentiva un qualche radicamento sulla terra; e che tale peso derivi da ogni tentativo di aver conferito al tempo la dimensione dell’essere. Ma sarebbe forse azzardato conferire allo spirito – a questo Geist – una connotazione estranea alla questione posta inizialmente sul tempo; né conviene precorrere le fasi della riflessione.

6 Ibidem: “Ma c’è qualcosa che io chiamo coraggio: questo finora ha sempre ammazzato per me ogni scoramento. Questo coraggio mi impose alfine di fermarmi e dire: «Nano! O tu! O io!”

7 F. Nietzsche, Così parlò Zarathustra, cit., III, Della visione e dell’Enigma, 2: “tu non conosci il mio pensiero abissale! Questo – tu non potresti sopportarlo!”

8 Ibidem: “Guarda questa porta carraia! Nano! continuai: essa ha due volti. Due sentieri convengono qui: nessuno li ha mai percorsi fino alla fine. Questa lunga via fino alla porta e all’indietro: dura un’eternità. E quella lunga via fuori della porta e in avanti – è un’altra eternità. Si contraddicono a vicenda, questi sentieri; sbattono la testa l’un contro l’altro: e qui, a questa porta carraia, essi convengono. In alto sta scritto il nome della porta: ‘attimo’”

9 Sul punto, cfr. E. Fink, Filosofia di Nietzsche, Marsilio, Padova 1980, pp. 89-90: “Con i suoi pensieri della morte di Dio, Nietzsche pensa nell’ambito del problema dell’Essere e dell’Apparire. Egli combatte la duplice concezione dell’apparenza del mondo terreno e della realtà e autenticità del mondo metafisico. L’Ontos On non è per lui l’idea e nemmeno Dio, non un summum ens, che possa venir considerato di altissimo rango, l’Agathon, e con ciò la misura di tutte le cose”.

10 Cfr. S. Giametta, L’eterno ritorno nel Nietzsche di Heidegger, in Caleidoscopio filosofico, Mimesis, Milano 2022 – ebook ed.: p. 230: “È un fatto, ad ogni modo, che Nietzsche pensava allora che per la dottrina dell’eterno ritorno ci fosse bisogno di dimostrarla scientificamente e che ciò fosse possibile. L’illuminazione, evidentemente, di per sé non lo convinceva del tutto, la dottrina gli sembrava solo un’ipotesi, per quanto tentatrice, quale è presentata nell’aforisma 341 de La Gaia Scienza, dove egli la comunica per la prima volta e nel modo, bisogna dire, più importante. Su ciò Heidegger concorda: ‘Il pensiero dell’eterno ritorno non vi è presentato come una dottrina. Viene buttato lì come un’idea bizzarra, come un trastullarsi con una possibile immagine’ Proprio così.”

11 Sul punto, Giametta critica recisamente – e probabilmente non a torto – Heidegger, laddove, nelle lezioni “comincia col riportare in integro l’aforisma 341 de La Gaia Scienza. Per Heidegger quella dell’eterno ritorno è ‘una terribile prospettiva su un raccapricciante stato complessivo dell’ente in generale. Dove è andata a finire’, dice, “qui la ‘gaiezza’? Non incomincia qui piuttosto lo sgomento? Evidentemente sì; basta gettare uno sguardo al titolo del brano immediatamente seguente, il 342, che conclude il libro. Esso suona: ‘Incipit tragoedia’. […] Come può questo sapere chiamarsi ancora ‘gaia scienza’? è una idea demoniaca, non una scienza, uno stato spaventoso, non ‘gaio’!” (p. 230). Tutto giusto. Solo che poi aggiunge che il titolo non conta. Allora non si vede perché Nietzsche, che sceglieva i titoli con tanta finezza e giustezza, abbia scelto quello. Per Heidegger conta solo “quello che” “Nietzsche pensa”, cioè quello che Nietzsche pensa secondo lui.” (Cfr. S. Giametta, op. cit., p. 294).

12 Cfr. F. Nietzsche, La gaia scienza e Idilli di Messina, Adelphi, Milano 1988, § 342, lì, dove riferendosi al sole, “devo discendere nelle profondità: come fai tu, la sera, quando te ne vai sotto il mare e porti la luce anche nel mondo sotterraneo, tu ricchissimo astro! – io devo, al pari di te, tramontare”. Identico motivo è ripreso nel Prologo dello Zarathustra.

13 F. Nietzsche, op. cit., § 343; il passo quivi tradotto reca testuale: “l’avvenimento stesso è fin troppo grande, troppo distante, troppo alieno dalla capacità di comprensione dei più perché possa dirsi già arrivata anche soltanto notizia di esso; e tanto meno, poi, perché molti già si rendano conto di quel che veramente è accaduto con questo avvenimento – e di tutto quello che ormai, essendo sepolta questa fede, deve crollare, perché su di essa era stato costruito, e in essa aveva trovato il suo appoggio, e dentro di essa era cresciuto: per esempio tutta la nostra morale europea. Una lunga, copiosa serie di demolizioni, distruzioni, tramonti, capovolgimenti ci sta ora dinanzi: chi già da oggi potrebbe aver sufficiente divinazione di tutto questo da diventare maestro e veggente di questa mostruosa logica dell’orrore, da essere il profeta di un ottenebramento e di un’eclisse di sole, di cui probabilmente non si è ancora mai visto sulla terra l’uguale?”

14 In questo senso, divergiamo in parte dalla notazione di Deleuze già menzionata, secondo cui l’attimo, nella visione dell’Âion, non avrebbe spessore o sarebbe un puro negativo: cfr. G. Deleuze, Logica del Senso, cit., p. 147.

15 Ibidem:

16 Cfr. sul punto il mio Progresso e Accelerazione: lumi e bufere sul senso della storia [Leussein 2009]

17 Ibidem: “Ma dov’era il nano? E la porta? E il ragno? E tutto quel bisbigliare? Stavo sognando? Mi ero svegliato?”

18 Ibidem: “così gridò da dentro di me: il mio orrore, il mio odio, il mio schifo, la mia pietà, tutto quanto in me – buono o cattivo – gridava da dentro di me, fuso in un sol grido”

19 La risata è quella stessa di Dioniso che affiora nel pastore; si legge in Ibidem: “non più pastore, non più uomo, – un trasformato, un circonfuso di luce, che rideva!” Per il quale Zarathustra prova nostalgia: “Oh, fratelli, udii un riso che non era di uomo, e ora mi consuma una sete, un desiderio nostalgico, che mai si placa”. Eppure non è ancora questo il livello in cui il pensiero può essere portato: la liberazione del pastore non è la liberazione di chi porta il pensiero. Altrove, Nietzsche rievoca la sua risata nostalgica (Di tavole antiche e nuove, Il convalescente). Fink, sul punto annota: “E ancora: “Egli parla, alla fine del corso del suo pensiero, dell’essenza in sé contraddittoria ed ambigua del tutto nella mistica figura di Dioniso. Questi è per lui il Dio informe che forma, che costruisce e che distrugge, il cui volto è la maschera, la cui apparenza è l’occultamento, che è vita una e molteplice, vita traboccante e calma pace dell’Ade” (E. Fink, Filosofia di Nietzsche, cit., pp. 112-114)

20 Il punto è stato ad esempio messo in evidenza da Vattimo, che vede nel morso la decisione capace di rompere la struttura estatico-funzionale del tempo dove ogni momento è solo in funzione di quelli che lo precedono e lo seguono; il morso così riaccende l’inizio di una temporalità che, allora, si rinnova nell’eternità del ripetersi: in questo senso, scrive Vattimo, “il pastore che morde il serpente, «opera una riduzione di tutto alla decisione” (cf. G. Vattimo, Il soggetto e la maschera. Nietzsche e il problema della liberazione, Bompiani, Milano 1994, pp. 199-211. Sotto profili non lontani, Cacciari, ha sottolineato che, con il morso, si dimostra che l’istante, propriamente non ‘si dà’, non cade, non avviene (appunto in senso passivo); esso, piuttosto, è, appunto, essenzialmente de-cisione, cesura del continuum del tempo, ‘catastrofe’’ che svolge la continuità nel ritmo delle sue epoche: “a priori, se un ritmo appare, lì deve darsi de-cisione” (cfr. M. Cacciari, Dell’Inizio, Adelphi, Milano 1990, p. 273). Severino, diversamente, afferma che l’attimo di cui il morso sarebbe rivelazione, è amore dell’eternità conseguita con l’unione, tesa ma improvvisamente leggera, di volontà e eterno ritorno (cf. E. Severino, L’anello del ritorno, Adelphi, Milano 1995, pp. 231-238), anche se, in modo critico, si potrebbe dire che – per Severino – l’attimo così prefigurato, sia solo la conferma spettacolare di ciò che comunque, al di là della falsificata apparenza del divenire, sarebbe ugualmente (sul punto, cfr. il mio Il tempo come redenzione, cit., §§ 6 e 7).

21 Qui finisce infatti il racconto che Zarathustra fa sulla barca ai suoi compagni. È necessario che Zarathustra scenda dalla barca realmente e si ponga in cammino, di nuovo, verso la vetta. La gravità che viene raccontata, che viene rappresentata nella narrazione, non è uguale a quella che viene vissuta ed assimilata: solo a seguito dell’assimilazione, può darsi uno scioglimento dell’enigma.

22 Cfr. M. Heidegger, Nietzsche, II voll., Adelphi, Milano 1994, p.139ss. in cui commenta la parte dell’abbozzo su cui Nietzsche insiste sul termine assimilazione: “1. L’assimilazione degli errori fondamentali. 2. L’assimilazione delle passioni. 3. L’assimilazione del sapere, anche di quel sapere che rinuncia. (Passione della conoscenza)”. Annota ancora Heidegger nelle sue lezioni: “Nietzsche nell’agosto del 1885, allorquando appresta il primo abbozzo del suo progetto, prefigura un’opera con il titolo “Volontà di potenza: il tentativo di una nuova interpretazione di tutto l’accadere”. Nella primavera del 1886, il progetto porta il sottotitolo Tentativo di una nuova interpretazione del mondo, mentre l’estate del 1886, a Sils-Maria, il progetto si dilata articolandosi in ben quattro libri: La volontà di potenza. Tentativo di una transvalutazione di tutti i valori; primo libro: il pericolo dei pericoli (descrizione del nichilismo)”.

23 Cfr. S. Giametta, L’eterno ritorno nel Nietzsche di Heidegger, cit. p. 223: “nell’agosto del 1881, Nietzsche ebbe la famosa illuminazione ‘presso una possente roccia che si levava in figura di piramide, non lontano da Surlei, lungo il lago di Silvaplana [Ecce homo, VI, III, 344]3 – e illuminazione vuol dire far chiaro dove fino allora c’era tenebra’, il legame stabilito da Heidegger, secondo noi, non è giustificato. L’«anello» è un termine che Nietzsche usa spesso e volentieri, ma non sempre esso può essere interpretato come “l’anello del ritorno”, come invece l’anello menzionato alla fine della terza, e in quel periodo ultima, parte dello Zarathustra, quando cioè l’illuminazione era avvenuta ed era anche stata registrata nello Zarathustra: ‘Come non dovrei anelare all’eternità e al nuziale anello degli anelli, – l’anello del ritorno!’”

24 Nella prefazione all’edizione citata di Così parlò Zarathustra, Colli ricorda che nei rituali eleusini, si arrivava ad una immedesimazione con la divinità, vale a dire “all’assimilazione di una molteplicità frantumata nell’unità divina”.

25 F. Nietzsche, op. cit., Di antiche tavole e nuove, §§ 2 e 4.

26 F. Nietzsche, op. cit., Il convalescente, §2: “le sue bestie ritennero che fosse giunto il momento di parlare con lui: “O Zarathustra, dissero, già da sette giorni tu giaci così, con gli occhi grevi: non vuoi finalmente rimetterti in piedi? Esci dalla tua caverna: come un giardino, il mondo ti attende. Il vento gioca con densi aromi, che vogliono raggiungerti; e tutti i ruscelli vorrebbero correrti dietro. Tutte le cose hanno nostalgia di te, tanto più che rimanesti solo per sette giorni, – esci fuori dalla tua caverna! Tutte le cose vogliono farti da medico!”

27 F. Nietzsche, La gaia scienza, cit., §341.

28 L’amor fati significa poter arrivare ad amare che l’uomo come un funambolo cammini, sopra se stesso, corda tesa ma curva, andando sempre oltre, verso il sole che già scompare; l’oltre-uomo è un uomo che assume il tramontare su di sé e lo attraversa, attivamente, con vitalità. Ma il questo andare-oltre non vi è ancora l’assunzione del tempo ciclico, nell’interezza della vita: vi è solo la curva tragica del tramontare che non dice né predice il resto della circonferenza e la volontà che deve assumerla come una cosa propria.

29 F. Nietzsche, Così parlò Zarathustra, cit., Della Redenzione, 1,2. Cfr. l’interpretazione di G. Vattimo, op. cit., pp. 250-260.

30 Il riferimento è alle tesi di F. Nietzsche, Genealogia della Morale, Adelphi, Milano 1994, p. 84ss.

31 Mi riferisco, in particolare, alla prima parte dell’opera scritta nel 1988: F. Nietzsche, Il crepuscolo degli idoli. Come si filosofa con il martello, Adelphi, Milano 1993, I.

32 Cfr. J. G. Fichte, Wissenschaftslehre Nova Methodo, cit. p. 174ss.

33 Cfr. le lezioni tenute nel 1980 da G. Deleuze, Cosa può un corpo. Lezioni su Spinoza, Ombre Corte, Verona 2010. Appare poi interessante la notazione di Deleuze in ordine alla dimensione pre-individuale della volontà di potenza, laddove (G. Deleuze, Logica del senso, cit., p. 100) annota: “Cosi la scoperta di Nietzsche è altrove, quando, liberatosi di Schopenhauer e di Wagner, esplora un mondo di singolarità impersonali e pre-individuali, mondo che ora egli chiama dionisiaco o della volontà di potenza, energia libera e non incatenata. Singolarità nomadi non più imprigionate nell’individualità fissa dell’Essere infinito (la famosa immutabilità di Dio), né entro i limiti sedentari del soggetto finito (i famosi limiti della conoscenza). Qualcosa che non è né individuale né personale e che non di meno è singolare, per nulla abisso indifferenziato, ma che però salta da una singolarità all’altra, che sempre emette un lancio di dadi, che fa parte di uno stesso lancio, sempre frammentato e riformato in ogni lancio. Macchina dionisiaca per produrre il senso e in cui il non senso e il senso non sono più in rapporto di opposizione semplice, ma compresenti l’uno con l’altro in un nuovo discorso”.

34 Non concordiamo con la pur suggestiva interpretazione di Deleuze secondo cui il rivenire sarebbe l’Âion, vale a dire, una retta tangente tra divenire e ritorno dell’uguale, mentre il divenire sarebbe costituito da Chrónos; cfr. G. Deleuze, Differenza e ripetizione, cit., p. 37: “Il termine rivenire evita sia divenire che ritorno. Infatti le differenze non sono gli elementi, sia pure frammentari, mescolati, sia pure mostruosamente confusi, di un grande Divenire che li trascinerebbe nella sua corsa, facendoli talvolta riapparire nudi o mascherati. Per quanto possa esser larga, la sintesi del Divenire conserva tuttavia l’unità; non soltanto, non tanto quella di un continuo infinito, quanto quella del frammento, dell’istante che passa e ripassa, e quella della coscienza fluttuante che lo riconosce. Diffidiamo dunque di Dioniso e delle sue Baccanti, anche quando sono in stato di ebbrezza. Quanto al Ritorno, deve essere il cerchio perfetto, la mola ben lubrificata che gira sul proprio asse e riconduce a ora fissa le cose, le figure e gli uomini? Occorre che ci sia un centro e che sulla periferia gli avvenimenti si riproducano? Persino Zarathustra non poteva sopportarne l’idea: «Ogni verità è curva, il tempo stesso è un cerchio, mormorò il nano con tono sprezzante. Spirito di pesantezza, dico crucciato, non prendere tutto cosi alla leggera»; e convalescente, esclamerà: «Ahimè! l’uomo tornerà eternamente, l’uomo meschino tornerà eternamente». Forse ciò che annuncia Zarathustra non è il cerchio; o “forse l’immagine insopportabile del cerchio è l’ultimo segno di un pensiero più alto; forse bisogna rompere quest’astuzia circolare come il giovane pastore, come lo stesso Zarathustra che stacca per risputarla subito la testa del serpente.

Chrónos è il tempo del divenire e del ricominciamento. Chrónos divora brano a brano ciò che ha fatto nascere e lo fa rinascere nel proprio tempo. Il divenire mostruoso e senza legge, la grande lacerazione di ogni istante, la ruminazione di ogni vita, la dispersione delle sue parti, sono legate all’esattezza del ricominciamento: il Divenire fa entrare in questo grande labirinto interiore che non è affatto differente nella sua natura dal mostro che lo abita; ma dal fondo stesso di questa architettura tutta contornata e ritornata su se stessa un solido filo consente di ritrovare la traccia dei suoi passi anteriori e di rivedere lo stesso giorno. E Dioniso può dire ad Arianna: tu sei il mio labirinto. Ma Âion è il rivenire stesso, la linea retta del tempo, questa incrinatura più rapida del pensiero, più sottile di ogni istante, che, da ambo le parti della sua freccia indefinitamente aguzza, fa sorgere questo stesso presente come se fosse già stato indefinitamente presente e indefinitamente a venire. È importante capir bene che non si tratta qui di una successione di presenti, offerti da un flusso continuo e che nella loro pienezza lascerebbero trasparire lo spessore di un passato e profilarsi l’orizzonte di un avvenire di cui saranno a loro volta il passato. Si tratta della linea retta dell’avvenire che taglia continuamente il minimo spessore di presente, lo ritaglia indefinitamente a partire da sé: lontano che si vada per seguire questa cesura, mai si incontra l’atomo indivisibile che si potrebbe infine pensare come la micro-unità presente del tempo (il tempo è sempre più sciolto del pensiero); si trova sempre sui due lembi della ferita che ciò è già capitato (e che era “già capitato, e che era già capitato che era capitato), e che questo capiterà ancora (e che capiterà ancora che questo capiti ancora): meno frattura che indefinita fibrillazione; il tempo è ciò che si ripete; e il presente — trafitto da questa freccia dell’avvenire che lo porta deportandolo di continuo da parte a parte — il presente non cessa di ritornare. Ma di ritornare come singolare differenza; ciò che non torna è l’analogo, il simile, l’identico. La differenza torna; e l’essere, che si dice nello stesso modo della differenza, non è il flusso universale del Divenire, non è neppure il ciclo ben centrato dell’identico; l’essere è il Ritorno sciolto dalla curva del cerchio, è il Rivenire. La morte investe cosi il Divenire, Padre divoratore, madre in doglie; il cerchio, da cui il dono di vivere ad ogni primavera è passato nei fiori; il rivenire: fibrillazione ripetitiva del presente, eterna e rischiosa incrinatura data tutta in una volta, e d’un sol colpo affermata una volta per tutte.”.

35 Si legge nelle lezioni di Heidegger su Nietzsche: “Al tempo dell’emergere del pensiero dell’eterno ritorno, nel 1881/82, Nietzsche scrive una volta: «Imprimiamo l’immagine dell’eternità sulla nostra vita» (XII, 66, n. 124 [V, n, 389]). Ciò vuol dire: portiamo in noi in quanto enti, e quindi nell’ente nel suo insieme, l’eternizzazione, la trasfigurazione del diveniente in quanto diviene ente, e precisamente in modo che tale eternizzazione provenga dall’ente stesso, per esso si eriga e in esso stia.

Questa esigenza metafisica fondamentale, che viene a capo della domanda-guida, è espressa alcuni anni più tardi in una annotazione piuttosto lunga intitolata «Ricapitolazione», cioè riassunto dei capisaldi della sua filosofia in poche tesi {La volontà di potenza, n. 617 [Vili, i, 297-98, n. 7 (54)]; presumibilmente inizio del 1886). La «ricapitolazione» incomincia con l’affermazione: «Imprimere al divenire il carattere dell’essere — è questa la suprema volontà di potenza». Questo non significa: eliminare e sostituire il divenire in quanto instabile — è questo infatti che si intende — con l’ente in quanto ciò che è stabile; ma significa: dare al divenire la forma dell’ente in modo che, in quanto diveniente, venga mantenuto e abbia consistenza, cioè sia. L’impressione, cioè la trasformazione del diveniente in ente, è la suprema volontà di potenza. In questo trasformare, la volontà di potenza si fa valere nella sua essenza nel modo più puro”. E ancora: “Che tutto ritorni, è l’estremo avvicinamento del mondo del divenire a quello dell’essere: culmine della contemplazione» (La volontà di potenza, n. 617 [Vili, i, 297])”; e poi “il suo ritorno significa però il portare sempre di nuovo a sussistere, significa cioè stabilizzazione (Beständigung). L’eterno ritorno è la più stabile stabilizzazione dell’instabile. Ma, fin dall’inizio della metafisica occidentale, l’essere viene inteso nel senso della stabilità dell’essere presente, dove stabilità (Beständigkeit) ha il senso duplice di consistenza (Festigkeit) e permanenza (Beharren). Il concetto nietzscheano dell’eterno ritorno dell’uguale dice questa medesima essenza dell’essere. È vero che Nietzsche distingue l’essere, come ciò che è consistente, fisso, consolidato e rigido, dal divenire. Ma l’essere rientra pur sempre nella volontà di potenza che deve assicurarsi la sussistenza (Bestand) in base a qualcosa di stabile (aus einem Beständigen), unicamente al fine di potersi superare, cioè divenire.” (cfr. M. Heidegger, Nietzsche, cit. p. 292 e 390).

L’interpretazione di Heidegger a mio avviso non solo è inesatta ma tradisce lo sforzo teoretico di Nietzsche. Non si tratta di rendere il divenire un ente, un’essenza ovvero qualcosa di stabile. Tale passaggio, in cui creativamente la volontà rivolgendosi al tempo ciclico lo accoglie e lo trasfigura come un qualcosa che è, è solo un momento – di transito – verso la potenza di una tale trasfigurazione: infatti da dove la volontà assumerebbe una tale consistenza? Da dove la volontà trarrebbe la possibilità di dire: è? Se non vi fosse un rapporto tra divenienti che si eguagliano lì dove l’essere per la prima volta o l’essere tornati sia lo stesso? Il volersi, infatti, non abbraccia qualcosa di divenuto per raccoglierlo come ente, ma può solo dirigersi verso l’intero corso di vita; dunque, verso l’intero divenire-che-sempre-diviene e non è mai ente: e dunque assumere il divenire a partire dal proprio stesso esser-diveniente: non da un elemento fermo, ma da un elemento mobile quale è la volontà che va verso (in direzione) o si eleva in direzione della potenza, cioè del poter volere la circolarità infinita della propria finitezza. Dunque, l’essere in cui la volontà avrebbe trasfigurato il divenire è di tutt’altra specie rispetto sia all’essere della metafisica tradizionale, che all’essere heideggeriano: la liberazione del nesso è nel senso che il contingente (il casuale) attraverso il necessario (la gravità del succedere) – e proprio attraverso di essa – si è liberato nella forma di un volere: entrambi – il contingente e il necessario – dicono della potenza (che non è atto) vale a dire di un divenire che non si posa ma che ragguaglia le lontananze indefinibili del suo apparire come volontà di potenza. In questo senso, dire che tutto ciò è che è, è volontà di potenza, non stabilizza il divenire, ma fa dipendere l’essere da una volontà che si vuole al passato e nei tempi a venire.

36 cfr. Aristotele, Fisica, IV, 10: “il tempo è passione [o affezione]del movimento (pathòs kinèseos) secondo la prospettiva del prima e del dopo”.

37 Sorge tuttavia una questione, quella se l’amor fati, tradotto come un volere l’evento, possa prefigurare ad una sorta di indifferenza etica rispetto all’accadere. Sotto questo profilo la questione è affrontata da Deleuze in modo interessante, anche se poco conclusivo, laddove osserva: “Cosa vuol dire allora voler l’evento? Vuol dire forse accettare la guerra quando capita, la ferita e la morte quando capitano? È molto probabile che la rassegnazione sia ancora una figura del risentimento, che, in verità, possiede tante figure. Se volere l’evento è innanzitutto liberarne l’eterna verità, come il fuoco che lo alimenta, tale volere raggiunge il punto in cui la guerra è condotta contro la guerra, la ferita, tracciata vivente, come la cicatrice di tutte le ferite, la morte rovesciata voluta contro tutte le morti. Intuizione volitiva e trasmutazione. “Al mio gusto della morte,” dice Bousquet, “che era fallimento della volontà, io sostituirò una voglia di morire che sia l’apoteosi della volontà.” Da questo gusto a questa voglia, nulla muta in una certa maniera salvo un cambiamento di volontà, una sorta di salto sul posto di tutto il corpo che baratta la sua volontà organica contro una volontà spirituale, che vuole ora non esattamente ciò che accade, ma qualche cosa in ciò che accade, qualche cosa futura conforme a ciò che accade, secondo le leggi di una oscura conformità umoristica: l’Evento. In questo senso l’Amor fati fa tutt’uno con la lotta degli uomini liberi. Che vi sia in ogni evento la mia infelicità, ma anche uno splendore e un bagliore che asciuga l’infelicità e fa si che l’evento, voluto, si effettui sulla sua punta più stretta, sulla lama di un’operazione, tale è l’effetto della genesi statica o dell’immacolata concezione. Il bagliore, lo splendore dell’evento è il senso. L’evento non è ciò che accade (accadimento), è in ciò che accade, il puro espresso che ci fa segno e che ci aspetta. Secondo le tre determinazioni precedenti, è ciò che deve essere compreso, ciò che deve essere voluto, ciò che deve essere rappresentato in ciò che accade. Bousquet dice ancora: “Diventa l’uomo delle tue infelicità, impara a incarnarne la perfezione e il bagliore.” Non è possibile dire di più, mai è stato detto niente di più: diventare degni di ciò che ci accade, volerne dunque e liberarne l’evento, diventare il figlio dei propri eventi, è quindi rinascere, rifarsi una nascita, rompere con la propria nascita di carne. Figlio dei propri eventi e non delle proprie opere, poiché l’opera stessa è prodotta soltanto dal figlio dell’evento.”: cdr. G. Deleuze, Logica del senso, cit. p. 133

38 Nietzsche: “Anche il pensiero di una possibilità può sconvolgerci e riplasmarci, e non solo le sensazioni o determinate aspettative! Quali effetti non ha sortito la possibilità dell’eterna dannazione! (XII, 65 [V, ii, 409-10]).”

39 Ecco che per Marx, nessuna posizione comunista poteva prendere avvio dall’invidia, dall’invidia per quello che non si è mai avuto così celando il desiderio rivoluzionario per la volontà di impadronirsi di una posizione privilegiata e così diventare proprio ciò che si voleva combattere: così, disse Marx nel famoso incipit dei manoscritti economico-filosofici del 1844, ho fatto fuori la stragrande maggioranza dei rivoluzionari europei. La posizione comunista infatti implica ed impone altro: il recupero della propria concretezza: il superamento dialettico delle astrazioni, della divisioni-del-lavoro, dell’alienazione – da cui nasce appunto l’invidia – dello sfruttamento (la rivoluzione non è per gli invidiosi).

40 Sartre che ha colto, pur nelle proporzioni del suo pensiero, tale tratto, oltre a configurare una progettualità al passato, ha delineato quale sia il nesso tra la massima libertà pensabile e, al contempo la massima responsabilità cui siamo chiamati: sebbene sia sganciato dalla opposizione del bene e del male, così come la morale tradizionale ha imposto e, in sempre nuove forme, continua ad imporre, ponendosi aldilà di essi, voler vivere la stessa vita infinite volte significa non avere colpe, né torti, né punizioni, ma allo stesso tempo non avere pretesti né giustificazioni possibili, assumersi l’interezza della vita sapendo che essa si ripeterà sempre, quindi viverla come se si dovesse ripetere in eterno: non siamo lontani, nelle dovute proporzioni, da quel principio di auto-responsabilità in quanto auto-rispondenza (Selbstverantvortlichkeit) che è proprio di quella ragione fluente, eminentemente temporale, prefigurata da Husserl nelle sue ultime opere.

E sempre in questo senso, dunque, deve intendersi l’appunto di Sartre: abituarsi a vivere ingiustificati. Anzi né giustificati né ingiustificati, giacché altrimenti si presupporrebbe un riferimento di giustificazioni possibili: vivere ingiustificabili.

Tutt’altro che pessimistica, questa visione, lanciando una sfida al divenire e nel divenire, chiama ognuno a sprigionare la forza che è già implicita nel fatto di vivere, per trasformarla (qui nel senso di Fichte) come atto come Ichaktivitaet (come attività) in continua (proprio nel senso del divenire) potenza. Significa assumere la verità del tempo nell’articolazione e disarticolazione del vivente. E poiché il vivente, nel vivere, si oltrepassa continuamente pur non avendo un fine se non la fine stessa, vale a dire il fatto di essere finito, dunque di andare-a-finire, ciò che assume è la verità del tramontare, dell’essere un tramonto. È questo ciò che bisogna amare dell’uomo: il suo tramontare. È questa anche l’intima potenza inscritta nella forza finita gettata nell’infinito di un tempo contrastato: oltrepassarsi (il super-uomo o l’oltre-uomo) per tramontare. E volersi in questo tramontare.

Heidegger ha tradotto nelle proporzioni e proiezioni del suo pensiero questo tratto nella nozione di essere-per-la-morte, laddove la morte agisce e retroagisce sull’apertura dell’Esserci come la sua possibilità-più-propria determinandone l’autenticità o meno del suo ec-sistere. come ciò che preme (e conchiude) l’esistente nella sua finitezza ma che è al tempo stesso la manifestazione stessa dell’apertura lungo il modo della Cura. Tuttavia, è proprio il mancato sviluppo annunciato nel paragrafo 8 di Essere e Tempo, sulla temporalità o comunque l’aver disciolto la questione del tempo come re-inscrizione della differenza ontologica (nel parallelo invero poco tensionale tra Temporalität e Zeitlichkeit) o nei modi dell’esistenza, dunque come seguenti la questione dell’Essere, ad impedire un autentico sviluppo del pensiero di Nietzsche.

La possibilità più propria è una necessità: la morte. Ma – proprio perché non vi è uno sviluppo del pensiero sul tempo – non è aperta la via contraria, vale a dire di pensare la necessità stessa come possibilità propria e ancor più come potenza. È la domanda di Sartre rivolta ad Heidegger che continua a fare problema: quali modi ha l’ec-sistente per auto-trascendersi? Per esistere nelle lontananze delle sue possibilità? Fino alla possibilità più lontana – eppure più vicina – che è la possibilità certa della morte?

41 Cfr. Sofocle, Aiace, vv. 646-47, citato e commentato in M. Heidegger, Linizio della filosofia occidentale. Interpretazione di Anassimandro e Parmenide, Adelphi, Milano 2022, pp. 48-49.

42 M. Heidegger, op. cit., p. 49: “la notte cede il passo al giorno, e il giorno alla notte: (Eschilo, Coefore, v. 320).65 Loscurità ha nella luce il suo opposto destino, il sopraggiungere (del giorno) e lo scomparire della notte, e viceversa – si tratta di un unico apparire che i greci (prima di tutti gli altri) compresero con un impeto inimmaginabilmente chiaro nella più vasta ampiezza della loro esperienza. E ciò vale non meno per linverno e lestate, la tempesta e la quiete, il sonno e la veglia, la giovinezza e la vecchiaia, la nascita e la morte, la fama e linfamia, lo splendore e la miseria, la maledizione e la benedizione (cfr. Sofocle, Aiace, v. 670 sg.).66 Luno e laltro si cedono reciprocamente il passo, e tale concessione è di volta in volta un giungere o sparire, cioè: apparire

43 F. Nietzsche, La filosofia nell’epoca tragica dei Greci, in Opere Adelphi, Milano 1980, vol. 3, tomo II, pp. 285-86.

44 Cfr. W. Jaeger, Paideia, vol. 1 La formazione dell’uomo greco, La Nuova Italia, Firenze 1951, pp. 299-301, il quale avverte che questa idea di giustizia immanente non ha nulla a che fare con l’idea di legge di natura, quanto una sorta di intimità (imperscrutabile) del cosmo, in vediamo le dispute del mercato e il giudice che rende giustizia secondo compensazione e riequilibrio “nel corso stesso dei fatti”, un “senso religioso immediato” insito – ed inseparato – dalla natura, in cui il mondo si attesta come “cosmo in grande: un ordinamento giuridico delle cose”.

45 Unidimensionalità nel senso, qui, di una dimensione alla volta. Per Leibniz, ad esempio, mentre lo spazio denota, in termini di possibilità, un ordine di cose che esistono allo stesso tempo, considerato come esistente insieme, senza riferimento alla modalità di esistere” (Terza lettera a Clarke, in G. W. Leibniz, LZ III, 4, citata in E. Vailati, Leibniz and Clarke. A study of their correspondence, New York-Oxford 1997, p.113), il tempo è “l’ordine di esistenza di quelle cose che non sono simultanee”G.W. Leibniz, Initia Rerum Matematicarum Metafisica, GM VI, 17 L 666, cit. in E. Vailati, op. cit., p.120) e che, quindi, direbbe Aristotele, hanno una posizione anche se non una permanenza. In virtù di questo ordine, tutti gli stati di cose possono essere ordinati in base alle relazioni di priorità, posteriorità e simultaneità. Heidegger nei Zollikoner Seminäre, sembra riprendere la stessa definizione: “le singole parti della casa, in quanto limitazioni dell’intero spazio, sono contemporaneamente (gleichzeitig). Le parti del tempo, invece, non sono contemporaneamente, bensì necessariamente luna dopo laltra (nacheinander). L’elemento spaziale è l’uno accanto, sopra o dietro l’altro, mentre gli spazi di tempo sono sempre l’uno dopo l’altro. Il tempo è unidimensionale” (M. Heidegger, Seminari di Zollikon. Protocolli seminarialiColloquiLettere, Guida editori, Napoli 1991, p.88).

46 Cfr. Sul punto l’interpretazione di M. Cacciari, Dell’Inizio, cit., p. 494ss.

47 Cfr. E. Severino, L’anello del ritorno, cit., pp. 178-182 e pp. 231-238.



È scrittore, laureato in giurisprudenza e in filosofia, due dottorati di ricerca (Filosofia del Diritto presso L’Università degli Studi La Sapienza e Filosofia Teoretica presso la Pontificia Università Gregoriana), ha pubblicato una ventina tra saggi, monografie e articoli in campo filosofico tra cui “Tempo e Multiverso: indagine sulla struttura originaria del tempo” (Stamen 2008). E’ stato assistente alla Sapienza e professore alla European School of Economics; attualmente esercita la professione di avvocato urbanista. Autore di circa sessanta testi teatrali, un suo romanzo Il male è chiaro, è stato finalista al premio Calvino (pubblicato nel 2013(, mentre nel 2021 è uscita la tetralogia “Il Fondo”. Ha collaborato come organizzatore e promotore di molte iniziative culturali in campo filosofico e teatrale ed è tra i fondatori Centro nazionale di drammaturgia italiana contemporanea. All’interno del progetto Libertà di Studiare, in collaborazione con La Sapienza, il Consiglio dell’Ordine di Roma e la Scuola Forense, ha tenuto per i detenuti di Rebibbia corsi di diritto e filosofia del diritto all’interno del corso di laurea in Giurisprudenza


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