III SENTIERO: IL VISSUTO DEL TEMPO

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  1. Premessa: la questione del «tempo vissuto»

La domanda ora è però questa: in che modo il vivere (nel senso di Âion) si manifesta nella nostra vita? Nei nostri vissuti? In che modo il divenire affiora nei nostri atti viventi?

Il tempo deve essere infatti ancora indagato sotto il profilo dell’atto concretamente vissuto, di quello che Husserl (e in senso diverso Dilthey) chiamano Erlebnis: parola intraducibile in italiano perché è il sostantivo del verbo Er-leben che, a differenza di Leben (che significa vivere) in virtù dell’aggiunta del suffisso er– (come nel verbo er-fahren: fare esperienza) designa un vivere-attivo, un vivere-la-vita. Erlebnis è allora, in questo senso, un atto vivente che, in italiano, per semplicità e per convenzione, pur con tutti i limiti, viene tradotto con vissuto1. La volontà di potenza ha infatti di mira l’Âion, l’intero corso del vivere come infinito tornare su di sé: è un volersi rivivere infinite volte. Ma ciò in che modo è rinvenibile all’interno del singolo vissuto?

Il rapporto tra il «vivere» e il «vissuto», è un rapporto per così dire organico, come quello del corpo e della cellula nel senso che l’uno è implicato ed incastonato necessariamente nell’altro.

Rispetto al «corso della vita», il singolo (e singolare) vissuto non costituisce un momento scisso, distinto (discreto rispetto alla concretezza del vivere), ma è, per così dire, frazione (non divisiva) dell’intero, ritmo del flusso, epifenomeno della sua «indivisibilità»; dunque non un’«ora» quale momento separato (e numerato), ma un atto che fluisce via nella corrente infermabile del vivere. Esso dunque è come l’attimo, sotto cui scorre l’infinito del tempo: la sua struttura è quella di un atto (temporale e temporalizzante) che, appartenendo all’intero Erleben, può dirsi Erlebnis.

Per Husserl l’Erlebnis è essenzialmente un dirigersi-verso: il verso è però – come abbiamo visto prima – controverso, un verso conteso, contrastato da una doppia vettorialità. Il doppio verso (doppio versante) è, anzitutto, dato dal fatto che come io mi dirigo verso le cose, le cose, a loro volta si offrono (con tutto il loro orizzonte di senso interno) manifestandosi verso di me. La risultante di questo doppio vettore è un atto – in sé teso – che Husserl chiama atto intenzionale (o – appunto – vissuto intenzionale) che è bilaterale o ambivalente, in quanto l’io e la cosa vi giacciono inscindibilmente insieme.

Ora, per capire in che modo ciò avviene – e per comprendere dunque in che senso si possa parlare di «vissuto temporale» o di «tempo vissuto» – dobbiamo necessariamente fare un passo indietro e premettere che Husserl, come è noto, ricava la nozione di Erlebnis attraverso l’epochè: il gesto (metodologico) di mettere tra parentesi il mondo, di toglierlo di mezzo, di metterlo – letteralmente – fuori gioco (così mettendo fuori gioco anche Chrónos quale tempo implicato nel mondo); con l’epochè si tratta di sospendere il mondo nella sua validità, nella sua vigenza e nella sua invasività.

In senso platonico, pur con le dovute proporzioni, l’epochè è l’atto che ci prepara all’uscita dalla caverna; si tratta di un gesto secco, repentino (nel senso proprio dell’exaiphnés) e deciso: dobbiamo distogliere il nostro sguardo dalla parete su cui vengono proiettate le ombre delle cose (prodotte da un fuoco ammaestrato) che noi scambiamo per realtà e voltarci – di scatto – all’indietro, verso l’uscita, lì dove si intravede la luce del sole, aldilà della quale si trovano le cose vere, in carne ed ossa. E tuttavia, diversamente da Platone, non si tratta di disvelare il mondo delle idee, ma di tornare alle cose stesse (di cui le idee costituiscono solo una visione, la visione della loro essenza, della loro singolarità: l’eidos).

Con l’epochè noi smettiamo, così, di dare per scontato il mondo e sospendiamo il giudizio perfino sul fatto che un mondo davvero vi sia e che sia fatto così e così. Ciò comporta la disinserzione del mondo come mondo obiettivo, con la sua pretesa oggettività (e con ciò anche le scienze che lo presuppongono).

In questo modo, però, noi mettiamo tra parentesi anche noi stessi in quanto implicati nel mondo (in quanto esseri-nel-mondo) e dunque già pregiudicati in quanto il mondo in cui siamo è a sua volta caduto nel nostro pre-giudizio2.

In questo esercizio metodologico, bisogna arrivare fino in fondo, ad una Weltvernichtung, ad un annullamento radicale del mondo così come ci appare nell’inerzia del nostro pigro atteggiamento naturalistico – che è un atteggiamento dormiente, da sonnambuli – per poter illuminare, in un vivace ed efficace chiaro-scuro, cosa invece resta (e resiste) fuori dalla parentesi e che dunque affiora, nella sua evidenza.

Cosa resta infatti? Cos’è che io non posso annullare? In quanto si presenta come non riducibile? Quel che rimane – il cosiddetto residuo fenomenologico – è l’io che ha messo tra parentesi il mondo, l’io trascendentale che però non sta in sé (non sussiste) bensì si allunga con il suo raggio intenzionale verso le cose che, di volta in volta, mi appaiono in modo originale – in carne ed ossa – per la prima volta, offrendosi a me, in visione, come fenomeni3.

La coscienza che incontra il fenomeno, non è dunque già un serbatoio di contenuti, bensì è una coscienza intenzionale, vale a dire tesa, distesa, protesa verso ciò che si offre, di volta in volta, in manifestazione. È una coscienza sbilanciata, giacché è – per forza di cose – rivolta-verso il fuori-di-sé, è, costantemente, coscienza-di-qualcosa4. È in questo senso che la coscienza – come già delineato – è (solo) un continuo, incessante «dirigersi-verso» la cosa, che è solo un ritaglio di mondo (Abschnitt von der Welt) da cui poter costituire, nel co-implicarsi di un ritaglio con un altro, quella trama di adombramenti e di rinvii che è – ogni volta di nuovo – il «mondo-per-noi», il mondo come correlato della nosrta coscienza.

La coscienza, dunque, – come suggerì Sartre nella sua interpretazione di Husserl – non ha contenuti:“in essa – scrive Sartre – non c’è più niente, eccetto un movimento per sfuggirsi, uno scivolare fuori di sé: (…) essa è soltanto il fuori di se stessa ed è questa fuga assoluta, questo rifiuto di essere sostanza, che la costituiscono come una coscienza”: la coscienza è solo quest’esplodere e nien’altro5: se volessimo entrare in essa saremmo rigettati subito via, verso la cosa che essa stava guardando, toccando, immaginando. La coscienza è centrifuga, è essa stessa questa fuga, questo sfuggirsi originario, un rifiuto di essere sostanza: lancio teso verso le cose che affiorano (e ci sfiorano). Sia le cose sono ridotte a oggetti intenzionali (che si offrono in manifestazione quali fenomeni) sia la coscienza è solo coscienza intenzionale (in quanto rivolta verso la manifestazione). Dunque non vi è un soggetto e un oggetto, ma appunto un «dirigersi-verso» che Husserl nelle Ideen chiama con il termine greco noesis e un «darsi-a-vedere», un offrirsi (l’oggetto intenzionale con le sue proprietà) il noema. Il noema non è la cosa, non è la res, sebbene possieda un nocciolo (il Kern), una traccia di oggettività, che, avendo le sue proprietà (avendo, come detto, un orizzonte di senso interno) orienta il dirigersi-verso). Il noema può definirsi, in questo senso, come scrisse Adorno, “un ermafrodito (Zwitter) di immanenza soggettiva e trascendente oggettività”6. In questo sta l’ambivalenza (o la bipolarità) del vissuto. Come infatti la noesis è solo uno sbilanciamento verso il noema, il noema a sua volta è solo ciò che (a partire dal suo nucleo) si offre per una noesis che, offrendosi, si trasfigura (nella percezione, nel ricordo, nell’immaginazione, nel pensiero). Noesis e noema sono necessariamente correlati in modo inscindibile e formano – ogni volta di nuovo – quell’atto teso, intenzionale (percettivo, valutativo, immaginativo, mnemonico o di pura fantasia e così via nella morfologia variabile degli atti intenzionali) che, unendosi nel flusso degli altri atti intenzionali, conforma la vita fluente della coscienza (l’Erleben)7.

Tale atto è dunque l’Erlebnis, il vissuto. che, a sua volta si concatena ad altri, nel flusso temporale immanente dei vissuti (Erlebnisstrom). La trama del mondo, che nei suoi chiaroscuri viventi affiora e si inabissa, si illumina e si adombra, non è dunque un insieme di cose, né di fenomeni, ma di vissuti intenzionali, lungo l’Erleben: il vivere desto, attivo.

Questo atteggiamento – l’atteggiamento fenomenologico – di mettere tra parentesi ciò che viene dato per scontato, che appare ovvio, per trasformarlo in compito (in un compito delicato, avventuroso – e infinito) non è dissimile – come emerge anche dal carteggio tra Husserl e Rilke8 – all’atteggiamento poetico, laddove il poeta – ogni volta di nuovo – azzera (riducendolo a silenzio) il rumore del mondo per fondersi (confondersi) con il suono che – affiorando per la prima volta – lo dice (ovvero lo evoca, lo canta o lo contraddice)9.

Ora, svolta tale breve premessa necessaria, la domanda è: come è possibile pensare il vissuto come epifenomeno del corso della vita d(Âion)? In che modo è possibile pensare il divenire come flusso temporale di vissuti? Come è possibile pensare l’articolazione della volontà di potenza – sull’infinito passato e l’infinito futuro – nella morfologia degli atti vissuti? E l’intenzionalità che si dirige-verso come un rinnovarsi – ogni volta di nuovo – di quel voler vivere e rivivere quel che siamo stati e che, ancora una volta, infinite volte, saremo?

La questione investe il costituirsi del tempo per noi, la traslazione dell’attimo, dell’in-stante, come atto, come vissuto: il tempo della coscienza intenzionale come tempo interiore non meramente cronologico, e dunque di quel volersi all’indietro e in avanti capace di redimerci dal tempo nel tempo stesso, in divenire.

Vi è un aspetto dell’Âion che è quello di essere un tempo smisurato: ex âionos significa – come già ricordato – da che mondo è mondo. Qualcosa di talmente vasto e remoto da rendere incalcolabile se quest’attimo tornerà o meno, se sia già tornato e tra quanto tempo tornerà (o se il ritornare sia solo l’epifenomeno di una singolarità irripetibile). Qui siamo in un tempo qualitativo che solo l’istante può rivelare e lo può rivelare (a noi) solo se l’istante si fa atto.

2. La coscienza interna del tempo

Nella precedente parte, avevamo indicato che il senso ipociclico e iperciclico del tempo che infinitamente ritorna ha il senso della volontà di potenza (o volontà alla potenza), una volontà che nella forza finita del vivente abbraccia l’infinità del tempo per coglierla e accoglierla nel suo divenire continuo quale si è: il vivere come corso della vita che non facendosi decorso continua a correre facendo riverberare l’uguale: l’ecce homo, il destino di quel che siamo.

Ora, questa tenuta della forza (finita) sul tempo (infinito) appartiene proprio alla specie del vivente, a tutto ciò che si manifesta come vivente. Lì dove si scorge la vita, si intuisce anche la volontà di potenza che sorregge il tempo stesso di quel vivere che è corso e ricorso della vita: il gioco a somma zero che nella circolarità delle sue manifestazioni affiora nel ritornare sempre al suo inizio (che non è mai un vero inizio ma un cominciare di continuare).

Questo incrocio di forza e tempo produce in ogni caso (o riproduce) sempre un cortocircuito tra passato e futuro nel presente, vale a dire la curvatura – nata per contrasti – del tempo sulla volontà e della volontà sul tempo. Già il così volli che fossi è una curvatura evidente, un ripiegamento del volere su quello che sembrerebbe già essere e che quindi non avrebbe senso di volere (eppure, nel senso mostrato, affiora come decisivo). Volere l’impossibile – perché non si tratta di qualcosa di possibile – essendo già in atto – significa, come detto, vivere l’atto come se fosse potenza, come se lo si dovesse volere ancora, come se lo si volesse diventare di nuovo.

Ora la questione è complessa perché sotto-intende che il tempo sia già dato come totalità del divenire almeno una volta: vale a dire che il tempo sia già tutto in atto. La posizione di Nietzsche impone che la totalità del tempo – l’infinito passato e l’infinito futuro – debba precedere l’attimo od essere a questo coevo; impone che l’interezza tempo sia già nell’istante. Altrimenti come si potrebbe volersi al passato in quanto il passato si ripeterà come futuro? Sia futuro che passato devono in qualche modo essere presupposti al volere.

Il punto è spiegato lucidamente da Fink:

La nostra usuale comprensione del tempo ammette il tempo stesso, fondamentalmente, come incompiuto; poiché le cose sono ancora in corso, il tempo non è ancora finito, manca ancora in quanto futuro. Ma questa visione muta radicalmente, se ogni avvenimento immanente nel tempo viene inteso, per principio, come ripetizione. Allora il tempo come tutto o la totalità del tempo è pensabile; esso non è più un qualcosa di sospeso e incompiuto che il futuro deve portare a termine; esso è già tutto il futuro, poiché tutto ciò che è immanente nel tempo è· ripetizione, è superato e compreso dal tempo stesso10

E ancora, riferendosi alla posizione che già abbiamo visto affiorare in Eraclito:

Ora il tutto, che comprende e supera tutti i movimenti delle cose e lirrequieto mutare della loro lotta per il potere, non può costituirsi soltanto nel corso dei movimenti delle frontiere delle cose: deve precedere come totalità temporale il mutare immanente nel tempo. Ma come può una totalità temporale precedere un tratto di tempo?11

Il problema, sotto altri profili, era stato affrontato da Husserl nelle sue celebri Lezioni sulla coscienza del tempo interno del 190512. Husserl non affronta la circolarità del tempo propria del pensiero eracliteo, né mostra di aver indagato nella direzione indicata da Nietzsche. Segue un’altra strada, quella di tentare di costituire ciò che si manifesta come un’ovvietà, ma che, altrimenti, affiorerebbe come privo di senso in modo inspiegabile per noi: proprio come espresso da Agostino, non a caso citato all’inizio delle sue lezioni13. Eppure anche seguendo questa via – apparentemente distante, le lezioni sul tempo di Husserl arrivano a uno scacco pressoché irrisolvibile – a un punto-limite del pensiero, tanto che, come Agostino, arriva ad ammettere, nel concludere le sue lezioni: “per tutto ciò ci mancano le parole”.

Anche l’indagine di Husserl incappa, infatti, in una circolarità apparentemente viziosa, in cui l’intero flusso del tempo deve – in qualche modo – auto-apparire alla coscienza. Che significa tutto ciò?

Andiamo con ordine. Husserl inizia le sue lezioni analizzando gli oggetti temporali prendendo ad esempio (come aveva fatto già Brentano prima di lui) le note musicali che vibrano, come onde sonore e si legano le une alle altre così formando, ad esempio, una melodia. Nell’esperienza dell’ascolto, la coscienza intenzionale si dirige-verso le note che vibrano, trattenendo quelle appena passate («ritenzione») e protendendosi in avanti per anticipare quelle che verranno («protenzione») costituendo (tra sintesi passive ed attive) un unico presente, non scindibile: un presente allargato, continuo, vivente (lebendige Gegenwart) su cui scorre il flusso della coscienza, tesa e protesa verso – ad esempio – la sinfonia che va ascoltando.

Nella continuità temporale, l’«ora» – dunque – si allarga per via del raggio intenzionale della coscienza, a sua volta pro-esteso e retro-esteso dall’estensione dell’oggetto intenzionale che è, di nota in nota, la sinfonia che avanza; perché è chiaro che io per apprendere la sinfonia devo poter associare, ma in modo originario, la nota appena percepita e già scolorita, con quella che ora ne ha preso il posto e anticipare quella che sta iniziando a sorgere e vibrare e, oltretutto tenere insieme tutta la sequenza non al modo di un ricordo, bensì nel flusso vivente di un presente che solo così è presente. La ritenzione tiene – in tensione – ciò che si è appena manifestato e continua a vibrare, come una coda di cometa; la ritenzione (che Husserl definisce anche «ricordo primario») appresenta e presentifica ciò che altrimenti scorrerebbe via.

Ora è chiaro, però, che un tale approccio presuppone già il senso della successione, presuppone già l’operatività di Chrónos, giacché le note vanno via scolorendosi per far posto a delle note nuove.

Tuttavia, i momenti non sprofondano subito come se scomparissero (in un ora-non-più), ma vengono mantenuti vivi, per così dire, nel flusso – che, come detto, è un doppio fluire, quello dell’oggetto che si offre in manifestazione e quello della coscienza che si dirige verso di esso.

Si tratta in ogni caso di un accedere-continuo ad una continuità (quella del suono) che, pur non scomparendo, cede e retrocede14.

Dunque, sotto questo specifico punto di vista, si può dire che, quasi in senso micro-fisico, questo presente allargato riproduce il tempo lungo dell’Âion, giacché il gioco delle note è sospeso tra il muoversi del suono (e dei musicisti che lo conducono) e il muoversi dell’ascolto, dell’attenzione che tra «ritenzione» e «protenzione» tiene legate note che, altrimenti, andrebbero alla deriva. Vi è un doppio fluire, l’uno di fronte all’altro che stringe verso qualcosa che sembrerebbe inesteso (l’attimo, ovvero l’io trascendentale) il cominciare di continuare del vivere, nel flusso infinito della coscienza temporale. In questo senso, nel pensiero di Husserl sul flusso della coscienza è stato rinvenuto un tratto eracliteo15.

Il punto critico, però, è che la circolarità del tempo non affiora lungo le analisi sulla fenomenologia della coscienza interiore del tempo, se non nelle già accennate conclusioni – a dir poco aporetiche – a cui Husserl giunge. Infatti, se il tentativo di Husserl era quello di giungere ad una fenomenologia del tempo interiore e da quello costituire o ricostituire il tempo del mondo (Chrónos), ecco che in realtà si è ritrovato a dare per scontato alcuni tratti propri del tempo del mondo stesso.

L’intento di Husserl, infatti, era quello di mostrare il tempo come costituito dalla coscienza. Tuttavia, pur mettendo tra parentesi il tempo-del-mondo per favorire – in un gioco di chiaroscuri – l’emersione del tempo originario proprio della coscienza interna, si è visto costretto, a dare per presupposti alcuni caratteri comunemente considerati propri della temporalità comunemente intesa, primo tra tutti la successione nel senso di Chrónos (il carattere progressivo del tempo) e ad inserirli surrettiziamente nella struttura del tempo fenomenologico. E così ci si è trovati in una situazione (teoretica) in cui il tempo era sia costituito dal flusso di coscienza che precostituente rispetto ad esso, perché ne caratterizzava (ne disponeva) in qualche modo l’andamento progressivo (secondo un presente, un passato e un futuro).

Questo ancora comporterebbe però un regresso all’infinito perché il tempo del flusso della coscienza riporta al tratto di successione progressivo del tempo del mondo, ma il flusso della coscienza resta costitutivo del tempo fenomenologico del mondo in quanto si manifesta alla coscienza. Il fenomenologico costituisce il cronologico, ma il cronologico è implicato nel fenomenologico, come se l’epochè non avesse sospeso (e non potesse sospendere) realmente il tempo implicato nel mondo posto tra parentesi.

Questo, per Husserl, costituisce forse – come da lui stesso espressamente avvertito – il problema più importante dell’intera fenomenologia (l’articolazione tra il tempo della manifestazione e la manifestazione del tempo).

Ciò ha imposto a Husserl stesso, nel finale delle sue lezioni – il §36 – una serie di domande drammaticamente aporetiche che evidenziano questo cortocircuito, nel tentativo di recuperare il senso oggettivo del tempo, di farlo cioè coincidere con quello della coscienza interna, arrivando a dire – come accennato – che il flusso deve autoapparire alla coscienza: vale a dire la corrente dei vissuti intenzionali deve potersi manifestare essa stessa, alla coscienza assoluta, come «il tempo».

Tale anelito, tuttavia, fa affiorare la necessità che il tempo si manifesti come pre-costituente rispetto alla coscienza che lo va a costituire, e che, al contempo, tale pre-costitutività venga in qualche modo assunta (o ri-costituita) dalla coscienza stessa in quanto coscienza assoluta.

E così anche per Husserl si pone la questione di un tempo (nella sua totalità) prima del tempo. Ed anche Husserl, come Agostino e Nietzsche, arriva in un luogo dove le parole mancano; è la conclusione delle lezioni husserliane: l’ammissione che per sbrogliare il cortocircuito del tempo (in quanto vissuto – e dunque del tempo per il vivente) non abbiamo un linguaggio adeguato: «Per tutto ciò le parole ci mancano».

Anche per Nietzsche, dopo le comunicazioni della dottrina dell’eterno ritorno dell’uguale e il lancio della volontà di potenza quale unica conseguenza possibile di tale pensiero, mancarono le parole.

Husserl, pur avendo lanciato numerose premesse nelle sue riflessioni, non indaga però a pieno su una conseguenza assai rilevante delle sue analisi condotte successivamente alle Lezioni, specialmente a partire dal primo volume delle Idee, ma anche nei manoscritti inediti che poi hanno formato i tre volumi sull’intersoggettività. Il regresso all’infinito (logico) è il contraltare del progresso infinito (cronico) che è stato surrettiziamente assegnato al tempo. Vale a dire che la genesi fenomenologia del tempo, rimandando al tempo stesso implicato nel senso della genesi (come rivelò Derrida)16 svela una circolarità che è sì viziosa (lo stesso Nietzsche esclamò sul suo pensiero circulus vitiosus!) ma necessaria, vale a dire propria del senso del tempo.

Provo a spiegarmi meglio. Il succedersi e retrocedere delle note musicali sono, al tempo stesso, propri del succedersi e retrocedere dell’attività intenzionale – dell’attenzione (lì dove la durata della percezione e la percezione della durata si incrociano) – ma l’oggettività temporale – e senza che si possa accusare Husserl di idealismo (ammesso poi che l’idealismo costituisca un capo d’accusa) – dipende dall’attività intenzionale, nel senso proprio della pendenza (data dalla curva) della temporalità implicata e (anzi) sviluppata in essa. Vale a dire, è l’attività della coscienza a rivelare, svelare, manifestare la temporalità delle cose: il flusso della coscienza traduce (perché lo segue e, al contempo, lo conduce) il movimento delle note: è il flusso a rivelare il succedersi delle note, che potrebbe non essere affatto un succedersi, che potrebbe anche essere interrotto di colpo, che potrebbe essere sovrapposto da altre linee del cogito, l’immaginare, il ripensare, un ricordo affiorante o la visione della nuca di un ascoltatore qui di fronte mentre si ascolta il concerto. Tali fluttuazioni dell’attività intenzionale (e della morfologia del cogito rispetto al cogitatum e alle cogitationes), non sono puramente psicologiche, ma hanno un parallelo trascendentale, possiedono una forza costitutiva in senso fenomenologico, laddove ogni oggetto intenzionale è implicato e co-implicato, nel suo rimandare, nel suo associarsi e dissociarsi, ad altri oggetti intenzionali, giacché vi è una continuità che è più originaria di quella dello spazio: ed è appunto quella del tempo – così come l’abbiamo delineata – che solo la coscienza può far emergere17.

In termini fenomenologici, il nostro farci istante, significa assumere la continuità del tempo come atto. Questo atto è un cominciare di continuare, vale a dire, un esporre o un esplicitare la circolarità (la continuità che è infinita del cerchio che pur è finito) come fenomeno delle cose che si manifestano. Detto ancora altrimenti, l’atto intenzionale stesso è un microcircolo in cui, ogni volta di nuovo, la noesis si dirige verso qualcosa e il noema si associa all’atto esibendo così la doppia curva (logica, fenomenologia, cronologica) del tempo. Il cerchio ogni volta è interrotto ma continua come un vortice che è proprio del vivere (tanto dell’Erleben e della Welterfahrendesleben che del Lebenswelt). Se Husserl avesse preso ad esempio non l’oggetto temporale, non la nota, ma un oggetto qualsiasi, avrebbe forse mostrato che la contiguità dello spazio è per così dire precostituita dalla continuità del tempo proprio a partire dalla coscienza del tempo interno18. Husserl, del resto, aveva già distinto nelle sue Lezioni l’«uno-dopo-l’altro (Nacheinander)» della coscienza, dal tempo dalla «successione (Zeitfolge)» – termine che riserva agli oggetti temporali19. Ma è proprio il Nacheindander a condurre il farsi e disfarsi del corso del tempo di cui la successione è solo un correlato possibile.

Quello che affiora come spazio, come contiguità dello spazio, dove una cosa mi appare accanto all’altra (o dietro, sotto, sopra l’altra), può manifestarsi in realtà come struttura temporale. Si tratta, come ho mostrato altrove, di rinvenire il senso tempo-spaziale anziché spazio-temporale (del manifestarsi stesso). Giacché la coscienza interna del tempo è proprio il flusso che, ogni volta di nuovo, dispone (e scioglie) lo spazio in tempo, lì dove il futuro e il passato premono nella circolarità di ciò che si manifesta – in istante – come vivente.

2. Interludio: una passeggiata nel parco

Appare utile, a questo punto, fare un esempio, lasciare che la descrizione fenomenologica – come a volte Sartre ha tentato di suggerire specie nella prima fase della sua meditazione – lasci riverberare quello che, altrimenti, la spiegazione concettuale rischierebbe di disperdere.

Mettiamo che io mi ritrovi, casualmente, a passeggiare per Roma (e il luogo è già privilegiato, perché contiene nella sua architettura disomogenea tempi lontanissimi) ad esempio, dentro Villa Celimontana. Percorro il viale in cui noto una fontana che però è vuota, senz’acqua. Davanti a me ci sono alberi; più in là, una panchina vuota su cui potrei sedermi. Accanto, c’è un capitello in stile corinzio abbandonato nel prato; più in là delle cartacce, residui di una festa per bambini; una lattina di birra. Oltre c’è una chiesa, un rudere romano, infine, la catapecchia di un custode.

Ogni cosa che incontro nello spazio costituisce in realtà un ritmo del tempo. Il mio sguardo si ferma ora su quest’albero dal tronco storto. Tra me e l’albero non vi è solo una distanza, vi è una pausa: quella che, ad esempio, potrei rompere dirigendomi verso il suo tronco fino a toccarlo. Il sopra, il sotto, l’accanto sono tutte determinazioni che possono essere, non solo ri-ordinate in senso temporale (con il dopo, il prima, il simultaneo e ciò a partire da quel “punto-zero dell’orientamento” che è il mio stesso corpo vivente, dal mio Leib20) ma che rivelano – esse stesse – in sé qualcosa temporale. Esse non sono solo nel tempo, ma sono secondo il tempo e – ancor più radicalmente – sono, esse stesse, tempo (vale a dire divenienti che diventano congiuntamente al mio divenire: dunque punti di snodo della temporalità fluente).

Ogni oggetto che mi si presenta davanti (in quanto gettato-contro) – Gegen-stand, ob-jectum – è presente (gegenwärtig) in quanto è ora di fronte a me, è passato in quanto è già lì – lo era già prima, mi precede – ed è futuro perché di fatto non l’ho ancora raggiunto, essendomi davanti sulla strada impervia della mia prospettiva.

Ogni cosa rappresenta, un momento inconciliabile del tempo che non può essere sciolto nella contiguità dello spazio21. L’albero non è la panchina, così come il capitello romano rivendica la sua identità (che è un’identità temporale) e così un ramo che ora oscilla al vento improvviso davanti a me.

Lo spazio si rivela dunque innanzitutto come compresenza di cose diverse e divergenti; ognuna ha distinta provenienza, diverso destino, segna una traccia diversa del divenire. Così la fontana che un tempo era piena e che forse verrà riempita di nuovo, ma ora giace, vuota, senz’acqua, priva di ogni senso. E così le rovine, che stanno lì ad indicare che un tempo – altro – vi è pur stato; ma anche la panchina su cui altri si son seduti e che ora è libera. E questi prati su cui sono transitati e transiteranno altri – e altri ancora.

Ogni cosa è un vortice che conduce a un tempo diverso, già a partire dalla sua storicità interna; e non solo perché c’è una dilatazione di più di duemila anni dal rudere romano, alla lattina da poco abbandonata sul prato o al mio corpo che, stanco, si siede sulla panchina. Ancor di più, perché ognuna è un tempo proprio per la sua contingenza, per il suo casuale trovarsi lì, ora (esattamente come il ragno sul muro che notava Nietzsche) che non comunica con la casualità (la fatalità) delle altre cose. Ma soprattutto perché ogni caso – è un caso a parte – che altrettanto casualmente – è tenuto insieme dall’attività – dall’attenzione – della mia coscienza intenzionale. Vi è un incrocio di contingenze (e di necessità in quanto ogni oggetto forma una resistenza e un limite), in cui il mio stesso divenire si rivela come divenire incrociato – incrocio tra divenienti – lungo un corso di vita ampio e singolare.

Dal punto di vista temporale: ogni distanza è, dunque, solo un dilatarsi del tempo (un differire di tempi e un differirsi del tempo stesso). Ogni figura spaziale è un tempo racchiuso, è una durata; che si regge per una simultaneità di linee; per una simultaneità di punti dissolti nella loro sequenza e nella loro consequenzialità. Così, il futuro è ciò che non tocco e che non vedo in tutta la sua tridimensionalità: cosa c’è dietro a quella casa? La casa mi rimanda a ciò che sta dietro di essa, ma che non conosco. Ho la possibilità di aggirare le facciate e di vedere; ho la possibilità di sorpassare questa ipotesi di atto: questa è una possibilità problematica e disgiuntiva; in ogni caso, lì dietro, qualcosa c’è necessariamente: la tridimensionalità dello spazio continua: ma è l’atto, e la cosa in esso implicata, a costituire la quarta dimensione che orienta o libera le altre tre. L’atto è infatti uno sforzo su questa determinabilità: scioglie lo spazio nel tempo e così lo verifica in modi sempre nuovi. E così potrei decidere di non aggirare la casa, nel linguaggio di Husserl di appresentare il lato che non vedo (di renderlo presente pur nella sua assenza), allo stesso modo in cui la protenzione anticipava le note musicali, ma potrei anche distogliere (dissociare l’attività e dunque la continuità della mia attenzione) e gettare ora il mio sguardo su questo stagno oscuro, posto al lato del percorso, in cui, a tratti, si scorgono dei pesci rossi nuotare.

Ora: che cosa è presente? Cosa è futuro? E il passato?

Qui non abbiamo sinfonie da seguire. Qui c’è un nostro aggirarci, lungo cui prende forma – si costituisce – il tempo della coscienza interna: non è un tempo lineare, né presuppone od impone un progresso. Non vi è vale a dire una sequenza o una conseguenza necessaria dove un oggetto consegue ad un altro. E ciò perché sono gli atti – o i vissuti intenzionali – a segnare la direzione continuamente interrotta o ripresa del tempo. Questo significa che non vi è l’«ora» a cui segue un altro «ora», bensì la «coscienza di ora» (con il noema implicato dentro) a cui segue una nuova «coscienza di ora». Tra l’«ora» e la «coscienza di ora» vi è un salto (oltre che una potenziale aporia22) che è quello proprio affrontato dalla potenza che la volontà assume su di sé.

Le cose ridotte a noema, a correlati dei miei atti intenzionali, scorrono non come movimento proprio, bensì in un flusso – quello dei miei vissuti – che non ha una concatenazione causale (e su questo va ricordata la distinzione di Husserl tra Kausalität e Motivation23) e che ogni volta si accende e si spegne nella misura di ciò che ha di mira: quest’albero di cui sto toccando la corteccia, la panchina su cui siedo, la porta della chiesa che guardo chiedendomi in che epoca la chiesa sia stata costruita, un vecchio che passa davanti a me: sono correlati di mondo che si offrono in manifestazione. Essi duellano con ricordi, pensieri, fantasie, di nuovo altre percezioni, appercezioni nelle quali io stesso sono oggetto di percezione nel mentre vado a percepire questo sentiero un poco dissestato, e così via24.

Possono apparire notazioni meramente psicologiche; ma vi è un chiaro parallelo fenomenologico-trascendentale.

Qui lo spazio è áspetos: è come se fossimo sul lido remoto del mare; i gerundi e i participi del gioco che si distende (il paìs paizòn pesséuon) sono qui declinati a partire da ciò che del flusso è elemento agile e non ulteriormente riducibile (oltre che non deducibile) da quella intenzionalità prima dell’intenzionalità (l’intenzionalità fungente di cui parla Husserl, il «mondo-della-vita» precategoriale o la «vita-che-esperisce-il-mondo»: Welterfahrende Leben25) o da quella volontà prima del volere (volontà della potenza)26 che è tempo che corre, scorre, come corso della vita, il divenire che si apprende come divenire dal diveniente stesso che – ogni volta – è l’io e la cosa avvinti in un atto: il bambino e la mossa del gioco che tramonta per formare e per toglier via quel che è il senso del gioco.

Ora: il vecchio si è fermato, si vede che è stanco. Più oltre due bimbi corrono, la madre gli grida dietro qualcosa. Il capitello è lì pesante e nessuno lo guarda. Basta girarsi: e il sentiero, con i chiaro-scuri del pomeriggio, mostra che si va verso sera. È ora di uscire? Di restare?

Questo campo temporale in cui lo spazio sembra quasi scivolar dentro per sublimare (quasi come unico compito) pezzi del gioco – potrebbe esser chiamato un presente allargato, quello che, Whitehead descriverebbe come “la frangia vivida della memoria colorata di anticipazione”, vale a dire una “vivacità” che “illumina il campo determinato nell’interno di una durata”, lì dove però – appunto – una durata entra nell’altra (la durata del capitello, quella del vecchio, della chiesa, della cartaccia e del bambino) per far riverberare il durare stesso: e così “il passato e il futuro si confondono nel mal definito presente27. Qui il tempo, nel senso di Husserl, è proprio Urform der Kompräsenz, o, ancora, Urgeseztz der Mitmöglichkeit28: la forma originaria della compresenza, delle possibilità che si danno (necessariamente) insieme o del compossibile: ciò che tiene unite, che lega le une alle altre le possibilità future a quelle passate, premendo su questo istante – a sua volta solo possibile – che dilegua via. Eppure questo è reale, è anzi l’unica realtà o la realtà originaria da cui ogni altra prende via – per associazione e dissociazione continua. È la simultaneità del di-verso che è – al tempo stesso – il differire (e diffrangersi) dell’uno. Ciò che è in quiete è la risultante di divergenti che premono – per tenere insieme (nel senso anche del légein) – lo spazio per una visione29 (come vedremo nella contemplazione). Ciò che scorre è moltiplicazione (propria ed impropria) dell’uno, della vita che si fa (e si disfa) continuamente come corso. Qui davvero Chrónos si rivela come il riflesso – o il figlio – di Âion.

In questo temporalizzarsi delle durate l’una nell’altra, dei corsi di vita che confluiscono e defluiscono nel grande gioco dell’Âion, non ci sono, propriamente, l’io e la cosa (né in quanto essenti, né in quanto trascendenti – vista la riduzione operata dall’epoché), c’è solo il vissuto che, ravvicinandoli, li temporalizza, vale a dire, li fa cadere in un unico destino: l’Io e la cosa tramontano insieme.

Ma questo significa che ogni momento (ogni ora che viene tolta nel senso di Chrónos per far posto alla successiva) è in sé un tramontare, vale a dire nasconde in sé un micro-circolo Âionico, ha in sé le curvature di qualcosa che ritorna eternamente, così come la categoria husserliana dell’immer-wieder, dell’ogni-volta-di nuovo, suggerisce. Ogni atto inizia e finisce, sorge e tramonta, come fosse un giorno (l’hêmàr in senso omerico già richiamato30) e la sua morfologia ha la struttura di un cerchio su cui passato e futuro insistono, nell’istante. L’atto prende, apprende, come sforzo il destino che si compie e nel farlo modifica – con una curvatura tempo-spaziale dovuta dalla gravità dell’atto stesso – l’orizzonte degli eventi. Che l’io e la cosa tramontino insieme – ogni volta – nell’atto, significa, sotto il piano fenomenologico, che l’io e la cosa cadono – trascendentalmente ridotti in noesis e noema – insieme non nel tempo ma come tempo: come quel tempo, il tempo di una vita, di cui ogni vissuto è traccia.

Questo significa però che l’irripetibilità è data dal fatto che il ritorno dell’uguale non è ripetizione del medesimo. Tornare infinite volte significa che una o infinite volte è lo stesso (è uguale, appunto): l’atto si mantiene, comunque, nella sua singolarità immer wieder. Ma i versi contrari (il tempo come contro-verso) del passato e del futuro non evitano che, per il finito, tutto sia irreversibile. Il ritorno di cui parla Nietzsche presuppone anzi proprio l’irreversibilità. Il tornare è, infatti, un percorrere l’altro verso dell’infinito, nel volersi di nuovo – e dunque una volontà controcorrente – ma ciò non equivale a rendere reversibile ciò che si è vissuto. Al contrario, proprio perché quel che si è vissuto resta – e resta indelebile nell’eternità – lo si deve poter volere. Altrimenti la dottrina dell’eterno ritorno sarebbe solo un ritornello e la volontà di potenza sarebbe nient’altro che la capacità di rivivere a piacimento indefinite volte la stessa cosa, quasi un poter consumare – in modo illimitato – i vissuti come prodotti replicabili. Se l’istante non fosse irripetibile, non lo potremmo voler ripetere. Se non fosse però ripetibile come lo stesso identico istante (come l’uguale), noi, allo stesso modo, non potremmo volerlo (giacché per volerlo dovrebbe essere individuato) nella sua irripetibilità. Ecco che l’identità del tempo non può essere una identità logica31.

Qui, ancora, incide la nozione di peso: togliere il peso – ed il pensiero più pesante – non elimina la gravità implicita che vi è nel vivere: il voler vivere di nuovo, fa lievitare il più pesante, ma non cancella il peso che qualifica il verso stesso del passato e del futuro e che, pur circolando tra versi contrari, porta a scorrere, l’una nell’altra, le vie del tempo per mostrare che l’istante è sempre diverso (e, solo per ciò, può tornare).

Il punto è rilevante e vi torneremo nel finale della nostra meditazione. Nel riprendere l’esempio della passeggiata, dobbiamo qui ancora ribadire che su questi prati, per questi sentieri, per questi stessi luoghi, sono passati altri e altri ancora passeranno: sono altri di altri tempi e lo sarebbero perfino se fossero qui, davanti a me, con il loro flusso di vita estraneo – latente e trascendente rispetto al mio – per quanto, sotto il profilo dell’empatia, possa rivelarsi analogo e svelare, dunque, lo stesso territorio originario (il flusso del tempo originario iletico e fungente) da cui proveniamo, la comunità originaria che precede ogni individuazione possibile, il Vor-Ich e l’Ur-Ich, vale a dire io stesso – come l’altro – come trascendenza32.

Ci sono i nostri predecessori e quelli che ci succederanno che con i loro cerchi di vita corrono e soccorrono al mio passare. Ogni elemento è traccia di alterità e l’alterità conduce al tempo, anzi al tempo dei tempi (giacché ogni cerchio è intrecciato ad altri cerchi o vi è contenuto), all’elemento non disponibile del divenire, al punto che l’alterazione del tempo è la mia stessa alterazione.

Il bambino gioca, ogni volta di nuovo, smarrisce l’inizio. Egli muove i pezzi del mondo trovandoli già indisordine, in un determinato disordine, su una scacchiera che stenta a riconoscere: ciò che ritorna, ritorna sempre in un punto diverso. Il punto diverso è un diverso varco stretto tra le epoche, un diverso modo di cadere ora. Allora le due vie curve non sono indifferenti: il regressus all’infinito non è progressus all’infinito; sia perché il procedere è un succedere, sia in quanto l’infinito si rivela solo come l’illimitato gioco del finito. E ciò che appare infinito è l’insistere di tempi finiti (di altri e altri ancora) sull’eterno scorrere del tempo – del passato e del futuro.

Ecco che il verso – che la stessa intenzionalità presuppone nel suo concretarsi come un dirigersi-verso – trova la sua reversibilità (la possibilità di essere contraddetto) solo con il verso contrario (passato contro futuro), ma ogni istante è, in sé, in questo scontro di flussi, proprio nel suo farsi atto, vissuto: irreversibile.

Ancora: solo ciò che, pur essendo controverso, ha un verso (in quanto il dirigersi-verso lo trascina via33) può essere non-reversibile (e non è dunque un semplice e passivo passar via). Ma solo ciò che è irreversibile può tornare. Ed è questo poter-tornare, questa potenza, ad essere oggetto – unico e infinito – della volontà che vuole vivere infinite volte quel che si è vissuto e rivivrà. Il reversibile dell’irreversibile, come è stato notato sotto altri aspetti, è rivoluzione, rimettere in piedi ciò che altrimenti rimarrebbe astratto, cioè perduto34.

  1. L’Âion nel vissuto del tempo

Ora, gli spunti appena accennati devono essere ulteriormente approfonditi lungo il senso della nostra ricerca. Husserl non arriva a delineare espressamente il rapporto tra la costituzione del Chrónos – dunque l’assunzione della necessità della successione come atto intenzionale (libero) – e l’aspetto dell’Âion che invece è indisponibile ad essere costituito e che affiora come l’origine – sempre traslata – del tempo (precostituivo rispetto al flusso).

Il flusso della coscienza, in altre parole è un flusso che segue e, allo stesso, tempo è un deflusso dato dallo scontro di presente e passato che, ogni volta di nuovo, sottende ogni vissuto.

Il di-verso (passato e futuro che si scontrano) sotto-intende – il dirigersi-verso. Il dirigersi-verso, infatti, presuppone il verso (e che un verso ci sia). E tuttavia il verso è conteso dalle forze che lo premono sulla parete limite dell’istante, piegandosi nei due versi (nel diverso in sé) che conformano la circolarità infinita del tempo all’interno del finito vivente. Il verso è dunque, come detto, contro-verso, è plurale (multi-verso), cioè non è uni-versale35 – e ciò qualifica la non applicabilità della logica formale al tempo. E dunque pregiudica la possibilità di dire cosa è il tempo, ma – semmai – di intuire come (e in che senso) noi lo siamo (al punto che il nostro essere sia primariamente un divenire).

Husserl, in altre parole, intravede – ma poi non delinea chiaramente – che il presente vivente, il presente allargato della coscienza, è in realtà epifenomeno dell’intera vita che scorre in sé stessa: la quale è quella totalità del flusso che deve in qualche modo poter auto-apparire alla coscienza trascendentale assoluta evocata nel finale delle sue lezioni.

Ma la coscienza è trascendentale ed assoluta, propriamente, solo se trascende il flusso immanente (il livello della successione dei vissuti) e al contempo non si lascia sciogliere dall’eterno ritorno dell’uguale, vale a dire, dall’indifferenza di ciò che va e ciò che torna: dall’indifferenza dei versi (del verso passato e del verso futuro). E come fa non sciogliersi? Solo se mantiene – ritiene – l’irreversibilità del suo cadere? Del suo cedere e tramontare? Solo se si pone come assoluta e finita allo stesso tempo?

Se effettivamente mancano i nomi per descrivere il punto, bisognerebbe aggiungere che la coscienza è trascendentale (solo) in senso temporale: nel senso però, proprio, dell’Âion36. Se infatti si assume l’Âion come quel tempo precostituente rispetto al flusso immanente, allora ciò che viene costituito dalla coscienza interna del tempo è il senso di Chrónos, ma in quanto vi è la precostitutività di Âion, in cui il livello trascendentale è implicato.

La trascendentalità è – vale a dire – il livello che consente di porre l’epochè, di mettere tra parentesi il mondo, di sospendere la sua validità. E allo stesso tempo di abbracciarlo come l’unico mondo possibile per noi – il mondo apparente di cui parlava Nietzsche rispetto al quale non esiste alcun altro mondo vero nascosto. Il mondo però va riassunto daccapo, dall’inizio del suo senso possibile – dal capo (che non è capo) – del flusso vivente, come appunto il-mondo-che-è-la-vita, mondo-della-vita, (Lebenswelt). La trascendentalità allora indica la temporalità originaria (costituente sé stessa) evocata da Husserl.

Ma, allora, si può dire che l’epoché ha davvero avuto l’effetto di mettere fuori gioco il tempo del mondo per far risuonare, così, il gioco dell’Âion, che – pur precostituente o proprio perché precostituente – risuona (con i suoi dadi e le sue pedine) nel (trascendentale) «vivere-il-tempo» come il «tempo» stesso37.

Non è un caso che Husserl, già nel § 39 delle Lezioni sul tempo, tentò di immettere una seconda nozione di intenzionalità rispetto alla intenzionalità trasversale (che unisce la coscienza all’oggetto temporale, ad esempio, alla nota musicale): l’intenzionalità longitudinale che in sostanza, lega non gli oggetti temporali (il vibrare delle note nel loro seguirsi e susseguirsi), ma l’attività intenzionale lungo cui (longitudinalmente appunto) si svolgono (e sciolgono) le fasi di apparizione di tali oggetti. L’intenzionalità longitudinale – pur intrecciandosi dunque inscindibilmente a quella trasversale – si differenzia per il fatto che la coscienza si rivolge dunque non tanto all’oggetto in sé ma all’oggetto in quanto è apparso in continuità alla coscienza (privilegiando, dunque, la «coscienza di ora» all’«ora» stesso). Per tale motivo, essa, dice Husserl, è una “ritenzione continua delle fasi che sono state, via via, precedenti ed è ritenzione continua del flusso (delle apparizioni dell’oggetto)”38.

Come è stato notato da molti interpreti, però, l’intenzionalità longitudinale pur costituendo il flusso, a sua volta, non è costitutiva del tempo che, nel flusso stesso è presupposto. Ma ciò solo se si pensa che la precostitutività del tempo sia quella di Chrónos rispetto alla costituzione stessa sempre di Chrónos.

Essa, come detto, tenta di costituite la continuità del flusso stesso – dunque il carattere eminentemente temporale, proprio di Âion, all’interno della successione di Chrónos.

Tuttavia per Husserl tale continuità si attesta come continuità delle ritenzioni e dunque essa è il continuo sprofondare della linea del presente (ancora Chrónos), pur essendo questo sprofondare uno sprofondare di atti.

Non vi è, in altre parole, come nell’esempio della passeggiata – una continuità di vissuti che costituiscono – di volta in volta – la continuità stessa in sé. In quell’esempio, emerge – proprio nel senso aionico – che ciò che viene (trascendentalmente) costituito è proprio la continuità del costituire stesso e, allo stesso tempo, del fluire: si tratta della continuità del divenire in quanto divenire dell’io e della cosa insieme – proprio in virtù della circolarità che accomuna mondo e vita: il «corso della vita» in quanto è anche corso del mondo che si costituisce e ricostituisce per noi e il «corso del mondo» in quanto è, primariamente, a sua volta, mondo-della-vita (Lebenswelt).

La domanda che vibra, a questo stadio della riflessione, è però ancora questa: con quali atti (in senso morfologico) la coscienza costituisce il tempo (pre-costituente) della coscienza stessa? Ovvero, in senso anche passivo, in quali vissuti essa è costituita dal tempo (in quanto essa lo vive – però – ogni volta, per la prima volta)? In che modo il flusso appare a se stesso in atto? In che modo, in ordine a quanto abbiamo detto, i tempi che sbattono, nell’istante, contro l’atto, lo vanno a deformare fino a fargli assumere forme differenti (il ricordo, ad esempio, l’attenzione, l’aspettativa)?

Il punto critico è, primariamente, nei confronti del passato, in quanto è quello che racchiude la storicità interna dell’io, nonché del futuro che vi è implicato come destino.

Husserl compie due operazioni: l’una è quella di tentare una morfologia degli atti di coscienza intesi a costituire e ri-costituire il passato (e, attraverso di esso, il senso del tempo nella sua interezza): ritenzione, memoria, ricordo e rimemorazione39.

L’altra operazione è – non a caso – sul piano dell’etica: dopo aver delineato, in un primo tempo della sua riflessione, un’etica dei valori, vira, negli anni ’20, come messo in rilievo anche da Orth, principalmente sulla nozione di Erneuerung (di rinnovamento) intesa quale Urstrebung (tensione originaria o sforzo dell’origine) che sorge ogni-volta-di-nuovo (immer-wieder). In questo contesto, affiorano sia la nozione di Horizontintentionalität, di intenzionalità che ha di mira l’intero orizzonte (inteso anche come Erfahrungswelthorizont)40 che la già accennata nozione di Lebenswelt, come quel corso-unitario tanto della vita che del mondo, che deve, incessantemente, essere uno, il mondo-vivo-per-ciascuno prima di ogni categoria e determinazione possibile – non riducibile attraverso l’epochè: questa è la sfera su cui ripensare la pre-minenza e la pre-categorialità dell’Âion nell’orientarsi stesso della coscienza intenzionale come flusso dei vissuti.

In questo senso, come già accennato prima, il Lebenswelt – esprimendo quale mondo-vita o mondo-che-è-vita, la coincidenza già discussa in Eraclito tra corso della vita e corso del mondo, si trova intimamente connesso (quasi in un rapporto tra il bambino-che-gioca dell’Âion e la mossa del gioco) con il “presente vivente”, con il lebedinge Gegenwart.

Il fatto che il fulcro etico – se vogliamo: la dimora stessa dell’uomo – sia per Husserl lo sforzo di rinnovamento ogni volta di nuovo, significa che essa ha la struttura del tempo, è una qualità trascendentale del flusso, che è, in altre parole, una tensione originaria del divenire, in quanto diveniente verso un telos41 (in cui l’io si attesta come un continuo diveniente-esser-divenuto, un werdend-gewordensein42) che è origine: l’origine che è telos ovvero il telos in quanto origine, come insiste di delineare Husserl nel finale della sua meditazione, specialmente nella Krisis.

Che il telos sia l’origine e che l’origine venga assunto come telos, significa che il tempo – il divenire – sia appercepito come circolare e che la circolarità non sia, per così dire, viziosa, in quanto, come direbbe Nietzsche, essa non va ridotta a cortocircuito logico, ma va assimilata nel vivere attivo, nell’Erleben che, ogni volta di nuovo, si snoda lungo gli Erlebnisse. L’Âion ha così un ritorno – se così possiamo dire – sulla costituzione di Chrónos e va a completare con il concetto di rinnovamento continuo (quasi di rivoluzione permanente) l’agilità originaria del bambino che gioca il gioco più grande, quello di una vita intera, il cui senso non ha inizio né fine, né è consegnabile ad un sistema di condizioni e conseguenze, collocandosi in quel difficile bilico tra una necessità (che è necessità della casualità, del fato, di ciò che preme e opprime) e una libertà (che è libertà di volersi nel destino, vale a dire nel passato che torna a ripetersi sempre).

Allora, se si uniscono le Lezioni sul tempo alle ultime riflessioni degli anni ’30 (del ’35 è la Krisis), è possibile intravedere che la questione teoretica della costituzione del tempo interiore si è completata con una visione teoretico-pratica, dove l’atto è al tempo stesso percettivo, appercettivo, valutativo, affettivo, riflessivo e, infine, empatico.

Il concetto di Selbsverantvortlichkeit, di auto-rispondenza o di responsabilità di sé o del sé, ha il significato allora, di un rispondere (anche qui di un ritorno) e di un volersi rispondente ritornante all’indietro e in avanti. Ma sono le teorizzazioni di Husserl sulla intersoggettività costituente che hanno lasciato intravedere un nuovo livello della costituzione e dunque anche della costituzione del tempo per noi43. Husserl infatti ricollega la questione del tempo all’alterità (partendo, come vedremo, dall’esperienza del passato) nella rotazione delle prospettive che è anche una rotazione di tempi nell’ Einfühlung (nell’Empatia) prefigurando così un tempo intersoggettivo, in cui l’essere si rivela solo “una sfera della ricostruzione continua”44.

Non vi è qui il modo di sviluppare tali passaggi che ho trattato altrove45. Ci limitiamo a dire che se il “flusso che deve auto-apparire” la circolarità assume maggior forza con la rotazione delle prospettive tra l’io e l’altro (sul perno dell’Analogia trascendentale che accomunandoli originariamente assieme in modo appaiato, consente la rotazione stessa), dunque il rispecchiamento46 e l’empatia e che vi è dunque un nesso profondo tra l’alterità e la temporalità, così come anche – diversamente – Lévinas aveva indicato47.

Qui restiamo ancora alla dimensione del vissuto e al suo rapporto con il tempo circolare che vibra in esso: lì proprio nel nesso tra l’io e la cosa ridotti e tradotti l’un l’altro a quel vissuto (irripetibile) che deve esser voluto – per tornare sempre.

Dobbiamo ora infatti analizzare il cortocircuito concreto del tempo, come tempo vissuto. Lo faremo indagando su quelle esperienze che maggiormente mettono in risalto il contrasto, facendo vibrare ciò che sembrerebbe logico (o crono-logico) come patologico.

1 Il termine andrebbe mantenuto in tedesco – al costo di appesantire però l’articolazione del discorso – in quanto non vi è una traduzione soddisfacente in italiano che renda l’essere attuale del vivere-attivo (non del Leben, ma dell’Erleben), La traduzione di “vissuto” tradisce infatti la derivazione dal participio passato e dunque non contribuisce a mettere in risalto il tratto vivente (connesso al “lebendige Gegenwart”, al presente vivente) o di “vivacità in atto” o, per riprendere qui le proporzioni in cui utilizza il termine Dilthey, di connessione di vita irripetibile o nesso vivente entro la trama di una vita che si iscrive nella più vasta storicità (anche nel senso della biografia) in cui la stessa esperienza vissuta è un contenuto empatico che rinvia all’esperienza vissuta da altri: cfr. E. Husserl, Cart. Med, cit., p. 148ss..

2 Per la nozione di epoché, ci riferiamo soprattutto al primo volume delle Idee del 1911: E. Husserl, Ideen zu einer reinen Phänomenologie und Phänomenologischen Philosophie. Erste Buch: Allgemeine einfuehrung in die reine Phänomenologie, Hua III, Den Haag 1950, nella sua traduzione italiana: Idee per una fenomenologia pura e una filosofia fenomenologica, Einaudi, Torino 1982.

3 L’io che ha posto il mondo tra parentesi non è un io pieno, non è un io essente, non è una sostanza o un sostrato, non sussiste in sé, ma è un io trascendentale: la sua trascendentalità sta nel fatto di venir prima (sia come Vor-Ich che in quanto Ur-Ich) e così di poter dubitare – nel senso quasi-cartesiano – dell’esistenza del mondo: un cogito lo chiamerà non a caso Husserl nelle sue Meditazioni Cartesiane. L’obiettivo di Husserl però non è quello di negare che un mondo vi sia, ma al contrario, quello di poter costituire di nuovo il mondo stesso nell’emersione – e nell’emergenza – di ciò che, di volta in volta, affiora davanti a me in carne ed ossa, offrendosi in manifestazione. Questa è la riduzione fenomenologica che toglie di mezzo il mondo per trovare un terreno nuovo, senza pregiudizi, da cui ricominciare e così recuperare il mondo stesso nella sua essenza propria fenomenologica.

4 Così come – come Husserl delinea specie nelle sue Meditazioni Cartesiane – il cogito non è in sé (non è res cogitans) ma è un cogito cogitatum qua cogitatum (un esser cosciente di qualcosa di cui si è cosciente in quanto pensato, appreso, percepito, sognato, immaginato, nelle variazioni possibili delle mie cogitationes).

5 J.-P. Sartre, Une idée fondamentale de la phénomenologie de Husserl: l’intentionalité, Gallimard, Paris 1938, p. 33.

6 T.W. Adorno, Zur Metakritik der Erkenntnistheorie. Studien über Husserl und die Phänomenologischen Antinomien, in Gesammelte Schriften, Band V, Frankfurt am Main 1970, p. 165. In esso si svolge la tensione verso la trascendenza intesa come “unità intenzionale del molteplice”. Scrive ancora Husserl: “(…) molteplicità le quali cadono (hineinfallen) interamente nella coscienza, e sebbene le unità stesse non siano vissuti di coscienza, esse appartengono alle molteplicità immanenti e così sono solo unità di senso (Sinneseinheiten) con una regola di validità razionale” (E. Husserl, Zur Phänomenologie der Intersubjektvität., vol. II, p. 8). Tale trascendenza è innanzitutto l’idea del mondo come uno del quale la percezione di ogni singola cosa accenna a riferire. Il mondo come correlato di coscienza non è una semplice obiettivazione soggettiva, ma una forte struttura di singolarità e di rinvio. Si legge ancora in Husserl: “così, ogni Oggettivo, che mi sta davanti agli occhi in un’esperienza, e inizialmente in una percezione, ha un orizzonte appercettivo di una possibile esperienza mia o estranea. Ontologicamente parlando, ogni apparizione che io ho è (…) membro di un aperto infinito non esplicitamente realizzato (…)” (E. Husserl, Zur Zur Phänomenologie der Intersubjektvität, Texte aus dem Nachlass: Zweiter Teil: 1921-1928, Hua XIV, Den Haag 1973, p. 289). Cfr. D. Zahavi, Husserl und die transzenden- tale Intersubjektivität, Boston-Dordrecht 1995, p. 39. Cfr. E. Husserl, Zur Phänomenologie der Intersubjektvität, Texte aus dem Nachlass: Dritter Teil: 1929-1935, Hua XV, Den Haag 1973, p. 45.

7 La «datità» – dunque – non è un dato (come nell’atteggiamento naturalistico), cioè un esser-già-dato, ma è una tensione tenuta, mantenuta e trattenuta lungo l’attività intenzionale, in quanto in essa, lungo le sue stratificazioni, si sedimenta la hyle intenzionale (la materia intenzionale) di cui l’atto è forma (morphé).

8 Cfr. E. Husserl, Briefwechsel vol. IV, Den Haag 1993, p. 137.

9 Non vi è però un puro idealismo della percezione (non si arriva, nel senso di Berkley, ad un esse est percipi); la fenomenologia è – se si può così dire – un idealismo realista, nel senso che le cose manifestandosi in carne ed ossa offrono in visione la propria essenza (eidos), la quale però non è una realtà, bensì una possibilità (rispetto all’intenzionalità che deve intuirla), che offre – nelle parole di Husserl – un filo conduttore trascendentale verso la costituzione e ricostituzione della realtà, di una realtà altrimenti perduta.

10 E. Fink, Filosofia di Nietzsche, cit., p. 89.

11 Ivi, p. 88.

12 Ci riferiamo alle lezioni racchiuse nel volume E. Husserl, Zur Vorlesungen über Phänomenologie des inneren Zeitbewusstseins, in Husserliana V, Nijhoff, Le Haag 1928, p.83ss., trad. It., Lezioni sulla fenomenologia della coscienza interna del tempo, Franco Angeli, Milano 1990.

13 La questione, assai complessa meriterebbe approfondimento. L’idea di costituzione fenomenologica deriva da quella di epoché che è l’atto di mettere tra parentesi il mondo, non per annullarlo bensì per sospendere la fede nella sua esistenza: in questo modo non è possibile più dare per scontato nulla e ogni cosa che sembrava scontata (come l’esistenza delle cose intorno a me) ridiventa compito nuovo – e infinito – per la coscienza; il mondo stesso così, per progressivi avvicinamenti e adombramenti, ritaglio dopo ritaglio, deve essere costituito e ricostituito daccapo – ogni volta di nuovo – a partire da ciò che si manifesta per noi. Anche il tempo del mondo viene sospeso: l’idea, vale a dire, che un tempo ci sia e che sia quello dato per scontato, che scorre logicamente e cronologicamente nel senso di Chrónos. L’idea di costituzione impone, invece, che si trovi il senso di ciò che si manifesta, in carne ed ossa, in originale, per la coscienza, la quale, così, lungo gli atti intenzionali, si lega alle cose che si manifestano, ai fenomeni. Secondo la nozione di costituzione, il rapporto tra l’origine (i vissuti intenzionali della coscienza) e ciò che è derivato (il tempo della coscienza interno) non deve essere reversibile: la nozione di tempo interno della coscienza non deve essere vale a dire derivabile da ciò che è derivato: dal tempo oggettivo. Se così fosse allora la costituzione non vi sarebbe, essa sarebbe una mera descrizione di ciò che si intendeva, invece, mettere sotto parentesi, sotto epoché, proprio perché non lo si voleva dare per scontato (il tempo del mondo). Sul punto cfr. E. Husserl, Per la fenomenologia della coscienza interna del tempo, cit. p. 326, lì dove arriva a dire: “il flusso di coscienza è bensi dal canto suo successione, ma adempie da sé le condizioni di possibilità della coscienza di successione”.

14 Così i momenti che retrocedono nella rappresentazione celebre di un triangolo scaleno così come disegnato nelle lezioni da Husserl (e mutuato dal triangolo che già Brentano tracciò come schema), il cui lato maggiore è il presente-allargato tra l’ora e l’istante e i lati inferiori – che sembrano sommersi – sono il tirante del passato e la linea che prelude al futuro sempre con l’istante in bilico).

15 Cfr, E. Coppola, L’ eterno flusso eracliteo. Il tempo fenomenologico nella filosofia di Edmund Husserl, Guerini Associati, Milano 2005. Di sicuro, Husserl ha preso sul serio la questione del divenire, ancor più per il fatto – con l’esercizio dell’epoché – di non poter dare per scontato il mondo con tutti le sue consapute accezioni ed il tempo-del-mondo lì implicato (anche in senso logico: si pensi a Logica formale e trascendentale). E anche in questo senso si deve leggere il contrasto tra Husserl e Heidegger e rileggere alcuni passaggi delle cosiddette glosse che Husserl ha appostato ad Essere e Tempo (cfr. E. Husserl, Gloasse ad Heidegger, Jaca Book, Milano 1997). Ma il discorso qui ci porterebbe lontano.

16 Cfr. J. Derrida, Il problema della genesi nella filosofia di Husserl, Jaca Book, Milano 1992.

17 Si tratta – come aveva già notato Husserl con qualche apprensione – di intuire in che senso e in che modo la differenza tra la «coscienza di ora» e l’ «ora» sia in realtà ricucita e rimossa in senso originario, proprio per effetto della riduzione trascendentale che ha assegnato al vissuto (alla inscindibilità di noesis e noema e del tempo stesso originariamente associato) il peso della manifestazione, lì dove l’essere del fenomeno ed il fenomeno d’essere, in senso statico (la visione dell’essenza della cosa: l’eidos) e dinamico (la genesi del fenomeno) si intrecciano.

18 Se Husserl avesse assunto in modo più radicale la sua epochè sul tempo del mondo e avesse realmente sospeso la sua credenza che un tempo vi sia e che – in particolare – scorra in avanti, non avrebbe forse allora preso come punto di avvio della propria indagine un oggetto in sé temporale (la nota musicale), in quanto tale oggetto – per essere definito quale “temporale” è, dal punto di vista fenomenologico, il cavallo di Troia che ha fatto entrare la struttura cronologica del tempo sotto forma di qualità del noema, della cosa ridotta a fenomeno. E ciò in quanto la melodia è già un costrutto che implica una sequenza di tempi tra di loro sottoposti da un vincolo del prima e del dopo, di una premessa, un preludio e un effetto musicale: l’ascolto è certamente un’esperienza temporale, ma lì il tempo vi si trova già implicito, è il tempo delle note, della vibrazione, delle estensioni da cui poi distendere – a sua volta – l’attenzione della coscienza. Forse, invece, il punto privilegiato sarebbe proprio quello di pensare che il tempo non vi sia e che vi sia solo lo spazio. E da lì costituire – per la coscienza e solo per la coscienza – il tempo che detta orientamento allo spazio stesso, come tenteremo di fare nell’esempio proposto nel paragrafo successivo.

19 E. Husserl, Zur Phänomenologie des inneren Zeitbewusst., cit., p. 105.

20 Il Leib è il mio corpo vivente organico, non auto-oggettivabile (anzi non oggettivabile in sé) che costituisce il negativo dello spazio, il suo buco nero attorno cui brilla la costellazione degli altri oggetti; il suo essere spazialmente negativo segna la sua connessione con il tempo (e con il punto originario da cui esso diventa, ogni volta, istante). Il limite segnato dal corpo come corpo vivente è il limite stesso entro cui è pensabile un al-di-qua dell’io. Perciò Husserl parla del corpo come il “Punto Zero” dell’orientamento (der Leib als ein Nullpunkt): E. Husserl, Idee, vol. II, cit., p.552: “ora, per il proprio io, il corpo proprio ha un posto privilegiato, determinato dal fatto di portare in sé il punto-zero di tutti questi orientamenti” ovvero, ancora, come Form aller Orientierungsordnung, o, ancora, come “orientamento-zero” (Null-orientierung) – cfr. E. Husserl, Ding und Raum. Vorlesungen 1907, Hua XVI, p.328 – da cui, in qualità di “adesso”, si irradia il flusso della mia attività vivente (cfr. E. Husserl, Per la fenomenologia della coscienza interna del tempo, cit., p.102ss.; e cfr. Idee, vol. I, cit., p.81ss. e Idee, vol. II, p. 490). Il corpo, cioè, è quell’oggetto che muove per primo; in modo radicale: ueberwegliche Objekt (cfr. E. Husserl, Phän. der Intersub., vol. II, cit., p.541).

21 Sulla resistenza della cosa e sulla implicazione di tale resistenza nel tempo, appare interessante la notazione di Brentano, che rinnovando in modo significativo la lezione di Aristotele, afferma: “il concetto di temporale coincide con quello di cosa in quanto sostanzialmente determinata, cioè in quanto essa include una sostanza. Si tratta del fatto che ogni sostanza sussiste come limite di un continuo primario unidimensionale, che non è per nessun altro dei suoi limi- ti, e tuttavia fa parte dello stesso continuo ed è distante da ciascun altro dei suoi limiti come precedente o successivo. Ciò è insito nel concetto stesso di sostanza e perciò anche in quello di ciascuna cosa, dato che il concetto generale di sostanza include anche gli accidenti”: F. Brentano, Nachlass, M (Methaphysik 80), 1916, trad. it., Prosecuzione dell’indagine sull’universalità di tutte le intuizioni, in particolare sull’intuizione dello spazio e del tempo, e sull’assoluto temporale, in La psicologia dal punto di vista empirico, cit., p. 148.

22 Cfr. E. Husserl, Zur Phänomenologie des inneren Zeitbewusst., cit., p.109ss. La dislocazione che rivela l’abisso dell’aporia è quella tra l’ora e la coscienza di ora, quali momenti che non coincidono ma devono, però, in qualche modo convergere. Cfr. anche l’acuta discussione operata sul punto da P. Ricoeur, Temps et Rècit, III. Le temps raconté, Ed. du Seuil, Paris 1985, trad. it., Tempo e Racconto III. Il tempo raccontato, Jaca Book, Milano 1994, p.64ss.

23 L’intenzionalità stessa, in quanto orientamento, in quanto forza costituita e costituente, trattiene in sé una struttura teleo-logica: la legge che regola il flusso dei vissuti coscienziali – la motivazione (cfr. spec. E. Husserl, Idee, cit.,vol. II, p.543 ss.). La motivazione è legge raccogliente, direzionante, produttrice di coesistenze, disallineamenti, successioni, è la forma cinetica dell’Io, il suo ampliarsi storico, il suo trascinarsi, attraverso il quale, il tempo stesso trova, ogni volta di nuovo, la sua ritmica distensione. In questo senso, l’epochè stessa, rompendo l’idea stessa di “conseguenza necessaria”, si pone, rileva Sepp, come motivazione primaria (H. R. Sepp, Praxis und Theoria, Alber, Freiburg-München 1997, p.236 s. Cfr. sul punto E. Husserl, Krisis, p.268 e cfr. Meditazioni Cartesiane, IV,p.100: “…è la forma della motivazione che tutto connette… possiamo parlarne anche come della legalità formale di una genesi universale, in conformità della quale si costituiscono assieme, ogni volta, di nuovo, passato, presente, e futuro in una certa struttura formale noetico-noematica di modi fluenti di datità”. e cfr. B. Rang, Kausalität und Motivation. Untersuchung unter Verhältnis zwischen Perspektivität und Objektivität in der Phänomenologie Edmund Husserls, den Haag 1973, p. 140ss. Nella direzione husserliana, l’io è il custode del senso e dello svolgimento telelogico del senso, poiché non solo, nella diversa morfologia di atti possibili, pone il suo vissuto come luogo di manifestazione dell’essenza di cose, ma anche perché costituisce, nella libera variabilità della manifestazione stessa, in quella che, dal punto di vista logico Husserl chiama la pluriradialità (Mehrstrahligkeit) del fenomeno, l’esprimibilità dello stesso (E. Husserl, Logische Untersuchungen, II, trad. it. Ricerche Logiche, 2 voll., Il Saggiatore, Milano 1976, pp. 311-317). In questo senso, come ricorda Landgrebe, per Husserl «essere soggetto è essere teleologico» (L. Landgrebe, Filosofia e impegno politico, Massimo Ed., Milano 1976, p. 33).

24 Sotto questo aspetto, più che il pur interessante testo di Judith Schalansky, Inventario di alcune cose perdute, Nottetempo, Milano 2020, rileva il notevole testo di Giampaolo di Cocco, Metafisica di un trasloco, Smith Editore, Firenze 2022 (che tra l’altro cita il testo della Schalanski in più punti) in cui, nel corso di un trasloco, gli oggetti, ognuno di per sé, tracciano solchi temporali autonomi e semoventi, capaci, come vortici, di condurre e trascinare altrove, di tenere in vita, sospendere e di dislocare (come le penne stilografiche, ognuna capace di scrivere cose diverse in uno stile differente, i soldatini, i biglietti dei treni perduti o le macchine fotografiche che chissà cosa hanno inteso immortalare). Scrive di Cocco: “la cantina. Il sancta sanctorum della memoria, luogo stesso fatto di memoria e per la memoria, sinonimo di inconscio ed interiorità. Eppure per la signora la cantina è solo spazio perduto ed insignificante. Credo che la mia personale posizione nel caso si volessero relativizzare le riflessioni del Tisseron resterebbe comunque chiara: i miei oggetti mi sono preziosi ed inseparabili perché formano i punti per cui si è sviluppata e si sviluppa la mia identità, ovvero chi sono e come sono. Io mi identifico in tutto con il pensiero del Tisseron, per me nelle sue affermazioni non c’è un bel nulla da relativizzare” (ivi, pp. 78-79).

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25 Cfr. sul punto l’interpretazione di Enzo Paci contenuta nel suo testo del 1961 Tempo e Verità nella fenomenologia di Husserl, Bompiani, Milano 1990, §22 p.125ss. in cui l’intenzionalità fungente è descritta come vita pre-individuale e si rivela come Welterfahrende Leben, la vita stessa che esperisce il mondo. Come ricorda Paci, Husserl stesso in suo testo, già a partire dal titolo, aveva definito il tempo come Urform des Welterfahrende Leben forma originaria della vita che esperisce il mondo (dunque forma originaria della hyle che noi stessi siamo). In questo senso, il Sé, il Selbst, “è qualcosa che si fa nella vita fluente e diffluente”, nella vita fungente originaria, che in cui pre-giace la comunità originaria dei Sé assorti ed intrecciati l’uno con l’altro. “Si deve notare – scrive Paci – che la vita fungente fluente è temporalità che permane: vita che è sempre stata e sarà, temporalità e nunc stans: in questo senso è permanendo e fluendo, permanendo come fluire e fluendo permanentemente”. Tale flusso originario è iletico e ogni Sé incontra l’altro Sé in questo territorio che allo stesso tempo fluisce alterando e si precisa nel rispecchiamento, nell’appaiamento e nell’empatia“perché vive in un comune mondo, in un comune nutrirsi del mondo, in una comune infinita Welterfahrende Leben: la vita del sesso, del nutrimento, del sogno, dell’assopimento, della dormiente, preindividuale e vivente natura naturans” (Ivi, p. 126).

26Da notare, pur nelle distanze del pensiero con Paci, la notazione di Deleuze sul pensiero di Nietzsche, laddove annota: “Cosi la scoperta di Nietzsche è altrove, quando, liberatosi di Schopenhauer e di Wagner, esplora un mondo di singolarità impersonali e preindividuali, mondo che ora egli chiama dionisiaco o della volontà di potenza, energia libera e non incatenata. Singolarità nomadi non più imprigionate nell’individualità fissa dell’Essere infinito (la famosa immutabilità di Dio), né entro i limiti sedentari del soggetto finito (i famosi limiti della conoscenza). Qualcosa che non è né individuale né personale e che non di meno è singolare, per nulla abisso indifferenziato, ma che però salta da una singolarità all’altra, che sempre emette un lancio di dadi, che fa parte di uno stesso lancio, sempre frammentato e riformato in ogni lancio. Macchina dionisiaca per produrre il senso e in cui il non senso e il senso non sono più in rapporto di opposizione semplice, ma compresenti l’uno con l’altro in un nuovo discorso” (cfr. G. Deleuze, Logica del senso, cit., p. 100).

27 A. Whitehead, Il concetto di Natura, Einaudi, Torino 1989, p.67.

Come avevo già messo in evidenza, nel § 6.8. del mio Tempo e Multiverso, l’una cosa implica l’altra nel senso del con-tingere, del toccarsi insieme. Eppure, in tale contingenza, vi è la necessità proprio del confluire. Infine, vi è l’agilità della coscienza (della noesis) del rivolgersi verso – ogni volta di nuovo – verso il ritaglio di mondo (il noema) che si offre, al pensiero che chiama per esser pensato o al ricordo che s’agita per essere rievocato. Il tempo è, anzi, la tensione dell’atto entro la quale noesis e noema sono solo l’ombra trascendentalmente ridotta dell’io e della cosa, ombra del flusso ininterrotto e finito.

28 Cfr. E. Husserl, Cart. Med., trad. it. cit., pp.100-101; cfr. E. Husserl, Phän. der Intersub., III, p.335, p.634ss. e p.560ss.

29 Vale a dire: il territorio della fenomenologia statica (la fenomenologia eidetica: la visione dell’essenza delle cose, l’eidos e l’idea intesa – però – come possibilità e dunque soggetta al mutamento del vedere.

30 Cfr. precedente nota n. 11.

31 Sul punto, però, essa non può essere neppure una mera identità narrativa, giacché il raccontare è per lo più una forma cronologica in cui l’espressione singola è posta a servizio della comunicazione e questa del congiungere il prima al dopo, la causa all’effetto, a meno che, come taluni scrittori hanno tentato (e così Joyce) non si sleghino i momenti per far riverberare l’infinito-finito di cui sono fatti, all’interno di quel finito-infinito del tempo che è proprio il giorno: l’ hêmàr, in cui il ritorno di Ulisse si compie sempre, perché non si completa mai.

32 Sul punto rinviamo al tentativo operato da Paci di svolgere il suo “relazionismo” attraverso la profonda rilettura di Husserl, già menzionata, contenuta in Tempo e verità nella fenomenologia di Husserl, in cui si arriva a mostrare come il tempo sia relazione (in senso originario) e la relazione, sia, ogni volta, tempo.

33 In questo, riecheggia il senso della monade come Welt-träger, come portatrice di mondo, oltre che portatrice di valore (Wert-träger): cfr. ad es. E. Husserl, Man. F I 21, p.105; cfr. E. Husserl, Logik und allgemeine Wissenschaftstheorie Vorlesungen 1917/1918 mit ergaenzenden Texten aus der ersten Fassung von 1910/1911, Hua vol. XXX°, Dordrecht-Boston 1997, p. 287.

34 Scrive sul punto Alfredo Marini: “che poi il « volere a ritroso» della volontà non sia, in Nietzsche, la pretesa di distruggere quella temporalità irreversibile cui Dilthey fa appello, è facile constatare: la volontà di potenza è infinita come una retta e conclusa come un circolo (eternità) e il volere a ritroso è un’espressione equivalente a quella marxiana del rimettere la dialettica sulle proprie gambe: serve a riprendere il flusso e la direzione intenzionale dell’esistenza, ad accettare la vita in tutti i suoi aspetti, compreso il finire e il tramontare. La volontà prigioniera non può «volere a ritroso», quella creatrice si: ma di cosa era prigioniera la volontà? Di un originario rovesciamento del tempo, che deve essere a sua volta rovesciato!”: A. Marini,Alle originidellafilosofia contemporanea:Wilhelm Dilthey Antinomie dell’esperienza, fondazione temporale del mondo umano, epistemologia dellaconnessione, La nuova Italia, Firenze 1984, p. 190.

35 Cfr. il mio Tempo e Multiverso, cit., p. 17ss. e 299ss.

36 Sul punto vi è un interessante notazione in V. Fagone, Tempo e Intenzionalità. Brentano – Husserl – Heidegger, in Archivio di Filosofia 1960, pp. 105-131. Viene citata la frase di Husserl: “die zeitliche Bestimmungen determinieren nicht, sie alterieren wesentlich” (E. Husserl, Zur Phänomenologie des inneren Zeitbewusst., trad. it. cit., p. 368): vale a dire, le determinazioni temporali non si determinano, alterano (sempre) per loro essenza. Questo rilievo, suggerisce Fagone, andrebbe confrontato con l’interpretazione heideggeriana di Kant. Si legge a p. 126: “Kant aveva definito la coscienza come ciò che persiste e resta das stehende und bleibende ich (…). Tra questa definizione e la descrizione del tempo (…) vi è una profonda somiglianza: Die Zeit bleibt und wechselt nicht… Il tempo attende e non muta (I. Kant, Kritik der reinen Vernunft, A, p. 123). (…) l’espressione ‘stehen und bleiben’ non significa però che la coscienza e il tempo non siano temporali. Al contrario, essi non mutano e permangono appunto perché sono all’origine di ogni mutare e divenire: essi non sono il tempo perché sono il tempo originario”. Fagone però non sviluppa ulteriormente il punto. Per Husserl la coscienza non può non essere temporale – ma allo stesso tempo non può non costituire il tempo e non costituirsi – essa stessa – come tempo. Ma allora la costituzione del tempo interno si attesta come auto-coscienza? Cioè nel rinvenire il tratto originario della coscienza nel suo esser-coscienza? Ma la scoperta della coscienza come coscienza-di-qualcosa non segna già tale rinvenimento? Che il quanto più piccolo della coscienza sia già raggio intenzionale, non significa forse che la coscienza è per essenza temporale? E poi: non è proprio l’atto di epochè che togliendo metodicamente di mezzo il mondo, ha fatto sì che la coscienza, nella sua intima essenza originaria, non sia altro che coscienza del mondo che – ogni volta di nuovo – mi si presenta di fronte? E non è questa apparizione il momento di gioco dell’Âion? Il ritaglio di mondo che ogni volta si costituisce per lui?

37 Qui vivere-il-tempo è il trascendentale (in senso husserliano e non kantiano) del tempo, quale tempo immanente del flusso: e lo è come parallelo, come se nella successione, proprio a partire dall’esempio del presente allargato, si mostrasse l’incidenza della sfera trascendentale, vale a dire del gioco che assume il presente allargato come frammento (epifenomenico e fenomenologico) dell’intero corso di vita.

38 E. Husserl, Zur Phänomenologie des inneren Zeitbewusst., trad. it. cit., p. 107ss.

39 Sul punto, rinvio al mio, già citato, Passato e memoria. Ritenzione, ricordo, rimemorazione e riflessione nella prospettiva fenomenologica di Edmund Husserl, oltre che alla terza parte di Tempo e Multiverso.

40 Tale ideale pratico – espresso anche dal concetto del Selbsterhaltung (autoaccrescimento, autosviluppo) secondo Titjen avvicina Husserl, particolarmente, a Fichte: su. Punto cfr. H. Ttjen, Fichte und Husserl. Letztbegruend, Subjektivitaet und praktischen Vernunft im transzendentalen Idealismus, Frankfurt 1980. Sotto questo aspetto, osserva Titjen, la nozione husserliana di Horizontintentionalität, di intenzionalità d’orizzonte, esprimente l’unitario trascinarsi dell’io di “prospettiva in prospettiva” verso l’incessante orizzonte della determinabilità del determinabile, della possibilità pratico-teoretica, del poter-fare-mondo (Cfr. H. Titjen, op. cit., p. 274.), nella misura in cui ha la struttura pratica del “volere necessariamente il possibile”, appare fortemente significativa.

41 Il telos per Husserl non è solo un’idea in senso kantiano – anche se lui stesso lo aveva identificato in alcuni passi come “l’idea della crescita infinita”, proprio come una “idea regolativa” (E. Husserl, , Erste Philosophie, II, Hua VIII, p.349) – ma soprattutto un embrione giacente nella stessa “primordialità” dell’Io (del Vor-Ich): il telos si trova cioè inviluppato già nel primissimo “sistema di impulso (Triebsystem)” dell’Io; laddove l’impulso è sua volta per Husserl elemento che contiene e rivela l’estraneità dell’altro: “nell’impulso stesso – a sua volta come afferma Husserl e come ben ricorda Strasser- giace la referenzialità all’altro in quanto altro” (S. Strasser, Grundgedanken der Sozialontologie Edmund Husserls, in Zeitschr. fuer phil. Forsch. n. 29, 1975, p.15). Come suggerisce Ricoeur, se si assume dunque il telos come una prospettiva, e si mantiene la prospettiva come non già di per sé efficace, ma operante nel tempo solo come visuale costantemente rinnovantesi, ciò che la visuale suggerisce è l’Altro (P. Ricoeur, Sé come un altro, Jaca Book, Milano 1993, p. 309 ss.)

42 La monade è per Husserl un continuo divenire-esser-divenuto che non si arresta mai e riprende sempre dal suo inizio: cfr. E. Husserl, Zur Phänomenologie der Intersubjektivität. Texte aus dem Nachlass: Dritter Teil: 1929- 1935, Hua XV, Den Haag 1973, p.392.

43 Husserl opera infatti una epoché tematica di secondo grado che mettendo tra parentesi l’esistenza degli altri come fatto, ne recupera e ne ricostituisce il senso; l’epoché agisce e retroagisce – nella sua efficacia – proprio sul livello costituente e precostituente del tempo, giacché l’altro rappresenta – a partire dalla sua corporeità – un apriori estetico che complica – ulteriormente – le linee del presente. È interessante vedere che le riflessioni sull’intersoggettività per Husserl, nascono, in embrione, nello stesso periodo delle Lezioni sul Tempo, nel 1905. La prima volta, però, che Husserl parla di una seconda epochémetodologica da applicare all’intersoggettività è nel 1910 nelle Lezioni sui Problemi fondamentali della fenomenologia (Grundprobleme der Phänomenologie) in E. Husserl, Hua XIII, texte n.6. Come l’epochédi primo grado ha trasmutato ciò che appariva immediatamente ovvio – il mondo – in mobile orizzonte di senso (Sinnhorizont), così, mediante una epochédi nuovo grado (“neuartige epoké” la chiama Husserl), Husserl sospendendo tra parentesi un’altra apparente ovvietà – l’intersoggettività – la riconduce al suo enigma originario (Urrätsel). Si tratta ancora, metodologicamente, di trasformare l’evidenza in compito. Il fatto che altri soggetti esistano oltre a me è evidente; ma questo èl’enigma: “Questo problema – afferma Husserl nelle prime righe della Quinta Meditazione – si presenta a tutta prima come un problema speciale, quello dell’esserci-per-me degli altri ed è quindi il tema della teoria trascendentale dell’estraneo (Theorie der transzendentaler Fremderfahrung)” (E. Husserl, Cartesianische Meditationen und Pariser Vörtrage, Den Haag 1950, Husserliana Band vol. I, p. 108; trad. it. Meditazioni Cartesiane, Milano 1994, p. 115.). Che altri vi siano è un fatto. Si può dire, infatti, che, “intrecciati in modo del tutto proprio ai corpi, come oggetti psicofisici, gli altri sono nel mondo”. Ma come si costituisce questa evidenza? Come ripensare originariamente questo essere evidentemente nel mondo?

44 E. Husserl, Monadologie 1932 in Phänomenologie der Intersubjektivität, Texte aus dem Nachlass: Dritter Teil: 1929-1935, Husserliana Band XV, Den Haag 1973, p. 606s. Husserl, nel senso della monadologia, descrive l’essere come moto incessante, un contrasto ed un trapasso continuo tra essere patente (visibile) ed essere latente, tra conscio e inconscio dove però non v’è, propriamente nessuna fissità originaria, dunque, nessun apriori in senso formale: trascendenza e immanenza affluiscono costantemente nella “ricostruzione” intersoggettiva, che si dà, ogni volta di nuovo, dell’essere stesso: “Coscienza desta, costituzione del mondo nella desta accomunante Soggettività. Il Mondo finito nel tempo finito, sempre continuamente costituito ma in differenti gradi – nel grado più completo di uomini che cercano in modo desto e scientifico, il quale ha come suo sotto-grado l’umanità prescientifica con il suo già aperto orizzonte di vita e di mondo. Gli intervalli veri e propri dell’essere, nella sua esperibile Medesimezza, costituiti e da costituire in modo specifico. Ma allora [in quale senso possiamo cogliere] le pause dell’essere vero, cioè verificabile nella sua ipseità, autenticamente costituito e da costituire? E’ l’intero universo la totalità delle esperienze possibili? E il non-conscio, lo sfondo sedimentato delle coscienze, il sonno senza sogno, la figura della nascita della soggettività, l’essere problematico della nascita, la morte e il dopo la morte?

L’essere patente in riferimento alla possibilità di un’esperienza univoca di costituzione desta. L’essere latente come “modificazione intenzionale” dell’essere patente, di ciò che per noi, come tale, possiede senso e vero essere. Noi, allora, abbiamo sotto il titolo di essere latente non un essere nascosto, simulato, che si lascerebbe dissimulare, che ha un’inseità, la quale sarebbe, come tale, esperibile ed esplicitabile in base alle sue caratteristiche in esperienze parziali. Ma a guardare più esattamente, vuole dire che non c’è alcun essere Originario, né immodificato, o costituito in un Modo originario, come tale impensabile, esso è ciò che è in quanto Modificazione Intenzionale, e solo in quanto tale. Esso “è”, e come tale ha le sue proprietà di senso, esso si determina come verità, e la verità si attesta attraverso l’evidenza, nella quale la modificazione intenzionale si autoesplicita come tale e mai altrimenti. Questa intera sfera dell’essere è una sfera della Ricostruzione” (ivi, p. 608-609, trad. mia).

45 L’altro è infatti un apriori estetico (sul punto cfr. T. Stölger, Das ästhetische Apriori des Alter Ego. Untersuchungen zur transzendentalen Intersubjektivitäts -Theorie in der Phänenomenologie Edmund Husserls, in Epistemata Würzburger Wissensschaftliche Schriften. Reihe Philosophie. Band 147, Frankfurt 1994). Infatti – dal punto di vista estetico – con il suo corpo che mi si staglia di fronte – mi precede sempre e dunque la precostitutività del tempo si intreccia con l’intenzionalità dell’altro che è un io come me e si da, assieme a me, in appaiamento. Lévinas – altro allievo di Husserl – mette in relazione strettamente il tempo e l’altro, la traccia dell’altro. Senza qui entrare in questa discussione, quello che importa è che intersoggettività nascosta o monadologia implicata nel tempo della monade. Ovvero il bambino che gioca muovendo i pezzi sulla sabbia, anche se gioca solo, sottintende altri.

46 Cfr. sul punto il mio I neuroni specchio e la costituzione dell’intersoggettività: un confronto con le analisi fenomenologiche di Edmund Husserl [Leussein 2010]

47 Cfr. ad es. E. Lévinas, Il tempo e l’altro, Il Melangolo, Genova 2005.



È scrittore, laureato in giurisprudenza e in filosofia, due dottorati di ricerca (Filosofia del Diritto presso L’Università degli Studi La Sapienza e Filosofia Teoretica presso la Pontificia Università Gregoriana), ha pubblicato una ventina tra saggi, monografie e articoli in campo filosofico tra cui “Tempo e Multiverso: indagine sulla struttura originaria del tempo” (Stamen 2008). E’ stato assistente alla Sapienza e professore alla European School of Economics; attualmente esercita la professione di avvocato urbanista. Autore di circa sessanta testi teatrali, un suo romanzo Il male è chiaro, è stato finalista al premio Calvino (pubblicato nel 2013(, mentre nel 2021 è uscita la tetralogia “Il Fondo”. Ha collaborato come organizzatore e promotore di molte iniziative culturali in campo filosofico e teatrale ed è tra i fondatori Centro nazionale di drammaturgia italiana contemporanea. All’interno del progetto Libertà di Studiare, in collaborazione con La Sapienza, il Consiglio dell’Ordine di Roma e la Scuola Forense, ha tenuto per i detenuti di Rebibbia corsi di diritto e filosofia del diritto all’interno del corso di laurea in Giurisprudenza


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