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Abstract
Il presente saggio si propone di indagare, a partire dal significato del termine Âion, il senso originario del tempo, ovvero la sua essenza non riducibile.
Il percorso si avventurerà lungo cinque sentieri ripidi di montagna, a salire:
1) lungo il primo sentiero si chiarirà il significato del termine «Âion» (così come affiora nel pensiero greco e, soprattutto, in Eraclito);
2) il secondo sentiero condurrà verso il tempo circolare come pensiero assimilato nel vivente (lungo la dottrina di Nietzsche dell’eterno ritorno dell’uguale e della volontà di potenza);
3) con il terzo sentiero, più ripido e stretto, ci inerpicheremo verso l’Âion come «vissuto», salendo insieme a Husserl, lungo un’analisi della «coscienza del tempo interiore»;
4) percorrendo il quarto sentiero analizzeremo i cortocircuiti del vissuto temporale: qui l’analisi si soffermerà sull’influsso originario del tempo vissuto sulle psicopatologie lungo le elaborazioni di Minkowski e, in parte, di Binswanger; ma mostreremo anche che il cortocircuito è proprio del tempo interiore così come si manifesta in alcune esperienze fondamentali: l’ossessione, il dovere, la colpa; tale cortocircuito si rivela, infine, affiorando nella rimemorazione e nella riflessione, come modalità del “ritorno”;
5) in ultimo, analizzeremo il tempo vissuto all’interno della nostra epoca attuale, del nostro vivere associato e dissociato (il tempo posto o imposto dalla società capitalistica e sistemica) e concluderemo con una riflessione sulla morte.
La morte è dunque la vetta del nostro percorso ed è una vetta negativa, tolta, che è però il presupposto del ricercare stesso, giacché ogni riflessione sul tempo, implica e sottende, una riflessione sulla morte, così come il pensiero della morte spinge ad indagare il tempo (e il divenire) di cui è ombra, compimento o negazione; ovvero, indeducibile indizio.
Âion: alla ricerca del senso originario del tempo
Premessa: i termini greci che dicono il tempo
Cos’è il tempo? La domanda è forse mal posta perché investe il verbo essere, sottintendendo già che il tempo sia un qualcosa, che abbia un’essenza.
Per Husserl la domanda sull’essenza del tempo equivaleva all’indagine sull’origine del tempo (che già di per sé ci consegna al rischio di un regresso all’infinito)1.
È noto poi l’imbarazzo di Agostino dinanzi alla questione: se nessuno mi chiede cosa è il tempo lo so, altrimenti non lo saprei spiegare2; il che comporta – sotto il profilo della domanda – che il verbo «essere» inchioda l’immagine del tempo al punto che il linguaggio non sarebbe più capace di esprimerne l’essenza3.
Com’è noto, i greci utilizzavano diversi termini per indicare il tempo4; principalmente: Chrónos, Âion, Kairós, Exàiphnes e Eniautós.
Eniautós, termine (derivato da eniausiòs), poco discusso in termini filosofici5, esprime il «ciclo di un movimento» (come quello degli astri) ovvero il «periodo», l’«anno» che si compie o, anche, l’«anniversario».
Kairós, invece, esprime, per lo più, il tempo-bersaglio6, il «momento giusto» da afferrare, il «tempo opportuno» in cui concludere le cose, ovvero il «tempo debito»7; o, ancora, il «tempo in cui le cose giungono a maturazione».
Il kairós è distinto dalla pura istantaneità espressa dal termine exàiphnes (che è un avverbio – significa: istantaneamente – spesso utilizzato in ambito teatrale a designare qualcosa di imprevedibile che irrompe all’improvviso sulla scena)8 e a cui poi Platone, come è noto, nel Parmenide, assegna il significato di istante sospeso tra immobilità e movimento; istante che non è in alcun tempo ed in cui, però, avviene il mutamento9.
Chrónos e âion, infine, costituiscono i due caratteri essenziali del tempo, spesso schematicamente contrapposti, rispettivamente, come il «tempo rettilineo» e il «tempo circolare», secondo una semplificazione, però, assai dubbia, oltre che estranea al pensiero greco.
Per fornire una rappresentazione immediata, diremo che, come è noto, âion è stato raffigurato come un bambino che gioca, mentre Chrónos come un dio che divora i suoi stessi figli, l’uno dopo l’altro.
Anche il kairós è stato rappresentato come un bambino (ad esempio dallo scultore Lisippo) alato ai piedi, con un ciuffo vistoso sulla fronte, ma dalla nuca rasata (segno che bisogna acciuffarlo al volo, altrimenti, poi, quando si volta, è troppo tardi) – che, poggiando su un piede in modo precario su un’instabile sfera, tiene in mano un rasoio su cui oscilla, incerta, la bilancia del tempo.
Il kairós, non è dunque un bambino che gioca come Aion, è anzi preso dallo sforzo muscolare di mantenersi in equilibrio per poi ripartire in volo10 (in modo da non finire divorato come uno dei tanti figli di Chrónos, vale a dire come un momento qualsiasi perso nella successione del tempo)11.
Âion viceversa gioca liberamente, senza nessuna finalità e senza calcolare lo sforzo, facendo e disfacendo il suo gioco, che coincide – in definitiva – con il giocare stesso.
Tali tratti sono qui indicati in modo volutamente incompleto, solo per favorire l’avvio di una raffigurazione del tempo, nelle sue diverse accezioni.
Compito di questo saggio, non sarà, tuttavia, quello di far luce (ed ordine) sulle differenti nozioni del tempo nel mondo greco, quanto di rinvenire il senso originario e irriducibile del tempo stesso a partire dal termine âion così come affiorante dal suo significato primigenio e dalla riflessione filosofica avviata, principalmente, da Eraclito, che, lungo la direttiva decisiva di Nietzsche, approda alle ricerche di Husserl e di alcuni dei suoi illustri allievi, delineando l’incidenza del «tempo vissuto» sia sulle derive (psicopatologiche) che sulle disfunzioni (socio-politiche) della nostra vita (variabilmente) associata. Le contrapposizioni con gli altri termini già indicati (soprattutto chrónos) sono dunque spese per far risaltare il senso proprio dell’âion come tratto originario del tempo che desideriamo qui indagare.
Preavverto, anche, che questo articolo fa parte di una più ampia e longeva riflessione sul tempo (sulla sua essenza fenomenologia oltre che sulla sua implicazione nella logica specifica del diritto) che diparte dalla metà degli anni ’90 e che vi sono pertanto diversi lavori precedenti a cui – per motivi di brevità – sarò costretto fare rinvio12.
1. Che significa Âion?
Il termine Âion13 non è di facile (ed immediata) traduzione.
Esso in origine designava il liquido seminale da cui origina la vita; in senso anatomico, il midollo spinale inteso quale sede della vita organica (come si riscontra nell’opera di Ippocrate14). Ma finì presto per significare la vita stessa.
In Omero (II, XII, 27) si dice di un morto: “Âion lo abbandonò”15. L’uomo muore quando Âion lo abbandona o quando i mortali abbandonano Âion. Il termine designa anche vigore vitale16 come capacità di durare, di estendere il soffio della vita lungo il tempo e come tempo.
In questo senso, Âion sin dall’inizio, designa congiuntamente sia la vita che il tempo17: Il tempo-di-una-vita.
La vita che indica il termine âion non è dunque intesa come bìos (sebbene all’inizio i due termini apparissero intercambiabili in Omero e in Esiodo18 che invece è inteso come il modo di vivere o le condizioni per le quali il vivente vive: l’aria, il respiro)19, né come zoè (l’elemento fisico organico della vita, comune all’uomo, agli animali e alle piante, nonché i mezzi materiali necessari per vivere e mantenersi in vita oltre che, secondariamente e in senso analogo a bìos, i modi in cui si vive20), bensì come «flusso di vita»: flusso non misurabile né circoscrivibile del vivere21: il tempo (impensabile) di una vita intera, colto nella sua indivisibilità e, dunque, non nella sua successione di momenti isolati e distinti: la vita nella sua concretezza, nella sua (indiscernibile) interezza – non suscettibile di essere diffranta in momenti discreti.
Esso indica un tempo lungo, dunque complesso che non può essere scomposto, in quanto ciò che contiene trascende o, per certi versi, straripa dal suo contenitore.
Anche laddove esso abbia finito per indicare, a seconda dei contesti, il significato di «secolo» o «evo» (aevum è termine direttamente derivato da âion) ovvero un periodo macro-esteso che racchiude un insieme sovrabbondante di linee temporali22, esso indica l’elemento smisurato perché non misurabile del tempo.
Se Chrónos dunque esprime il tempo come misura del movimento, ovvero “il numero del movimento secondo la prospettiva del prima e del poi” (secondo la celebre definizione aristotelica data nel La Fisica23) – vale a dire un elemento che numerando il movimento determina un ordine appunto crono-logico – l’Âion esprime qualcosa che, rispetto al movimento stesso, appare non numerabile perché, con riferimento all’interezza del divenire, non v’è successione, non almeno nel senso di una causa primigenia e di un effetto che segue, di un prima da cui scaturirebbe un poi.
Âion, in questo senso, è stato variabilmente tradotto come durata (anche, a volte, in senso ravvicinato alla nozione bergsoniana di durée) o, meglio, come “corso della vita” (o, laddove s’intendesse far riferimento alla vita del cosmo, come “corso del mondo”) ad indicare che, pur a fronte dell’interezza che il termine designa, si tratta di un corso e non di un decorso, di un tempo in corsa e non di un tempo già compiuto in se stesso.
Da questo punto di vista, Âion, a differenza del termine di cui si è fatto già cenno Eniautós, non esprime un tempo chiuso, già compiuto in se stesso, come quello di un ciclo, o di un periodo. Eniautós designa infatti un tempo – anch’esso circolare – che dipende però dal compiersi di un movimento (come il movimento degli astri) e dalla traiettoria completata dal corpo stesso nel suo muoversi in un tempo dunque determinato.
Diversamente, il flusso di Âion, pur se riferito a qualcosa di finito, come la vita di un individuo, non è perciò, a sua volta, finito (né definito), ma implica (e direi impone) un elemento di continuità superiore a qualsiasi ipotesi di delimitazione fisica o concettuale. L’Âion esprime vale a dire la continuità insuperabile del tempo, una continuità che non ha principio né fine, né tanto meno un fine o una finalità (e che dunque si sottrae tanto alla successione tanto al concetto, isolato, di accadimento). In questo senso, come contribuisce a mettere in rilievo la Philippson, il termine è stato associato all’indeterminatezza (sia dell’àpeiron che dell’àspetos)24, intesa non in senso a-temporale, bensì come un sottrarsi alle determinazioni (quindi, proprio al contrario, in senso eminentemente temporale).
Si tratta pertanto non di una continuità nel senso della continuazione di qualcosa in particolare, né di una consequenzialità: essa esprime il divenire che sempre si rinnova come diveniente senza mai cessare la sua corsa: il corso della vita è una vita che corre, scorre, si manifesta sempre diversa (così come le occasioni, le ricorrenze, le feste, ogni momento in quanto inizio nel e del continuare).
2. Quale eternità? La circolarità di Âion e Chrónos
Tale continuità è tale che, a differenza dell’ipotesi apparentemente opposta, quella della divisibilità del tempo, della sua scansione in momenti distinti e dunque della successione in cui ogni elemento nuovo si sostituisce al precedente e ne prende così il posto – in modo cruento e violento come Chrónos che divora i suoi figli – l’Âion può lasciar trasparire l’idea di eternità.
Eppure si tratta di un’eternità assai differente rispetto a quella sovra-esposta e sovra-temporale che di solito domina il senso comune. L’eternità dell’Âion è infatti la risultante di una continuità ininterrotta, ma non estranea al tempo, bensì intima ed insita nel divenire: lo scorrere infinito è dentro la finitezza di una circolarità o di una ciclicità che però, (a differenza di Eniautòs) non è confinabile – né misurabile – come periodo perché in Âion è il tempo a conformare il movimento e non il contrario.
L’Âion non esprime, infatti, un’eternità fuori del tempo, o una a-temporalità, bensì l’eternità propria del tempo, pur di un tempo non misurabile.
Ex âiònos, significa dall’eternità, ma nel senso di “da una vita” o “da che mondo e mondo”, così come l’avverbio âei, significa “sempre” o “per sempre” ma nel senso di “per tutto il tempo” o “per tutta la vita” o “per una vita intera” o anche, più semplicemente, “continuamente” o “in modo permanente” o “in modo perpetuo”.
Si tratta di una infinità pur dentro l’ipotesi di un finito, perché la vita finisce, pur continuando; e, per riflesso, continua solo per andare, di nuovo, a finire.
Tale infinita finitezza è pensata come ciclicità: come qualcosa che ritorna sempre, al pari delle stagioni, delle occasioni di vita e di morte, della creazione e distruzione degli elementi, composizione e scomposizione in sempre nuove forme della vita che precede e trascende e che, in questo precedere e trascendere – racchiude, come un cerchio, ogni cosa.
L’infinito colto nei limiti del finito impone infatti che il tempo, nel pensiero greco – indipendentemente se delineato nel senso di Chrónos o di Âion – sia sempre circonferente.
Non è dunque corretto designare Âion, come si suole spesso definire, come tempo circolare contrapposto a Chrónos tempo rettilineo. Sia Chrónos che Âion (così come eniautòs) sono, infatti, circolari. E anche kairós (come momento da acciuffare)25 e exàiphnes (come istante improvviso e sospeso) sottintendono tale circolarità26.
L’ipotesi di un tempo rettilineo presupporrebbe infatti un momento di inizio assoluto e, altrettanto, un momento finale, cosa che per il pensiero greco è inconcepibile. Per i greci, come contribuirono a mettere in evidenza Zeller e poi Mondolfo – e ne sono traccia il numero di espressioni del genere – vi è, sin dal pensiero orfico, l’infinito volgere del tempo ovvero l’eterno ciclo del tempo (non contrapposti tra di loro, ma l’uno implicante l’altro)27.
Tale concezione affiora già in Omero, laddove, come mette in rilievo, tra gli altri, Onians, conformemente alla visione orfica, l’universo aveva la forma di un uovo circondato da Ōkeanós28.L’uovo era cinto da un serpente che lo teneva avvinghiato: questo serpente è identificato come Chrónos, vale a dire il Tempo nella sua stretta correlazione con la Necessità, con l’anànke, ma in diversa maniera, nel senso indicato da Pindaro, come psyché.Il serpente, poi, è eterno per via della sua continuità irriducibile in quanto la testa e la coda finiscono per confondersi nella circolarità che pur scorre in se stessa, come Âion; e in questo senso, la necessità di Chrónos si trasla nel destino di Âion, in quanto tempo e destino rappresentavano due cerchi concentrici l’uno incatenato all’altro29.
Anche la successione, il divorarsi dei momenti l’uno con l’altro, l’annientamento vicendevole delle cose secondo il decreto di Chrónos, di cui è traccia il noto frammento di Anassimandro30, è una forma di distruttività circolare (oltre che di giustizia ciclica) in cui i momenti collassano ed emergono formando una curva – e non una linea retta.
Se anche la successione crono-logica formasse un ordine, scandito ad esempio dall’individuazione di una causa che viene prima (e scompare) e di un effetto che emerge venendo dopo (la necessità che Chrónos esprime) avrebbe in ogni caso un moto circolare che finisce per sovrapporre la causa efficiente con la causa finale, il fine con la fine, il preludere con il concludere.
La differenza è che l’Âion, manifesta ciò che del tempo è forse più difficile intuire, ma rappresenta l’elemento fondamentale, vale a dire il suo tratto continuo ed infinito al punto da costituire l’idea (pur temporale) dell’eternità (pur di un’eternità sempre nuova, perché racchiusa, appunto, nel “sempre” nell’ âei, e nell’ogni-volta-di-nuovo)31.
Chrónos e Âion manifestano due modi differenti di mostrare l’infinità del tempo: la prima come manifestazione e distruzione del finito nell’ordine di una successione infinita; la seconda come una continuità insuperabile (infinita) che trascende ogni momento (finito) particolare nell’interezza del suo scorrere in cerchio.
Il primo è una circonferenza di momenti perduti; il secondo è un ciclo di vita che torna.
L’Âion è dunque un tempo ciclico, con parvenze o pretese di eternità, giacché sempre capace di rinnovarsi, di ricostituirsi, di offrirsi nuovamente: così come le stagioni dell’anno che si susseguono, ma che pur ritornano, così come la possibilità di iniziare o distruggere qualcosa. Chrónos è, invece, un tempo ciclico dove si decreta l’ordine del mutevole annientarsi tra momenti distinti, in modo da far brillare, per un attimo soltanto, ciò che appare.
Indipendentemente, dalle diverse letture interpretative Âion e Chrónos rappresentano perciò due ciclicità intrecciate – o sovrapposte – tra di loro, rispetto a quell’unica dimensione (una ed una sola) che è il tempo.
3. Âion – Chrónos: chi è il padre, chi il figlio?
Tuttavia tra Chrónos e Âion è indicata, in qualche modo, anche una genealogia. Euripide ci testimonia, infatti, che Âion è figlio di Chrónos32: quasi che l’elemento della continuità dovesse derivare da quello della successione, l’eternità derivare dal tempo crono-logico o il corso della vita, dovesse derivare dalla necessità implacabile del succedersi – e del sostituirsi l’un l’altro – dei momenti tra loro.
In termini di divinità, Chrónos (e nella sua traduzione romana Saturno) è certamente un Dio33, mentre per Âion, nonostante l’indicazione ricavabile da Euripide, la questione è discussa.
Dal punto di vista concettuale, poi, è pur vero che il corso della vita di Âion sembrerebbe dover presupporre il senso della successione di Chrónos, che la durata concreta debba implicare i momenti discreti di cui si compone: vale a dire che i punti che vanno a costituire la curvatura di quell’intero che è la vita debbano precedere la curva stessa.
Tuttavia, la difficoltà sta nel fatto che tali punti sono punti tolti, negati o perduti. Dunque, vi è una continuità superiore alla consistenza del momento singolo, tale per cui il momento stesso, pur dileguando, non scompare, non cade, cioè, nel nulla, ma si inscrive nel circonferente divenire.
È quindi dal figlio che si può risalire al padre? È da Âion che si può intuire Chrónos? Quasi che l’interezza (la concretezza) di Âion sia il modo per far riverberare il negativo (distruttivo) dei momenti di Chrónos? Chrónos è cioè solo relativo, in sé, giacché il prima si riferisce a un dopo così come il dopo a un prima secondo sempre nuove numerazioni dell’ora che retrocede e svanisce, dunque relativo in quanto relazione tra negativi, dove solo la relazione in sé resta, nella sua funzione di ordine – tale da far evocare l’idea – come intuì Agostino e per altre vie McTaggart – di una irrealtà del tempo34?
Certamente se Âion fosse figlio di Chrónos, si tratterebbe di un figlio che Chrónos non ha in potere di divorare, quasi che il suo gioco fosse superiore alla necessità espressa da Chrónos, non tanto perché sia libero e non necessario, quanto perché esso esprime una necessità ancora più radicale, quella – come avvertì Nietzsche – del caso e del puro arbitrio “dove ad ogni causa non segue necessariamente al suo effetto”35 (sul punto torneremo).
In ogni caso, la differenza tra le due accezioni del tempo implica una circolazione di sensi incrociati, difficile da cogliere e, ancor più, da articolare, al punto che Âion contiene (nel senso proprio) Chrónos, in quanto erede che trasfigura e smentisce il padre fino al punto da modificarne il tratto essenziale.
Platone, nel Timeo, come è noto, arriva ad invertire, sotto il profilo cosmo-logico, il senso della preminenza di Âion e Chrónos, affermando che è quest’ultimo ad essere derivato dal primo. Afferma, infatti, che Chrónos è solo un’imitazione dell’Âion. La sua nota definizione è: il tempo (Chrónos) è l’immagine mobile dell’eternità (Âion) che procede secondo il numero; anche la psyché è eterna, vale a dire avvinta all’Âion (immagine derivata da quella orfica), dunque non generata. Chrónos infatti pur ciclico e infinito – per Platone – non è eterno, giacché, generato insieme al cielo; e dunque sarebbe perito assieme ad esso.
Il punto più rilevante, però, del ragionamento platonico, ai fini della corretta istruzione della nostra indagine, è che l’Âion non ha parti; non esistono vale a dire parti del tempo di cui l’Âion sarebbe l’immagine vera: vi è solo la sua unità. Le parti del tempo – come ad esempio il «è stato» o il «sarà» – sono istituite (più che costituite) dal senso del prima e del dopo, nella separazione di momenti passati e futuri che implicano il movimento e la generazione. Ma all’Âion conviene forse solo l’«è» Non si tratta però di un «è» nel senso proprio del verbo essere e, meno che mai di un «è» copula a servizio della logica formale che definisce, descrive ed estrae l’essenza delle cose: bensì di un «è» inscritto nel senso proprio del divenire che diviene-sempre e che, sempre-divenendo, non è divenuto né diverrà propriamente, ma è sempre diveniente. “Noi diciamo – scrive Platone – anche il divenuto è divenuto, e il divenente è divenente, e così quello che è per divenire è per divenire, e quello che non è non è; ma nessuna di queste cose noi diciamo esattamente. Ma forse non sarebbe opportuno nel momento presente indagare su ciò con sottigliezza”36.
4 Eraclito: il frammento Diels-Kranz n. 52
E invece bisognerebbe proprio indagare, con sottigliezza, su questo divenire senza parti di cui noi non diciamo (e forse non potremmo mai dire) esattamente. E tale indagine impone di ritornare indietro rispetto a Platone e ripartire da un luogo privilegiato per riflettere sull’âion (assai celebre quanto allo stesso tempo conteso nella sua interpretazione) vale a dire il celebre frammento di Eraclito n. 52 stando alla numerazione di Diels-Kranz (14 A18 secondo la suddivisione proposta da Colli). Il frammento dice:
Âion è un bambino che gioca spostando le pedine del gioco. È il regno di un bambino
Aldilà della discussa identificabilità del bambino con Zagreus o Dionisio37, rimane il dato metaforico immediato secondo cui l’Âion è rappresentato come un gioco, innocente e senza scopo, senza alcuna altra finalità che non sia il giocare stesso da parte di un bambino.
Anche tenendo presente il contesto dei frammenti eraclitei, l’Âion si pone dunque come l’auto-esplicitazione di un gioco primordiale; il bambino che gioca è espresso con la locuzione: pàis pàizon, laddove il verbo, posto al gerundio, è solo l’azione propria del nome; vale a dire: bambino che esprime la sua natura di bambino (e dunque gioca): pàis pàizon è come dire l’alba che albeggia o la vita vivente o il movimento che muove: lo esprime dal punto di vista dinamico ad indicare qualcosa che non si può fare a meno di fare. E così diremmo che il tempo si manifesta come tempo, si temporalizza, prende o perde tempo, si distende o si contrae come tempo.
Il termine gioco – paidìa – a sua volta è estratto dal sostantivo pàis quasi come sua intima declinazione (bambino che fa il bambino, che scherza, agisce per puro divertimento e capriccio38) così come lo stesso sostantivo trae senso dall’atto di giocare (bambino che, giocando, è, per essenza, giocatore).
Di più il verbo posto anch’esso al gerundio pesséuon– l’atto di spostare le pedine o le tessere del gioco – è a sua volta un’allitterazione (spostare le tessere, le pedine o lanciarle in aria) producendo così l’immagine di una triplice auto-esplicitazione da un unico nucleo, quasi che il concetto si auto-generasse in un vortice di rimandi sospesi.
Non si tratta forse però di un gioco completamente aleatorio. Come è stato messo in rilievo – e diversamente da alcune traduzioni – il bambino non lancia i dadi a caso (giacché altrimenti si avrebbe avuto il diverso verbo astragàlizein – giocare a dadi – e non pesséuein39) muove tessere o pedine all’interno – forse – di uno scenario di gioco più definito, anche se non secondo regole istituite, quanto piuttosto secondo la regola intima che il muovere-i-pezzi sembrerebbe implicare40.
E tuttavia, l’arbitrio del bambino sembra sovrastare la regola implicita che i pezzi del gioco (qualsiasi essi siano) sembrano poter suggerire41.
Il bambino, infatti, non gioca con altri – con adulti o con altri bambini – non si tratta di un gioco interattivo, dunque lo spostare le pedine è ancor più arbitrario giacché non sembrerebbe esservi un obiettivo. Ecco perché, la distinzione – assai discussa – tra muovere le pedine in modo strategico (calculus ludit come commentò Gentile42) o tirare a caso i dadi, perde, almeno in parte, di rilevanza.
I pezzi sono stati variabilmente indicati con dadi, pedine, tessere, trottole, a seconda dei giochi dell’antichità che chi traduceva aveva forse in mente, ma, in ogni caso, resta che il bambino ha il privilegio di traslare questi pezzi a suo piacimento, e, così, di modificare lo scenario del cosmo.
Come ebbe modo di reinterpretare Nietzsche, il corso del tempo è un bambino costantemente in preda all’impulso di giocare, perché crea e distrugge continuamente e così facendo “suscita alla vita altri mondi”, che talvolta “getta via il suo giocattolo, ma presto lo riprende, per innocente capriccio” e che nel costruire i suoi castelli di sabbia “collega, incastra e forma in obbedienza a una legge e secondo le sue interiori regole43 seguendo dunque – come direbbe Wittgenstein – più che la regola, un’ispirazione44.
L’Âion come è stato sostenuto da Zeller e dal suo allievo Mondolfo, rappresenterebbe in questo senso l’idea che l’ordine della vita non sia non predisposto45: ovvero che “nessuna cosa è questa o quella, ma diventa tale solo nel movimento della vita” o che “le cose non sono alcun che di stabile (…) ma vengono continuamente create ex novo nel flusso dei fenomeni dalle forze operanti; segnano solo i punti in cui le opposte correnti di questo flusso si incrociano”. In questo senso “Eraclito paragona il mondo a una mistura liquida, che ha bisogno di esser agitata costantemente per non decomporsi”46.
Ancora, come suggerì Gadamer, l’âion, è un gioco irrequieto attraverso cui si disegna l’estetica del mondo47, gioco che, commenta sulla stessa linea Fink, rappresenta scenograficamente, ogni volta, il luogo “dove le cose sorgono e dileguano, aumentano e diminuiscono cambiano posto e si trasformano… in esso è il continuo andare e venire, emergere e scomparire, cambiare di posto ed indugiare (…) pur nella estrema variazione, secondo ripetitività ed ordine”48.
Tale ordine non è quello del logos giacché, stando alla testimonianza di Ippolito, per Eraclito, nelle coppie di predicati opposti, l’âion è l’opposto di logos49tratto che consegue alla contraddittorietà (o non-logicità) del divenire. Tale opposizione del tempo rispetto al logos, riconduce anche alla questione – sollevata da Agostino – del suo sottrarsi alla possibilità di essere espresso in parole.
Il divenire è conciliazione sintetica degli opposti, conflitto che ogni volta manifesta l’unità inscindibile dei configgenti, anzi, la loro coincidenza, che si da solo nell’intuizione50.
Il punto, pur con qualche influenza empedoclea, è espresso con chiarezza da Nietzsche:
“l’eterno e unico divenire, la totale precarietà di ogni reale che sempre unicamente agisce e diviene e non è, costituisce, come insegna Eraclito, una rappresentazione terribile e sconcertante e strettissimamente affine nel suo influsso, alla sensazione con cui qualcuno in un terremoto perde la fiducia nella stabilità della terra. Fu necessaria una sorprendente energia per trasferire questo effetto nel suo opposto, nel sublime e nella beata meraviglia. A ciò giunse Eraclito osservando il caratteristico andamento di ogni divenire e trapassare, inteso da lui sotto forma di polarità come lo scindersi della forza in due qualità qualitativamente diverse, antitetiche e tendenti al ricongiungimento. Una qualità entra di continuo in discordia con se stessa e si divarica nei suoi opposti; di continuo questi opposti cospirano l’uno contro l’altro. Il volgo crede di identificarvi qualcosa di rigido, di compiuto, di permanente; in verità luce ed ombra, dolce e amaro sono in ogni momenti vicini e avvinghiati l’un l’altro come due lottatori (…) Il miele secondo Eraclito è amaro e dolce allo stesso tempo, e il mondo stesso è un’anfora da misture che deve essere di continuo agitata”51
Non vi sono, però, due nature in lotta, la natura (la physis) è unica e in sé divergente52: è l’uno ad essere diverso, l’uni-verso stesso è – in sé – di-verso, agitato da forze contrarie e questa agitazione è il tempo (Chrónos); mentre il gioco (l’uno-diverso) che, agitandosi, crea e distrugge è Âion.
Il gioco dunque è sospeso, conteso e di difficile decifrabilità53. Il bambino gioca in un luogo talmente indefinito da costituire un non-luogo (in questo senso, connesso con la nozione di àspetos prima richiamata). Egli semmai contiene la possibilità di un luogo, ma non è esso stesso collocato al suo interno. Si tratta vale a dire di un tempo che conforma (e dirige) lo spazio, secondo un ordine dunque tempo-spaziale e non spazio-temporale, come indicheremo meglio più oltre. Lo spazio è semmai la risultante del gioco. Il movimento dei pezzi, delle pedine è l’unico riferimento ad un elemento spaziale: l’idea che i pezzi vengano spostati, mutino di posto.
Ma i pezzi sono inerti, sono emanazioni nelle mani appunto del bambino, nella sua disponibilità. Anche a volerlo assimilare, come taluni hanno suggerito, al Demiurgo, l’Âion nel suo correre, nel suo farsi evo, fa e disfa lo spazio al ritmo delle sue manifestazioni.
Nietzsche immagina il fanciullo creare e distruggere i suoi castelli in un luogo sospeso tra il deserto delle sabbie e il liminare del mare. Ed è curioso anche che il termine Âion fosse una derivazione dorica da eion54 che designava il lido del mare o la riva di un fiume: in un luogo che è allo stesso tempo un non-luogo o un luogo-limite anche se non astratto in cui il bambino fa e disfa il proprio gioco. È il formarsi e deformarsi del tempo, della sua occasione, del suo precipitare in un atto, a conformare la materia come forma e poi figura spaziale.
Non vi sono ulteriori determinazioni possibili. Vi è solo un bambino e due verbi declinati al gerundio quali emanazioni del sostantivo. E allo stesso tempo il sostantivo non è propriamente un sostantivo: il bambino è ancora soggetto non strutturato (si nasce come oggetti e si diventa soggetti sosteneva Sartre) è indeterminato, è un novum-diveniens ed è dunque a sua volta esplicitazione dell’Âion, che ha tutta la potenza dell’indeterminazione (vivere per il vivere) che si determina solo in senso temporale, come il corso di una vita intera.
Non vi è possibilità, qui, di distinguere un «tempo della vita» da un «tempo del mondo»: l’ordine esterno del cosmo e il flusso interiore dei vissuti non sono affatto due ipotesi autonome e distinte, sia in considerazione del pensiero greco, che con riferimento al pensiero proprio di Eraclito: il tempo indicato dall’Âion non è astratto, ma concreto e dunque appartenente tanto alla vita del cosmo che a quella di ogni individuo singolarmente55.
“Cadono le distinzioni e le forme, anche quelle dell’intimità e dell’unità, tutto si fa lieve e senza scopo, regna l’eterna gioventù dell’insondabile Âion”56 come ebbe lucidamente a commentare Colli, che purtroppo non fece in tempo a concludere il volume dedicato ad Eraclito57:
E tuttavia, questo regno non è privo di contrasti. Ancora Colli, nel ravvicinare l’Âion a Dioniso, ricorda che, come indicano i testi orfici “Efesto fece uno specchio per Dionisio, e il dio, guardandovi dentro e contemplando la propria immagine, si gettò a creare la pluralità”. Ma una volta posta l’immagine nello specchio, a quella tenne dietro e così fu frantumato nel tutto.
Se fosse però così, osserva ancora Colli “la vita e il fondo della vita sarebbero solo un dio che si guarda allo specchio”.
Ed invece “Dionisio è un fanciullo che gioca con la trottola, la palla, i dadi. Nell’insondabile c’è dunque un gioco – per Colli un gioco violento oltre che ambiguo58 – che è l‘«archè»: in questa è un comando che è una sospensione (…) che accenna allo stato originario – nella sua complessità meglio è designato nell’espressione eraclitea «reggimento di un fanciullo» (14 A18)”59.
Questo è un punto assai rilevante: l’Âion a differenza di Chrónos (che emana il decreto del tempo) non ha a che fare con l’áition (la causa), ma con l’archè (il principio), eppure vi ha a che fare in modo da coincidervi, in quanto esso è il principiare stesso (e per certi versi il bambino è per essenza principiante), è inizio-sempre, è appunto il tempo dell’eterno divenire che è gioco, fuoco che gioca con se stesso accendendosi e spegnendosi (e – dunque – in senso originario archè).
In questo senso, avverte a conclusione Colli, quando Eraclito dice “il sole è nuovo ogni giorno” (14 A 89) non vuole insegnare il divenire, ma opporsi alla tirannia della necessità60 indicare l’arché che – in modo insondabile – è in ogni nuovo ovvero in ogni momento che, nella coincidenza tra divergenti in conflitto, sorge – appunto di nuovo – ogni volta.
Così si intuisce il celebre frammento di Eraclito, che Colli numera con 14 (A 30):
“Il mondo di fronte a noi – il medesimo per tutti i mondi – non lo fece nessuno degli dei e degli uomini, ma fu sempre, ed è, e sarà, fuoco sempre (âei) vivente, che divampa secondo misura e si spegne secondo misura”.
Qui il tratto del divenire sta nel “sempre-vivente”, dunque nel sempre-diveniente, dunque, ancora di un’eternità soggetta al divenire ovvero che co-incide con il divenire stesso.
5. La questione del divenire: rinvio
L’âion non è come chrónos che, come già accennato, viene definito da Aristotele “numero del movimento secondo la prospettiva del prima e del poi”; laddove numero è proprio il senza-ritmo (a-rythmos) che applicato al movimento lo divide e lo enumera in «ora» sempre diversi.
Nel senso di chrónos, l’ora è senza-ritmo perché è sempre un «ora» (dunque numerabile rispetto agli atri «ora») dal quale, rispetto al movimento, si enumerano un ora-non-più e un non-ancora-ora. L’ora si sposta dunque sul movimento come il numero, sia in senso attivo che passivo: il numero scorre sullo scorrere del movimento, così come il movimento viene numerato dal numero (vale a dire – qui nel senso sia di Aristotele dall’anima che enumera o, come direbbe Husserl, dall’atto del numerare). Il numero è cioè numerante e numerato rispetto al movimento.
L’âion invece è rythmos (e dunque non è numero), ritmo delle stagioni, ritmo del gioco che si declina, che smette e riprende e poi torna su se stesso per assumere sempre nuove forme e direzioni. Anche quando il gioco si interrompe questa è solo una pausa ritmica, sospesa, rispetto al divenire che diviene sempre. Nell’âion non c’è un prima e un dopo, i momenti di gioco e di non-gioco sono intimamente e indefinitamente legati gli uni agli altri al punto da formare un’unica unità del giocare o meglio del bambino-che-gioca-se-stesso spostando ogni cosa che lo diverte, lo irrita o lo soddisfa, traslando l’ombra della sua ispirazione e del suo capriccio.
Tuttavia è chrónos che consente di individuare i momenti del gioco, di poter distruggere ciò che si è creato, di poter individuare le pedine del gioco stesso, vale a dire, di poter giocare al gioco che âion gioca. E il tentativo eracliteo è proprio questo: quello di giocare liberamente al gioco necessario di chrónos. Ma è proprio la necessità di chrónos che impone di distruggere e dunque separare che consente all’âion di poter disporre i pezzi liberamente e dunque di assumere la necessità della distruzione come possibilità del suo gioco. Dunque âion sembrerebbe un momento trascendentale in cui la potenza dell’inizio partecipa all’arché: in questo senso, aveva appuntato Colli, c’è un gioco insondabile dell’arché. Tale gioco però anziché rassicurare, in quanto sospinge la libertà alle soglie di quella necessità radicale (e indisponibile) propria del principio, pone l’essere, sin nella sua radice, al cospetto del divenire. Non è infatti l’âion che decide il gioco di chrónos: l’âion gioca (e inventa ogni volta di nuovo il suo gioco) con quello che trova: vale a dire con il tempo che corre nell’unità disomogenea ma continua (ovvero continua proprio perché disomogenea) del vivere.
Dalla rappresentazione eraclitea, si intuisce infatti che tutte le accezioni del tempo richiamate, sono ricomprese in questo gioco del tempo con sé stesso: sia l’exaiphnès, l’idea che in ogni istante – all’improvviso – il gioco possa mutare (e così il senso dell’hemàr del giorno decisivo), così come del momento giusto del kairós in cui operare il passaggio felice attraverso il pertugio della tessitura del gioco ovvero la distruzione – l’un l’altra o l’uno dopo l’altra – secondo l’ordine chrónos di ciò che si è appena costruito ed ha così fatto la sua comparsa per scomparire, sono tutti elementi che sembrano rientrare nel cerchio di Âion, non certo per risolvere la sua decifrabilità o per rivelarne il senso, quanto per complicarne le linee che – ogni volta di nuovo – ha a disposizione per farsi cerchio o ruota, corso della vita.
Il contrasto è all’interno del concetto stesso di anànke, di necessità (che da chrónos si dilata in âion) la quale, come avvertì Nietzsche, va intesa come “il regno nel quale le cose accadono arbitrariamente (casualmente)”61. Tale significato però di necessità-contingenza, di necessità-del-caso, ovvero di necessità-rotta-nella-casualità costituisce già una tensione (intima) tra chrónos e âion. Eraclito, con il concetto di âion, tenta di elevare (e così di liberare) il nesso dell’anànke affidandolo all’istinto di gioco, che può essere casuale, ispirato, secondo regole, contro di esse o semplicemente sregolato, ma che allude a un télos interiore che è quello – non dipendente e dunque indisponibile sia agli dei che agli uomini – del fuoco vivente, vale a dire del vivente in sé e per sé (cosmo o individuo), della forza (quale il termine âion, come abbiamo visto, direttamente riferisce) del finito lanciata – come dadi dalla faccia incerta – sull’infinito divenire (vivere per vivere – e vivere ancora).
Âion e chrónos, allora, sono complici del grande gioco della diversificazione che, nel suo correre e scorrere (in sé stessa) manifesta l’uno – pur manifestandolo, ogni volta di nuovo, lungo l’indefinito molteplice.
Il tempo espresso dall’ âion, in questo senso, non è opposto al tempo della successione di chrónos: âion manifesta solo quale sia il senso sotteso (conteso) di questa successione, rivelando l’impossibilità definitiva di un tale succedere, in quanto ciò che continua (il giocare e il muovere) pre-vale, pre-cede e pre-dice ciò, che sembra isolarsi in individualità. Il divorarsi dei momenti (vale a dire delle individualità estratte dal movimento) non lacera la continuità di creazione e distruzione, che deriva da questo giocare incessante (e dal movimento stesso che ne deriva), giocare che trae la sua inscindibilità proprio per non avere né un inizio né una fine, né tantomeno uno scopo esterno al giocare stesso: che si auto-alimenta come il fuoco che eternamente si spegne ed eternamente si accende, dunque dell’eterno divenire che diviene-sempre proprio perchè non si dilania in momenti tolti e meno che mai astratti, ma continua in sempre nuove forme.
È l’unità a divenire-sempre, ma divenendo, scorrendo come una unità, essa pur manifestando la molteplicità, non si rompe nella molteplicità stessa: o meglio, pur rompendosi nella molteplicità, pur frantumandosi, torna, ogni volta (come il volto di Dionisio diffranto nello specchio) ad essere una. Tale unità, però, non è propriamente una condizione di possibilità del molteplice, è il molteplice stesso, che scorre indefinitamente in sé stesso, ma che, continuando sempre, trova la sua unità proprio in tale continuazione62. Il molteplice-sempre-continuo è un’unità, così come l’uno-che-scorre-sempre è un molteplice: ma questo solo in senso temporale e non logico o, se si preferisce, pre-logico63.
Il divenire-altro e l’uno-che-diviene sono lo stesso; ovvero l’unica unità possibile è il sempre-diverso. L’uno è alterazione-permanente: rivoluzione di stagioni: capriole di un bambino sul limite del mondo, lì dove il linguaggio ancora tace e il logos è solo un balbettio. Questo è il senso dell’âion: ciò che del tempo costituisce la sua non-divisibilità64.
Tale doppia circolarità è dunque il divenire, che non può essere risolto in una mera parvenza, vale a dire in un apparire destinato ad essere tolto a favore dell’essere; né tantomeno sciolto perché contraddittorio (e dunque incapace di superare la confutazione del principio di non contraddizione – l’elenchos)65.
Né il divenire può essere ravvicinato all’essere solo in modo da servire, unicamente, da portatore di predicati dinamici a quest’ultimo. Tali riverberi, a mio avviso, costituiscono fughe metafisiche rispetto non tanto alla fisica come scienza, quanto alla dimensione (che Heidegger non a caso perde di vista) dell’esistenza singola concreta e singolare di ognuno – e dunque a quel corso della vita – da cui, nel senso proprio di Âion, poter misurare o rendere smisurata la successione di Chrónos, senza che nessun rettilineo possa mimare o nascondere la curva sottesa. In questo senso, Eraclito rappresenta l’espressione del pensiero concreto greco della physis, in cui le opposizioni logiche non costituiscono una contraddizione da emendare, bensì il duplice e molteplice volto dell’unità (in quanto questa è tensione di opposti) e che dunque né vi è un dualismo, né, però, tantomeno, un monismo.
Sul punto è decisivo poter comprendere in che modo l’Âion entri a far parte dell’esperienza del singolo vivente.
È necessario indagare che cosa significhi ancora questo divenire continuo ed indiviso che pre-lude o al-lude, per certi versi il-lude (in quanto indice di eternità) in questo gioco incessante (che non è però ludus ma – essenzialmente – paidia) gioco spontaneo e non organizzato, di fanciullo.
Per farlo bisogna arrivare a Nietzsche e, partendo dalla già accennata interpretazione del frammento Eracliteo, tentare di comprendere il suo ultimo pensiero. Non lo faremo con l’intento di ricostruire fedelmente, lungo le diverse e assai discusse interpretazioni possibili, che cosa abbia inteso dire o suggerire Nietzsche nel finale della sua meditazione, bensì ricavare il necessario per istruire la domanda, a partire della nozione di Âion, sull’essenza originaria del tempo.
1 Giacché la domanda sull’essere del tempo rinvia alla temporalità stessa del tempo, alla sua genesi impossibile: cfr. sul punto J. Derrida, Il problema della genesi nella filosofia di Husserl, Jaca Book, Milano 1992.
2 Cfr. il celebre incipit della riflessione sul tempo, laddove emerge il contrasto tra la chiarezza dell’idea immanente del tempo e la sua traducibilità (mediante la formazione del concetto) in parole – e ciò sebbene il tempo sia la parola che familiare. Agostino d’Ippona, Confessioni, Libro XI, 14;17: “Cos’è il tempo? Chi saprebbe spiegarlo in forma piana e breve? Chi saprebbe formarsene anche solo il concetto nella mente, per poi esprimerlo a parole? Eppure, quale parola più familiare e nota del tempo ritorna nelle nostre conversazioni? (…) Cos’è dunque il tempo? Se nessuno m’interroga, lo so; se volessi spiegarlo a chi m’interroga, non lo so”.
3 Il motivo risiede nel fatto che la logica formale è identificante oltre che identitaria, poiché intende determinare il che-cosa di ogni ente (posto o presupposto). In questo senso, se si seguissero fino in fondo le conseguenze della logica formale, come avverte sempre Agostino – e come molti contemporanei arrivano a teorizzare – si potrebbe arrivare a dire che il tempo non esiste. Aggiunge infatti Agostino al suo ragionare: “questo però posso dire con fiducia di sapere: senza nulla che passi, non esisterebbe un tempo passato; senza nulla che venga, non esisterebbe un tempo futuro; senza nulla che esista, non esisterebbe un tempo presente. Due, dunque, di questi tempi, il passato e il futuro, come esistono, dal momento che il primo non è più, il secondo non è ancora? E quanto al presente, se fosse sempre presente, senza tradursi in passato, non sarebbe più tempo, ma eternità. Se dunque il presente, per essere tempo, deve tradursi in passato, come possiamo dire anche di esso che esiste, se la ragione per cui esiste è che non esisterà? Quindi non possiamo parlare con verità di esistenza del tempo, se non in quanto tende a non esistere” (cfr. ibidem).
4 In merito, si segnala lo stimolo fornito dall’uscita del ricco ed innovativo lavoro, in tre volumi, proposto da Livio Sbardella, Riccardo Palmisciano, Andrea Ercolani, La parola e il Canto. Incontri con la cultura e la letteratura greca, 3 voll., Mondadori, Milano 2022, in cui la concezione della temporalità, affiorante dal mondo greco, abbia influito sulla relatività (in senso stretto) dell’autorialità (e dunque dell’autore) rispetto invece all’opera che, in tanto si presumeva rilevante in quanto veniva concepita e vissuta come esperienza collettiva – in occasione di determinate festività, ricorrenze o momenti salienti per la vita della pòlis. Il dato va raccolto anche in senso storico, poiché le opere che sono giunte sino a noi costituiscono solo un’esigua parte di un mondo assai più vario e vasto, fatto – questo – che non può non influire sulla nostra stessa comprensione della cultura greca, così come ci è stata tramandata e verso cui ci accingiamo – ogni volta di nuovo – a rivolgerci.
5 Cfr. sul punto in particolare Paula Philippson, Il Concetto greco di tempo nelle parole Âion, Chrónos, Kairós, Eniautos, in «Rivista di Storia della Filosofia» (1946-1949), Vol. 4, No. 2, Franco Angeli, Milano 1949, pp. 81-97.
6 Ora, è indubbio, avverte Onians, che kairós significa qualcosa come «obiettivo, bersaglio» valore che non poté derivare da quello di «giusta misura» o «opportunità»; ma, al contempo, vi era un altro termine molto simile kaîros e dal significato solo apparentemente lontano (rappresentava un momento della tessitura, l’arte di saper far passare i fili della trama attraverso l’ordito): ma tali termini sembrerebbero in realtà – osserva Onians – essere accomunati dal fatto che così come la freccia doveva attraversare il passaggio verso il bersaglio, così i fili dovevano correttamente transitare attraverso il passaggio dell’ordito verso la trama: in entrambi i casi si tratta di sfruttare un’apertura, un varco, un pertugio: è partire, però, soprattutto, da questo ultimo termine che si comprende il significato di momento critico o di occasione, laddove ad esempio il verbo kairofulakéō significherebbe “aspettare il momento opportuno”. Onians sostiene che Kairós in inglese sia ben reso dal termine nick – che letteralmente significa tacca – ed indica una fessura, una cavità, che risalta in espressioni del tipo “just in the nick” (proprio al momento giusto), come in Sofocle, Aiace. v. 1168ss. Del resto, continua nel suo ragionare Onians, l’idea di un’apertura o di un passaggio sembra spiegare anche il termine latino opportunus, opoprtunitas che deriva da porta, portus che significa primariamente «entrata», «passaggio» (da pòros – da cui poro),che l’importunus, infatti, ostruisce e la dea fortuna della Roma arcaica celebrata (come testimoniato da Plutarco) da un edificio denominato porta fenestella: R.B. Onians, Le origini del pensiero europeo; intorno al corpo, l’anima, la mente, il tempo e il destino, Adelphi, Milano 2011, pp. 419-425.
7 La traduzione di kairós com «tempo debito» è stata particolarmente sostenuta da Marramao (cfr. Giacomo Marramao, Kairós. Apologia del tempo debito, Bollati Boringhieri, Torino 2020), sebbene, a mio avviso, non sia del tutto convincente la sua sovrapponibilità al termine latino tempus, laddove, recuperando la radice indo-europea *krr- e il senso del verbo keránnumi «mescolare», «temperare», giunge alla conclusione che kairós “lungi dal risolversi nel significato di «momento istantaneo» o «occasione» – secondo una tipica ricezione protomoderna del termine – verrebbe a designare, al pari di tempus, la «qualità dell’accordo» e della mescolanza opportuna di elementi diversi – esattamente come il tempo atmosferico”. Eppure è il senso proprio della «opportunità», vale a dire del maturare che rende per così dire visibile solo il risultato: il frutto giunto a maturazione, il momento propizio – rispetto alla mescolanza dei tempi da cui il momento stesso è invece è emerso. In questo senso, il kairós esprime una istantaneità distinta da quella dell’exàiphnes, in quanto non è improvvisa né imprevedibile, quanto semmai instabile e pronta a fuggir via; non è fuori dal tempo, ma è nel tempo stesso, in una forma di misura interna che rende il tempo al tempo (estinguendo così il debito implicitamente imposto dal decreto di chrónos) con la bilancia che si regge in modo precario sul provvisorio indugiare di ciò che matura.
Inoltre, vi è da notare che, come ha contribuito a mettere in rilievo ancora Onians, a differenza del mondo romano, per i greci non vi è una concezione omogenea del tempo; viceversa “per i Romani, il tempo cronologico corrispondeva al tempo atmosferico e viceversa, tempus, tempestas, come si osserva ancora in espressioni come fa cattivo tempo” (R.B. Onians, op. cit., p. 493).
8 Cfr. ad es. come il termine è utilizzato in Platone, Simposio 212 c (quando all’improvviso bussano alla porta ed Alcibiade irrompe nella scena) e 223 b2 (quando all’improvviso giunge alla porta in gran numero gente festante che, trovando la porta aperta, entra e si sdraia assieme a i banchettanti). Come contribuisce a mettere in rilievo Casertano, il termine viene utilizzato anche nelle Leggi 866 d 7 in relazione alle circostanze improvvise e non volute che il legislatore deve prevedere come attenuanti del reato ovvero in 665 b 4 dove si denota meraviglia per qualcosa reputato strano; il termine è utilizzato anche per descrivere ‘una domanda a bruciapelo’ alla quale è difficile rispondere (es. Leggi 712 e 4 e Repubblica 453 c 7): cfr. Cf. G. Casertano, L’istante: un tempo fuori dal tempo, secondo Platone, in A.a.V.v., Filosofia del Tempo, cit., 3-11. Il termine ricorre poi anche nella Repubblica, VII, 515 c 6, allorquando, riprendendo la narrazione sul mito della caverna, si descrive il caso di un prigioniero che viene liberato e viene costretto improvvisamente ad alzarsi, a voltare la testa intorno, a camminare e levare lo sguardo verso la luce, affrontando così il dolore di essere accecato nello sguardo, così abbagliato, all’improvviso, da non poter riuscire a distinguere nessuno degli oggetti veri che lo circondano (516 a 4). Il punto viene messo in risalto da Heidegger, nelle sue lezioni tenute a Friburgo nel 1931-32, laddove, a commento dei miti platonico, fa notare che solo improvvisamente (non già mai gradualmente) il prigioniero potrebbe liberarsi e volgersi verso la disvelatezza dell’essere che, all’inizio, è solo nella misura di un bagliore: cfr. M. Heidegger, L’essenza della verità. Sul mito della caverna e sul «Teeteto» di Platone, Adelphi, Milano 1997.
9 Cfr. Platone, Parmenide, 156c-156e, lì dove si trova scritto: “questo sembra il significato della parola istante (exàiphnes): ciò da cui partono i cambiamenti nelle due opposte direzioni. Non è infatti dall’immobilità ancora immobile, né dal movimento ancora in moto, che c’è il mutamento; ma è questo istante dalla straordinaria natura, posto in mezzo tra movimento e immobilità, e che non è in alcun tempo, ciò verso il quale e dal quale quanto si muove muta nella quiete e quanto è fermo muta nel movimento”.
10 Cfr. Anna Ferrari, Dizionario Di Mitologia Greca e Latina, Ed. Utet, Torino 2018, pp. 6, 115-116. Cfr. G. Marramao, op. cit., p. 7. Il rilievo è presente al Museo di Antichità di Torino.
11 In questo senso, va indicato un altro termine rilevante della concezione greca del tempo: hêmàr (giorno). Hêmàr, come contribuisce a mettere in rilievo Onians, rappresenta il «giorno» inteso “come il continuo mutare del giorno, dall’alba al termine della notte”, come momento di mutamento decisivo, tempo singolare e destino sperimentato dal singolo individuo e non confondibile con altri tempi, anche per suo in senso tragico (il giorno fatale) come ad es. per Ettore in Omero, Iliade, XII,209 ss.: cfr. R.B. Onians, op. cit., p. 493 ss. Tale concetto è connesso, dunque, con il destino, laddove tutti gli altri giorni (i giorni in cui non succede niente di rilevante) sono detti akêriòi, vale a dire senza kêr, senza destino e, in generale, con la concezione disomogenea del tempo di cui il kairós è traccia.
12 Si tratta specialmente dei seguenti lavori, che citerò nella forma abbreviata indicata tra parentesi quadre, tutti a mio nome: 1) Tempo e Multiverso: indagine fenomenologica sulla struttura originaria del tempo (Stamen, Roma 2009) [Tempo e Multiverso]; 2) Passato e memoria: ritenzione, ricordo, rimemorazione e riflessione nella prospettiva fenomenologica di Edmund Husserl [Rivista della Scuola Superiore dell’Economia e Finanze, Anno III, marzo 2006 [Passato e Memoria]; 3) Il tempo come redenzione delle cose che sono: la concezione del tempo in Cacciari, Severino, Natoli, Vattimo e Garimberti in La terra e l’istante: filosofi italiani del 900, (a cura di) P. Gilbert, (Roma 2005) [Tempo come Redenzione]; L’implicazione nel tempo nella metafisica moderna. Una riflessione su Kant e Heidegger, Leussein 2010 [Tempo nella Metafisica];4) Sulla Tirannia: Riflessioni filosofico-giuridiche sul potere instabile e senza-misura, Leussein 2020, [Tirannia].
13 Manterremo, tendenzialmente, l’iniziale della lettera maiuscola sia in rispetto del modo in cui il termine viene spesso riportato nei testi, sia con riferimento alla sua natura divina ovvero di nome proprio; tenderemo a renderlo con la lettera minuscola, viceversa, quando il contesto (sia per le citazioni riportate che per la discorsività del ragionamento) lo richiede.
14 Ippocrate, Le epidemie 7.122. B. «midollo spinale».
15 Stesso concetto si trova espresso in Iliade, II, V, 685, quando Sarpedone supplica Ettore di salvarlo, per conservare l’Âion.
16 cfr. G. Semerano, Dizionario Etimologico Greco Antico – Le Origini della Cultura Europea, Leo S. Olschki Editore, Firenze 1994, voce Âion (p.14)
17 Cfr. P. Philippson, op. cit., p. 81 ss.
18 Cfr. R.B. Onians, op. cit., p. 250ss.
19 Ciò è tanto vero, se si pensa al termine composto âiono-bìos traducibile come immortale, come se un rafforzativo di vita-vita avesse il potere di trascendere la morte.
20 Cfr. L Rocci, Vocabolario Greco-italiano, Società Dante Alighieri, Roma (1943) 1981, voce «zoè».
21 Per il dizionario Rocci, âion derivazione dorica da eion (lido riva): tempo durata vita, età, lungo tempo, secolo, eternità; Ex âionos: da una vita, da che mondo e mondo, dall’eternità; Dia âionos: nel corso dei tempi, attraverso i tempi; Eis ton âiona tou âionos; In saeculum saeculorum nei secoli dei secoli; âionos: perpetuo, eterno; âiono-bìos: immortale; âiono-pureion: fuoco eterno; âionisma: ricordo eterno (cfr. Rocci, Dizionario Greco-Italiano); per Semerano, âion significa in Omero essenzialmente il vigore vitale; vita, durata della vita, tempo, generazione; età, secolo; âei: sempre, per tutta la vita, per tutto il tempo. Lo riconduce all’aramaico haja fenicio hwi e all’ebraico aia (vivere) cfr. G. Semerano, Dizionario Etimologico Greco Antico – Le Origini della Cultura Europea, Leo S. Olschki Editore, Firenze)
22 Sul punto, va posta una precisazione. L’âion è traducibile come «eone» ovvero come «evo», in quanto designa un corso del tempo che si è già compiuto in una qualche – pur impossibile – unità. Anche quando noi stessi tentiamo di distinguere le fasi della nostra vita, quasi fossero tempi in sé definiti che abbiano maturato il loro senso ultimo per favorire l’avvento di un diverso tempo, tentiamo in fondo di distinguere o dar forma a un flusso, di arrotolarlo per farne una figura; il tentativo è quello di isolare un tratto temporale e di piegarlo, in qualche modo, sfruttando i punti in cui la materia stessa degli eventi racchiusi si presta d’esser piegata, attraverso curve e bisettrici, secondo una geometria suscettibile di formare una architettura dei tempi, che, essendo andati, hanno perso la loro spazialità.
23 Cfr. Aristotele, Fisica, Libro D, cap.10-14
24 P. Philippson, op. cit., p. 82. Âion, sostiene la Philippson, designa il concetto di durata libera da ogni rapporto di necessità (cronologica) di Chrónos e come tale “non può avere né inizio né conclusione” giacché “inizio e conclusione spezzerebbero la durata o alla fine o al principio, essa cesserebbe di essere durata, cesserebbe di durare”; in quanto durata senza limite tale termine è stato associato sia all’indeterminatezza (dell’àpeiron e dell’àspetos) che all’eternità. Sotto tale profilo, nota ancora la Philippson, in Empedocle, âion è intrecciato con àspetos quale lo spazio che abbraccia i due principi originari Amore e odio la cui mescolanza e separazione, penetrazione e allontanarsi viene causato tutto il divenire e il perire: “in verità come essi (l’amore e la discordia) prima furono, così ancora saranno; né mai, credo, d’ambedue vacuo sarà il tempo (âion) infinito”.
25 Da un certo punto di vista, âion sembra contrapporsi, almeno apparentemente, a kairós, nella misura in cui quest’ultimo designa invece un tempo qualitativamente distinto: il tempo giusto affinché qualcosa si compia (come il tempo maturo del raccolto, o il tempo opportuno per dire qualcosa).
âion e kairós sembrano contrapposti, in particolare, laddove il primo indica un intero corso di tempo senza finalità, mentre il kairós designerebbe quel momento qualitativo in cui il tempo giunge a maturazione, indicando il tempo giusto affinché qualcosa si compia (come quando si dice “a tempo debito”).
La contrapposizione è però solo concettuale, dal momento che, sotto il profilo fenomenologico, il kairós è solo un momento, qualitativamente distinto, emerso nella successione dei momenti nel senso di chrónos, destinato però ad essere ricompreso nel cerchio incessante del divenire, dunque come ritmo interno al divenire stesso. Il kairós, pur designando un momento diverso, dal punto di vista del flusso di vita, non si pone come arythmòs (come senza-ritmo, dunque come “numero numerante” del divenire stesso) ma come ritmo posto sul limite dell’istante, tra passato e futuro.
Se però il kairós sia stato davvero il tempo giusto giunto a maturazione (come appare nel tempo cronologico) lo si deve misurare nella difficile (perché smisurata) manifestazione dell’intero corso di una vita – e questo può rendere la difficoltà della lettura storica degli eventi (vale a dire dell’elemento qualitativo del tempo applicato agli accadimenti)
26 Il kairós esprime un momento tangente alla circolarità: il bambino che sta in equilibrio sulla sfera (con la bilancia del tempo quale giudice delle cose che sono e non sono) comporta il giudizio – vale a dire il taglio – del tempo (interruzione e ripartenza) affinché il momento sia speciale o non confondibile con un altro. In questo senso, esso – come contribuisce a mettere in rilievo François Hartog – è collegato al concetto di krìsis: “Alla coppia concettuale, formata da chrónos e kairós, si deve inoltre aggiungere un terzo elemento, krìsis, che, pur senza essere direttamente temporale, implica un’operazione sul tempo. Krìsis, che indica il giudizio, deriva dal verbo krìnein, che significa separare, decidere, scegliere, sottoporre a giudizio. In modo forse simile alle etimologie di chrónos e di kairós, ritroviamo l’azione del tagliare, che si traduce in una sorta di contrazione del tempo e nella creazione di un prima e un dopo”. (F. Hartog, Chrónos. L’occidente alle prese con il tempo, Einaudi, Torino 2022, ebook, p.32)
27 Sul punto, cfr. ad es. R. Mondolfo, L’infinito nel pensiero dell’antichità classica, Bompiani, Milano 2012, p. 62 ss., che contiene il testo integrale de L’infinito nel pensiero dei Greci apparso nel 1934
28 Ōkeanós è, come noto, per greci, una divinità-fiume che circonda il mondo, la cui parte superiore è il cielo (Ouranos) e quella inferiore la terra (Tàrtaros). Si tratta di un fiume ininterrotto che fluisce in se stesso alimentando una infinita potenza generatrice. Figlio del cielo e dalla terra (Gaῖa), Okeanós è un titano dunque una pre-divinità o prima divinità (i primi ed antichi dei) – termine titano (Titάn) che Esiodo fa discendere (pur se in modo discusso) dal verbo titaìnein (produrre uno sforzo); Ōkeanós avrebbe dato avvio, assieme a Tèthýs (termine derivato dall’accadico tiamtu o tâmtu – mare – e da tîtthe – prendersi cura), alla generazione di tutte le cose.
29 Onians, op. cit., p. 300: “Così per Omero, che richiama allusivamente la concezione condivisa dai suoi contemporanei, l’universo aveva la forma di un uovo cinto da Ōkeanós, che è la generazione di tutto”· Identificata con il liquido della procreazione, o ritenuta immersa in esso, la psiche era pneuma Si può quindi intendere come un sopravvivere della più antica concezione greca la rappresentazione attribuita da Epifanio a Epicuro, il quale pronunciò quella che si può definire l’ultima parola della scienza greca circa la struttura dell’universo. A lui si attribuisce l’affermazione che «il tutto era da principio come un uovo, e lo pneuma in forma di serpente, avvolgendosi intorno all’uovo come una corona o una cintura, compresse allora l’universo. La medesima concezione appare in due versioni della cosmogonia orfica che si possono ora correlare: l ) l’uovo cosmico fu generato da un vento; 2) esso fu generato da un serpente che fuoriuscì dall’acqua e dal fango;” la parte superiore dell’uovo divenne Oupavoç, la parte inferiore Terra, che com prende nelle regioni infere il Tartaros. Si capirà meglio, inoltre, perché in questa versione orfica il serpente fosse chiamato Chrónos e perché, a chi chiedeva che cosa fosse Chrónos, Pitagora rispondesse che era la psyche dell’universo. Come si è appena visto, secondo Ferecide, dal seme di Chrónos sarebbero stati prodotti fuoco, aria e acqua. Tale concezione di Chrónos, il cui usuale significato è «Tempo», può essere collegata a quella di Âion, che non solo rappresentava il fluido vitale della procreazione con cui si identificava la psyche(cfr. pp. 135 sgg.), il midollo spinale che si credeva assumesse forma di serpente, ma giunse a significare «vita» (intesa come durata), «periodo di tempo», quindi «eternità». Per Pindaro Âion denotava, oltre al fluido vitale, anche un destino cui non si resiste, un che controlla la vita. È il nome assegnato da Eraclito alla forza che ha il controllo sui mutamenti del mondo”. Per gli Orfici, Chrónos si affiancava ad Ananke, «Necessità», che a sua volta, secondo i Pitagorici, circonda l’universo.3 Emergerà più avanti (pp. 527 sgg.) come per i primi Greci tempo e destino fossero dei circoli: il processo del tempo era il movimento del cerchio intorno alla terra”
30 Il noto frammento (parte dell’opera in larga parte perduta «sulla natura» perì physeo) è riportato nell’opera di Simplicio: “principio degli esseri è l’illimitato (ápeiron) da dove infatti gli esseri hanno l’origine, lì hanno anche la distruzione secondo necessità, poiché essi pagano l’uno all’altro la pena e l’espiazione dell’ingiustizia secondo l’ordine del tempo”.
31 Tale continuità non deve essere intesa come omogeneità, né come contiguità spaziale dei punti, bensì come concrezione, come il fluire l’uno nell’altro di momenti che dunque non sono divisibili quanto al flusso. L’Âion, sotto questo aspetto, mai potrebbe designare un tempo astratto (e anche laddove lo si intendesse come il tempo-eterno o tempo-idea in Platone non dovrebbe essere pensato in astratto).
32 Cfr. Euripide, Eraclidi v. 899-900; il passo è il seguente: «Molte cose compie Moira, che adempie, e Âion, il figlio di Chrónos (Âion paìs chrònou)»
33 Hartog riassume così, però, il punto: “Aporetico, anche in greco Chrónos è il luogo di una confusione o l’occasione di un equivoco rivelatore. Esistono, infatti, Chrónos, il tempo, la cui etimologia è sconosciuta, e Kronos, il personaggio mitico. Figlio di Urano e di Gaia, Kronos è famoso per aver castrato suo padre Urano (su esplicita richiesta della madre). Ottenuto cosí il potere, egli sposa Rea, e da quel momento s’impegna a divorare i suoi figli al momento della nascita per evitare di essere, a sua volta, detronizzato da uno di loro.” (Cfr. F. Hartog, op. cit., p. 19)
34 Cfr. J.M.E. McTaggart The unreality of Time, in «Mind» 1908, 17, pp.457-474, lì dove si distingue tra la relazione passato-presente-futuro (tensed time) e la relazione tra prima e dopo (tenseless time), cioè tra quelle che secondo il linguaggio, oramai diffuso, introdotto da McTaggart costituiscono le A-series del tempo e le B-series dello stesso.
35 F. Nietzsche, Aurora e Frammenti postumi (1879-1881), Adelphi, Milano 1998, 4[288]
36 Platone, Timeo 37 a – 37 b, 38 a – 38 b, in Opere Complete Vol. VI, Laterza, Bari 1957: “Poiché il padre, che l’aveva generato, vide muoversi e vivere questo mondo divenuto immagine degli eterni dèi, se ne compiacque, e pieno di letizia pensò di farlo ancor [d] più somigliante al suo modello. Come dunque questo è un animale eterno, così anche quest’universo egli cercò, secondo il suo potere, di renderlo tale. Ora, la natura dell’anima era eterna, e questa proprietà non era possibile conferirla pienamente a chi fosse stato generato: e però pensa di creare una immagine mobile dell’eternità, e ordinando il cielo crea dell’eternità che rimane nell’unità un’immagine eterna che procede secondo il numero, quella che abbiamo chiamato tempo. E i giorni e le notti e i mesi [e] e gli anni, che non erano prima che il cielo nascesse, fece allora in modo che anch’essi potessero nascere, mentre creava quello. Tutte queste sono parti di tempo, e l’‘era’ e il ‘sarà’ sono forme generate di tempo, che noi inconsapevolmente riferiamo a torto all’eterna essenza. Invero noi diciamo ch’essa era, che è e che sarà, e tuttavia solo l’è [38a] le conviene veramente, e l’era’ e il sarà’ si devono dire della generazione che procede nel tempo: perché sono movimenti, mentre quello, che è sempre nello stesso modo immobilmente, non conviene che col tempo diventi né più vecchio né più giovine, né che sia stato mai, né che ora sia, né che abbia ad essere nell’avvenire; niente insomma gli conviene di tutto ciò che la generazione presta alle cose che si muovono nel sensibile, ma sono forme del tempo che imita l’eternità e si muove in giro secondo il numero? [b] E inoltre noi diciamo anche il divenuto è divenuto, e il divenente è divenente, e così quello che è per divenire è per divenire, e quello che non è non è; ma nessuna di queste cose noi diciamo esattamente. Ma forse non sarebbe opportuno nel momento presente indagare di ciò con sottigliezza.”.
“Il tempo dunque fu fatto insieme col cielo, affinché, generati insieme, anche insieme si dissolvano (…) e fu fatto secondo il modello dell’eterna natura, affinché le sia simile quanto [c] più possa. Perché il modello esiste per tutta l’eternità, e il cielo per tutto il tempo sino alla fine è esistito, esiste ed esisterà. Adunque per tale ragionamento e pensiero di dio intorno all’origine del tempo, affinché il tempo fosse creato, furono fatti il Sole e la Luna e altri cinque astri, che si dicono pianeti, per distinguere e guardare i numeri del tempo”.
37 Cfr. V. Macchioro, Eraclito. Nuovi studi sull’Orfismo, Laterza, Bari 1922, p. 32ss. che conferisce al frammento tutt’altro significato, sostenendo l’autore, sulla base della testimonianza di Clemente Alessandrino (oltre che di Ippolito), la provenienza delle teorie di Eraclito dall’orfismo. Su questa traccia, identifica il bambino con “Zagreus, nato da Zeus e Core, lacerato dai Titani, fatto rinascere dal padre, distino e pure identico a lui” (p. 33) – al che Eraclito avrebbe affermato che “il padre e il figlio sono lo stesso”. Zagreus altri non è poi che Dionisio, divinità polimorfa, uno e plurimo in quanto identificato e pur distinto da Zeus; veniva spesso raffigurato con i dadi, a cui il regno sarebbe stato affidato che fu risorto.
38 In questo senso il gioco come «paidia», come ha messo ben in rilievo Caillois, è assai distante dal gioco come ludus, dal gioco organizzato e regolato. Esso indica il gioco spontaneo e destrutturato, come il gioco di fare chiasso o di correre per non farsi prendere, senza un campo di delimitazione e senza una regola precisa. Cfr. R. Caillois, I giochi e gli uomini. La maschera e la vertigine, Bompiani, Milano 1981, p. 44ss. il quale altresì avverte: “ho scelto il termine paidia perché ha la stessa radice della parola bambino (…) ma il sanscrito kredati e il cinese wan appaiono più ricchi e al tempo stesso più rivelatori, per la varietà e la natura dei loro significati annessi (…) Kredati indica il gioco degli adulti, dei bambini e degli animali. Si applica segnatamente al salto, alla capriola, vale a dire ai movimenti bruschi e bizzarri provocati da un eccesso di allegria o vitalità- Si usa anche per le relazioni erotiche illecite, per il moto delle onde e per tutto ciò che ondeggia al vento” (p. 46).
39 Cfr. Eraclito – I frammenti e le testimonianze (a cura di Carlo Diano e Giuseppe Serra) Fondazione Lorenzo Valla – Mondadori 1989, pp. 152-153.
40 Ivi, p. 152: il gioco (paidìa) è cosa da bambini, e il bambino è nepios, infans, e sprovveduto. Ma questo gioco con pessòi vuole abilità ed intelligenza”.
41 Cfr. Ivi, p. 153: “L’allitterante giuntura pàizon pesséuon è dunque, per così dire, un ossimoro, che non è lecito risolvere in maniera banale, supponendo che il bimbo non comprende le regole del gioco (Snell). A non comprendere il gioco è piuttosto l’uomo: è l’uomo il vero bambino rispetto a quel ‘fanciullo divino’ che è il tempo”.
42 Cfr. ibidem
43 Cfr. F. Nietzsche, Werke, II, Herausgegeben von K. Schlekta, III, pp.300-302 La filosofia dell’età tragica dei greci, Newton, Roma 1989, p.242, laddove scrive: “Un nascere e un perire, un costruire e un distruggere, che siano privi di ogni imputabilità morale e si svolgano in un’innocenza eternamente uguale – si ritrovano in questo mondo solo attraverso il giuoco dell’artista e del fanciullo. Come giuocano il fanciullo e l’artista, così il fuoco eternamente vivo giuoca, costruisce e distrugge in piena innocenza. Questo è il gioco che l’Âion giuoca con se stesso. […] Un attimo di sazietà, e poi egli è colto di nuovo dal bisogno, così come l’artista è costretto a creare dal bisogno. Non è la scelleratezza, bensì è l’impulso a giuocare, risorgente sempre di nuovo, che suscita alla vita altri mondi. Talvolta il fanciullo getta via il suo giocattolo, ma tosto lo riprende, per innocente capriccio. E non appena costruisce, egli collega, adatta e forma in obbedienza ad una legge e in base ad un ordine intimo Soltanto l’uomo estetico può contemplare il mondo in questa maniera: egli ha sperimentato nell’artista e nel sorgere dell’opera d’arte […] in quale misura necessità e giuoco, contrasto e armonia debbano accoppiarsi per generare l’opera d’arte. […] Eraclito non ha alcuna ragione per dover dimostrare (come accadde invece a Leibniz), che questo mondo è addirittura il migliore di ogni altro: a lui basta dire che esso è il gioco bello e innocente dell’Âion. […] Eraclito descrive soltanto il mondo esistente, e trae da esso il diletto contemplativo con cui l’artista contempla il sorgere della sua opera”.
44 Ricollegandoci a quanto delineato in precedenza, infatti, non è pensabile, scrive Wittgenstein, il “seguire una regola da parte di un solo uomo una sola volta nella vita”, come non è concepibile “seguire una regola privatim”, perché credere di seguire una regola non è seguire una regola. Credere di seguire una regola è, sotto questo profilo, un come-se vi fosse una regola diversa dalla regolarità della consuetudine o del costume che contraddistingue una comunità. Qui, afferma Wittgenstein, “corre la differenza fra avere un’ispirazione e seguire una regola”: L. Wittgenstein, Ricerche filosofiche, Einaudi, Torino 1974, p. 107 ss.
45 E. Zeller, R. Mondolfo, La filosofia dei Greci nel suo sviluppo storico; parte prima vol. IV: Eraclito, La Nuova Italia Editrice, Firenze 1968, pp. 25-26.
46 E. Zeller, R. Mondolfo, op. cit., pp.64-65. Tali autori, nel commentare le interpretazioni possibili del frammento eracliteo sull’Âion, solo per dare un’idea della varietà, nell’esprimere la loro interpretazione, riportano quanto segue (pp. 67-68): “Nel paragone dell’Âion con un fanciullo che giuoca, il punto di paragone non starà certo nella mancanza di finalità del suo operare, ma neppure (Teichmuller II 194 sgg.; Pfleiderer, 110 sgg.) nel calcolo e nella previsione necessari per il giuoco a tric-trac (che appunto nei fanciulli che giuocano soglion esplicarsi in misura assai modesta); bensì nel fatto che nel mondo nulla ha una posizione stabile, e che anzi tutto è posto dall’Eone, cioè dal corso del mondo (che per il nostro filosofo coincide con la divinità), ora qui ora là con potere illimitato. Significato cosmico gli attribuì pure Schaefer (Herakl. p. 46) riferendolo al ciclo delle conflagrazioni universali da cui il cosmo sempre risorge e il tempo attinge la sua eterna giovinezza di fanciullo. Significato cosmico gli conferisce anche C. J. de Vogel (in Greek Philos., Leiden 1950, p. 36), spiegando: «l’eterno processo di formazione del cosmo e suo dissolvimento nel fuoco è simile al giuoco del fanciullo che costruisce e abbatte: difficilmente il frammento può significare altra cosa». Fra il cosmico e l’umano è il senso che gli dà Burnet (Early Greek Philosophy, §75): «il vivente e il morto si scambiano continuamente il loro posto come le pietruzze sul tavoliere di un fanciullo». E un significato cosmico e umano insieme appare nella spiegazione di Gilbert, il quale collega B 52 con B 50, e sulle orme della presentazione che fa Ippolito di entrambi, scrive in Griechische Religionsphilos. p. 62 che «di fronte alla ragione unitaria della sostanza divina (logos) sta il suo sviluppo temporale nella storia come Âion, e il cosmo sta come figlio generato di fronte al genitore divino, e di fronte all’unico dio sta il suo spiegamento cosmico. poiché 1a forza unitaria di Dio traversa tutte le formazioni cosmiche anche come corrente etica, come dikâion. Qui è l’Âion». Cosi per lui si presenta in B 52 «l’evoluzione temporale del cosmo, considerata dal punto di vista umano». Analoga fusione di cosmico e di umano troviamo nell’interpretazione di Mazzantini (Eraclito, pp. 98 e 241 sgg.) che, d’accordo col Brecht (Heraklit, Heidelberg 1936). vede nella prima parte del frammento accentuato il senso cosmico stretto con quello umano che fa da mediatore, rivelando in sé il cosmico ~ e nella seconda parte (del regno) vede accentuato un senso supercosmico o di trascendenza; ma contro Brecht nega che il paragone de fanciullo abbia un carattere «svalutativo», perché anzi esprime la freschezza del perenne rinnovamento che in qualche modo imita l’eternità”.
47 cfr. G. Gadamer, L’attualità del Bello, Marietti, Genova 1986, p. 24 e p. 179; Cfr. G. Gadamer, Verità e Metodo, Bompiani, Milano 1992, p. 134-135. In questo senso, Gadamer, parla di un gioco estetico, come quello delle onde, semovente ed auto-esplicito; scrive Gadamer: “il senso originario del verbo giocare è quello mediale. Così diciamo per esempio che qualcosa in una certa situazione o in un certo luogo «gioca», che qualcosa si svolge (sich abspielt), che qualcosa è in gioco”.
48 E. Fink, Spiel als Weltsymbol, W. Kohlhammer, Stuttgart 1960, trad. it., Il gioco come simbolo nel mondo, Hopefulmonster, Firenze 1992.
49 Sul punto, come ricordato ancora in Zeller-Mondolfo (op. cit., p. 63), c’è un elemento dal quale non par opportuno prescindere, ed è la presentazione che fa Ippolito di B 50 e B 52, asserendo che Eraclito attribuiva all’universo coppie di predicati opposti, una delle quali è logos-âion, e dichiarando che Eraclito afferma che l’universo è un fanciullo, re eterno di tutte le cose attraverso l’eternità. È evidente pertanto che egli attribuiva al frammento un significato cosmico, e nel cosmo vedeva il giuoco del fanciullo e il suo regno; e a farci credere che tale interpretazione dovesse in qualche modo esser suggerita dal contesto eracliteo che egli aveva a sua disposizione, sta il fatto che, indipendentemente da lui, Proclo (in Tim. 101) parla del demiurgo che secondo Eraclito giuoca nel fare il cosmo, e Clemente (Paedag. I 5) parla di Zeus che, al dir di Eraclito, giuoca un giuoco di fanciulli”.
50 Scrive sul punto Nietzsche (in parte venendo incontro a Schopenhauer): “Come sua proprietà regale, Eraclito ha una forza suprema di rappresentazione intuitiva. Verso l’altra specie di rappresentazioni che si attua nei concetti e nelle combinazioni logiche, ossia verso la ragione, Eraclito si mostra invece freddo, insensibile, anzi ostile, e sembra provar piacere quando può contraddire la ragione con una verità acquisita intuitivamente. Egli fa questo in affermazioni come «ogni cosa ha sempre in sé il suo opposto», con una tale franchezza, che Aristotele lo incolpa, di fronte al tribunale della ragione, del più grave delitto, ossia di aver trasgredito il principio di contraddizione. Ma la rappresentazione intuitiva comprende due cose: da un lato il mondo immediato, variopinto e mutevole, che si impone a noi in tutte le esperienze, d’altro lato le condizioni che sole rendono possibile ogni esperienza di questo mondo, ossia tempo e spazio. Questi, infatti, anche se sono privi di un contenuto determinato, possono venire percepiti in modo intuitivo, cioè intuiti, indipendentemente da ogni esperienza e puramente in sé. Eraclito, orbene, considerando a questo modo il tempo, a prescindere da ogni esperienza, trovava in esso il più istruttivo monogramma di tutto ciò che può cadere nel campo della rappresentazione intuitiva” (F. Nietzsche, La filosofia nell’età tragica dei greci, cit., p. 234).
51 F. Nietzsche, La filosofia nell’età tragica dei greci, cit., p. 237
52 Sul punto, la maggioranza degli interpreti (tra cui Jaeger, Heidegger, Snell, Binswanger e Colli) pur nelle differenze delle loro interpretazioni, concordano sull’idea che in Eraclito tutte le realtà appartengano all’unica natura (physis) e che dunque la contrapposizione non da l’accesso a un vero e proprio dualismo. E così, ad esempio, Heidegger, ricorda che nel pensiero greco arcaico la physis designasse “tanto il cielo che la terra, la pietra come la pianta, sia l’animale che l’uomo, nonché la storia umana quale opera congiunta degli dei e degli uomini” e pertanto non vi fosse contrapposizione tra il fisico, lo psichico, lo spirituale, l’animato e il vivente (M. Heidegger, Introduzione alla metafisica, Mursia, Milano1966, pp. 26-27). Anche Jaeger è convinto che «l’intuizione immediata del processo della vita umana» in Eraclito abbraccia l’elemento spirituale e il fisico, in un’unità singolarmente complessa, come una biologia comprendente entrambi questi emisferi (W. Jaeger, Paideia, La Nuova Italia, Firenze 1953, p. 338).
53 Cfr. ancora la ricostruzione di Zeller-Mondolfo (ibidem), laddove citano il lavoro della Clémence Ramnoux (Héraclite ou l’homme entre les choses et les mots, Société d’Édition Les Belles Lettres, Paris, 1968) in cui viene richiamato il verso di Eschilo (Agam. 56) che parla di altissime divinità (Apollo, Zeus, Pan) per provare che l’âion può esser preso come la divinità che vede sempre un senso nelle figure della scacchiera del mondo ove noi siamo le pedine, spesso incapaci d’intenderne il significato.
54 Cfr. Diz. Rocci, cit., voce «aion».
55 Cfr. Eraclito, I frammenti e le testimonianze (a cura di Carlo Diano e Giuseppe Serra) Fondazione Lorenzo Valla – Mondadori 1989, p. 152: “Che si tratti di tempo in senso generale ed astratto è impossibile, sia per la qualità della parola greca, sia per l’epoca alla quale il frammento appartiene. Ma ciò non impedisce che âion, se significa il “tempo della vita” (…) significhi insieme il tempo del mondo: si tratterà infatti di quel tempo concreto che abbraccia gli eventi vissuti dall’uomo. Saremmo obbligati a scegliere tra tempo della vita e tempo del mondo, solo se potessimo assumere in Eraclito una concezione astratta del tempo (cfr. E. Degani, Âion da Omero ad Aristotele, Padova 1961, pp.75-76)”
56 G. Colli, op. cit., pag. 35, p. 188.
57 G. Colli, La Sapienza Greca, 3 voll., vol. 3, Adelphi, Milano 1993, pag. 35; così traduce il frammento 52 che lui enumera come 14 (A 18): “Il corso del tempo è un fanciullo che gioca spostando i pezzi sulla scacchiera: è il reggimento di un fanciullo”.
58 Questo istinto al gioco è ambiguo, avvertì Colli nei suoi appunti, giacché “ciò che è godimento di un impulso è anche sofferenza di un’oppressione: questa ambiguità, questa oscurità su di sé è intollerabile, la pena di questa coincidenza stabilisce il comando di chiarificazione, è lo specchio che divide gioia dal dolore. Il comando giocondo, arbitrario, casuale si biforca nell’espressione attraverso le categorie del necessario e del contingente. Nell’arché dev’essere presente anche la sospensione, il librarsi, il lasciare indeciso, perché quella coincidenza non può mai essere superata…” (G. Colli, op. cit., p. 190)
59 Ibidem
60 Ibidem.
61 F. Nietzsche, Aurora e Frammenti postumi (1879-1881) – in Opere Vol V, tomo 1, Adelphi, Milano 1967, 4[288]
62 Fränkel a questo proposito sostiene che per Eraclito l’intero e le parti si co-appartengono inscindibilmente (al punto che le parti non sono parti), in quanto l’unità del tutto presupponga che il tutto stesso comprenda in sé la molteplicità e, comprendendola, vi coincida (cfr. H. Fränkel, Poesia e filosofia della Grecia arcaica. Epica, lirica, prosa greca da Omero alla metà del V secolo, Il Mulino, Bologna 1997, p. 543).
63 E sul punto si contesta, anche sotto tale profilo, l’utilizzo dell’élenchos – della confutazione logica – operata da Severino, per dimostrare che il tempo, in sostanza, è solo l’epifenomeno dell’eternità – intesa come a-temporalità. Sul punto, cfr. il mio Il tempo come redenzione delle cose che sono, cit., §§ 5, 6 e 7.
64 Sul punto dunque – pur discostandoci dallo sviluppo del suo pensiero – ha ragione Deleuze, quando osserva che mentre Chrónos sottintende un presente consistente capace di assorbire (ed annullare) il passato e il futuro vanificando, così, lo sforzo stesso di tale consistenza, facendola desistere, – un presente che avendo un’estensione si farebbe suddividere in senso logico e cronologico in modo da poter separare le cose e separare la cosa in sé stessa, nell’Âion sono il passato e il futuro a manifestare la loro forza quasi erodendo qualsiasi ipotesi di presente ad un barlume, ad un istante privo di estensione, diremmo, a un guizzo di gioco su cui non potrebbe poggiare nulla: cfr. Gilles Deleuze, Logica del Senso, Milano, Feltrinelli editore, 2005 p. 147. Ma proprio perché l’istante si sottrae all’estensione, come meglio vedremo più oltre, l’Âion resta non divisibile e così anche il cerchio dell’apparire che recupera le schegge della diffrazione cronologica per un’unica unità di tempi che corrono: il corso – appunto – di una vita.
65 Proprio in questo ritornare a Parmenide, esercitato da Severino, sulla base di confutazioni logiche elevate a posture ontologiche, si scagliava già – ante litteram – Nietzsche, laddove, proprio su Parmenide annotava: “Come Eraclito, così anche Parmenide osserva l’universale divenire e l’universale instabilità: egli non può interpretare il perire se non attribuendone la colpa a ciò che non è. Ciò che è, in effetti, come potrebbe addossarsi la colpa del perire? D’altro canto anche il nascere deve aver luogo con l’aiuto di ciò che non è: ciò che è infatti esiste sempre e da sé solo non potrebbe mai sorgere né spiegare la nascita. Tanto il nascere quanto il perire sono quindi causati dalle qualità negative. Il fatto tuttavia che tutto quanto nasce abbia un contenuto e tutto quanto perisce perda un contenuto presuppone che le qualità positive – ossia appunto quel contenuto – partecipino anch’esse a entrambi i processi. In breve, vien fuori la proposizione: «per il divenire si richiede tanto ciò che è quanto ciò che non è; quando entrambi collaborano, ne risulta un divenire». Ma il positivo e il negativo come possono accostarsi l’uno all’altro? Non dovrebbero forse, al contrario, fuggirsi eternamente, come qualità opposte, rendendo in tal modo impossibile qualsiasi divenire? A questo punto Parmenide si appella a una qualitas occulta, a una tendenza mistica che spinge gli opposti ad avvicinarsi e attrarsi, e simboleggia quel contrasto attraverso il il rapporto reciproco – empiricamente noto – fra il maschile e il femminile. La potenza di Afrodite è quella che accoppia gli opposti, ciò che è con ciò che non è. Un desiderio riunisce assieme gli elementi contrastanti che si odiano: il risultato è un divenire. Se il desiderio è saziato, l’odio e l’intimo dissidio separano nuovamente ciò che è da ciò che non è, e in tal caso l’uomo dice: «la cosa perisce”. E ancora: “Ma nessuno può impunemente mettere le mani addosso ad astrazioni così terribili, quali «ciò che è» e «ciò che non è»: il sangue lentamente si raggela, quando le si tocca. Ci fu un giorno in cui Parmenide ebbe una singolare idea, che sembrò togliere valore a tutte le sue precedenti combinazioni, tanto che gli venne voglia di gettarle “via come si getta via un borsellino pieno di vecchie monete consunte. Di solito si ritiene che a spingerlo alla scoperta di quel giorno sia stata altresì un’impressione esterna – e non soltanto le conclusioni che egli si sentiva spinto internamente a trarre da concetti quali «che è» e «che non è» – ossia la conoscenza da lui fatta con la teologia del vecchio Senofane di Colofone, rapsodo che aveva molto viaggiato e cantore di una mistica divinizzazione della natura”. A differenza di questi però “Parmenide giunge all’unità dell’essere unicamente per mezzo di una presunta illazione logica, traendola dal concetto di essere e di non essere”. E così “egli esaminò le sue due antitesi cospiranti, il cui desiderio e il cui odio costituiscono il mondo e il divenire, ossia esaminò ciò che è e ciò che non è, le qualità positive e quelle negative, rimanendo d’un tratto perplesso e diffidente di fronte al concetto della qualità negativa, di ciò che non è. Un qualcosa che non è può infatti essere una qualità? O anche, ponendo la domanda in modo più radicale: un qualcosa che non è, può forse essere? L’unica forma di conoscenza cui noi concediamo senz’altro una fiducia incondizionata, e la cui negazione equivale all’assurdo, è d’altronde la tautologia A = A”. Dunque, inorridito dalle contraddizioni di Eraclito e dall’idea stessa del divenire (che lo inseguiva di notte e di giorno indifferentemente su tutti e due i sentieri) “allora egli si tuffò nel bagno freddo delle sue paurose astrazioni. Ciò che veramente è dev’essere in un eterno presente, e di esso non si può dire né «fu», né «sarà» Ciò che è non può essere nato: in effetti, onde mai avrebbe potuto sorgere? Forse da ciò che non è? Ma ciò che non è non è, e non può produrre nulla.38 Forse da ciò che è? Ciò che è non potrebbe mai produrre null’altro che se stesso. Lo stesso si dica rispetto al perire: esso è altrettanto impossibile quanto il nascere, quanto ogni mutamento, quanto ogni accrescimento o ogni diminuzione. In generale vale il principio: tutto ciò di cui si può dire «è stato» oppure «sarà», non è, mentre di ciò che è non si potrà mai dire «non è». Ciò che è risulta indivisibile, poiché dove si potrà mai trovare una seconda forza che sia in grado di dividerlo? Esso è immobile, poiché verso dove potrebbe mai muoversi? Esso non può risultare né infinitamente grande, né infinitamente piccolo, poiché è compiuto e poiché un’infinità compiutamente data è una contraddizione. Esso si libra così limitato, compiuto, immobile, ovunque in equilibrio, egualmente perfetto in ogni punto, simile a una sfera” (F. Nietzsche, La filosofia nell’epoca tragica dei Greci e Scritti 1870-1873, cit. p. 247ss.)
Alla ricerca del senso originario del tempo
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