english version
Interview with Edith Hall
Atene, 472 a.C.: Eschilo, figlio di Euforione del demo di Eleusi, tragediografo, mette in scena una trilogia comprendente, accanto alle perdute Fineo e Glauco, una tragedia dal titolo potente, I Persiani. Erano passati solo pochi anni da quando i Greci avevano respinto Serse e il suo esercito, un evento che ebbe un impatto fondamentale sulla successiva elaborazione di un’identità ellenica comune, ed Eschilo, abile a sorprendere, decise di presentare al pubblico di suoi concittadini un dramma ambientato alla corte del Gran Re, nel momento esatto in cui da occidente giungeva la notizia del trionfo dei Greci sulla flotta persiana a Salamina. Ad assistere a questa rappresentazione erano quei cittadini ateniesi che avevano combattuto contro il Persiano e che progressivamente si sarebbero trovati ad esercitare un potere che andava ben oltre i limiti della propria città, lasciando un’eredità che è giunta fino a noi plasmando la nostra storia.
Ad Atene i cittadini erano i veri depositari del potere e si riunivano in assemblea per prendere decisioni in materia legislativa, di politica interna ed estera, per dichiarare guerra o stringere alleanze. Gli oratori esponevano i propri argomenti sulla Pnice, il colle situato ad ovest dell’Acropoli e da essa visibile, mentre gli uomini discutevano nell’agorà, per le strade e nelle case. Ma era in teatro che si perfezionava il fragile eppure incredibilmente stabile equilibrio del sistema democratico. Il teatro era il luogo del vedere (theaomai), ma anche del riflettere, del pensare, dell’elaborare gli stimoli provenienti dall’osservazione della rappresentazione di un qualcosa che non era mai totalmente estraneo, ma che si metteva in diretto dialogo con lo spettatore-cittadino e con la realtà stessa in cui egli viveva ed era chiamato ad agire. Il teatro era pertanto, nell’ambito della polis, un elemento cardine per l’autocoscienza della comunità stessa che, attraverso le tragedie e le commedie, era chiamata a interrogarsi sulla propria realtà politica, culturale e morale, esplorandone i limiti e apprezzandone i pregi. Esso, tematizzando e approfondendo argomenti di primaria importanza come anche questioni più contingenti, era il naturale complemento dell’assemblea dei cittadini: coloro che assistevano a questi spettacoli erano anche incaricati di prendere decisioni fondamentali.
Nel quadro delle odierne democrazie occidentali, il teatro ha perso quel rapporto privilegiato, al tempo stesso d’intrattenimento e di formazione del cittadino che tanto era caro ai Greci. Nuove forme e nuovi luoghi reali o virtuali di tematizzazione e di dibattito si sono fatti strada, raggiungendo fette di pubblico sempre più vasto: ma siamo sicuri che in esse si possa trovare il legittimo erede di quello che il teatro ha rappresentato per la democrazia ateniese?
Ne parliamo con Edith Hall, docente presso la facoltà di Classics del King’s College London ed esperta di teatro antico e di ricezione e permanenza della cultura classica.[1]
D.- Per iniziare vorrei chiederLe di introdurre brevemente il contesto storico in cui si sviluppò il teatro nell’antica Grecia.
R.- Il teatro come lo conosciamo oggi è stato inventato ad Atene in età classica. A dire il vero il suo esordio si ebbe sotto il sistema politico incarnato dalla tirannide di Pisistrato nel VI secolo a.C. È importante tenere a mente, dunque, che il teatro non era di natura democratico. Ad ogni modo le trentadue tragedie di Eschilo, Sofocle ed Euripide e le undici commedie di Aristofane che ci sono pervenute integralmente e che possiamo leggere dall’inizio alla fine furono composte e messe in scena durante il periodo democratico. I Persiani di Eschilo, la più antica fra le opere teatrali ateniesi giunte integre in nostro possesso, venne rappresentata nel 472 a.C. A quel tempo, ormai, Atene era cambiata, era passata attraverso il periodo delle riforme di Clistene ed era sicuramente una democrazia. Per comprendere pienamente i testi che possiamo leggere, dobbiamo immaginare un pubblico di cittadini molto simile a coloro che si riunivano in assemblea sulla Pnice con l’aggiunta dei loro ospiti e degli stranieri provenienti dalle città alleate. Si trattava, dunque, all’incirca del medesimo gruppo di persone che costituiva l’ekklesia, l’assemblea del popolo formata dai cittadini ateniesi maggiorenni e depositaria del potere. La loro identità collettiva era già determinata dal fatto di essere concittadini che si riunivano in assemblea per prendere importanti decisioni. Sebbene alcuni studiosi abbiano recentemente sottolineato il fatto che dobbiamo sempre tenere a mente che le tragedie vennero messe ripetutamente in scena in sistemi politici ben diversi dalla democrazia, come le tirannidi siciliane o il regime monarchico macedone, penso che si debba ribadire che le tragedie e le commedie classiche e canoniche sono tutte democratiche.
D.- E per quanto riguarda il contesto performativo in cui queste opere venivano rappresentate?
R.– È davvero fondamentale tenere sempre a mente per quali eventi queste opere venivano composte. Le performance teatrali ad Atene avvenivano nel contesto delle feste civiche, particolarmente le Grandi Dionisie che avevano luogo nel mese di Elafebolione, ovvero marzo-aprile. Queste festività avevano certamente uno spiccato carattere religioso, ma anche un radicato aspetto secolare e svolgevano un ruolo decisivo nel modellare e nel dare dimostrazione dell’ideologia comune della polis. Nel contesto di queste festività, le performance teatrali erano finanziate dallo Stato e questo è certamente un elemento di grande importanza. Il capitolo di spesa più oneroso era rappresentato dalla creazione del coro, che richiedeva circa nove mesi di formazione riservata a dodici uomini, con un numero straordinario di costumi. Ad Atene esisteva una liturgia specifica, chiamata choregia, che ricadeva sui cittadini ricchi, i quali si facevano carico di finanziare l’allestimento degli spettacoli teatrali. È un qualcosa che è difficile concepire ai giorni nostri. Sarebbe come se i cittadini di Londra accettassero di buon grado di vedere parte delle proprie tasse destinate a coprire le spese essenziali per competizioni teatrali annuali della durata complessiva di parecchi giorni e, al tempo stesso, la famiglia reale e altri ricchi e illustri cittadini, al fine di ottenere popolarità e sostegno, si facessero carico della parte più costosa di questo processo, peraltro riunendosi alla fine insieme al resto del popolo per assistere a questi spettacoli. Penso sia veramente ammirevole l’idea che l’intero Stato si riunisse in un teatro per scopo di intrattenimento, ma anche per imparare qualcosa attraverso le performance teatrali. Rileggendo le opere in tale contesto è possibile comprendere significati ulteriori al loro interno.
D.– Concentrando l’attenzione sul pubblico, al giorno d’oggi spettacoli di diversa natura tendono ad attirare spettatori di tipo differente. Era così anche ad Atene? Vi erano differenze fra il pubblico di una tragedia e quello di una commedia?
R. – A quanto sappiamo, non vi era alcuna differenza nel pubblico. Ad esempio, nelle Grandi Dionisie le medesime persone assistevano durante la mattinata alla rappresentazione delle tre tragedie e del dramma satiresco, uscivano dal teatro per mangiare e bere molto vino e rientravano nel tardo pomeriggio per assistere alla commedia. Una differenza potrebbe essere individuata nella partecipazione delle donne. Non penso che gli spettacoli fossero aperti a un vasto pubblico femminile. Tuttavia ritengo che sia possibile che alcune donne assistessero alla rappresentazione delle tragedie, ma non alla commedia. Ad esempio, la sacerdotessa del culto di Atena Poliade, l’autorità religiosa più importante ad Atene, è probabile che fosse presente fra il pubblico delle tragedie, ma risulta difficile immaginarla in quello di una commedia. A parte questo elemento femminile, non vi erano differenze fra gli spettatori dell’una o dell’altra forma teatrale. Non esisteva l’odierna distinzione fra coloro che si recano alla Royal Opera House e quanti, invece, preferiscono il Lyceum Theatre (un teatro londinese che da anni ospita il musical The Lion King, n.d.r.). Non vi era alcuna differenza fra tragedia e commedia dal punto di vista della serietà: entrambe erano assolutamente serie.
D. – Vi erano invece differenze culturali fra il pubblico? Qual era il livello di alfabetizzazione? Quanti spettatori erano realmente in grado di comprendere pienamente e di riflettere adeguatamente sui contenuti delle rappresentazioni?
R.- Gli studiosi discutono incessantemente su quanti, fra i cittadini ateniesi che assistevano agli spettacoli, parte dei quali era, ad esempio, composta da marinai semiletterati provenienti dal Pireo, fossero realmente in grado di comprendere almeno una parte di quanto messo in scena. V’è un famoso passaggio delle Rane di Aristofane in cui viene detto che tutti, a quel tempo, avevano in mano il testo dell’opera ed erano in grado di comprendere anche le parti più sottili (vv. 1109-114). Potrebbe trattarsi, in realtà, di uno scherzo relativo al costo dei libri, ma è davvero indicativo il fatto che in questo passaggio il coro stia commentando il livello intellettuale richiesto per comprendere gli scherzi contenuti in una commedia, molti dei quali erano particolarmente difficili da cogliere, avendo come argomento la bellezza metrica di un verso o una critica raffinata degli effetti emotivi esercitati dal teatro sugli spettatori. Ritengo che i tragediografi greci puntassero particolarmente a trascinare il proprio pubblico sul terreno della riflessione filosofica. Sfortunatamente l’attuale popolarità del teatro greco ha portato a concentrare l’attenzione negli studi agli aspetti rituali o primitivi del fenomeno, come le danze corali, riducendo l’importanza dell’elemento epistemologico, ovvero la differenza fra conoscere con sicurezza qualcosa e avere un’opinione, una distinzione che è possibile percepire in ogni opera teatrale greca.
D. – Dal momento che, come ha detto, gli uomini che assistevano alla rappresentazione delle tragedie erano gli stessi che prendevano decisioni in ambito politico e legislativo ad Atene, che tipo d’influenza una tragedia poteva esercitare su di essi?
R.- M’interessa particolarmente mettere in evidenza a questo riguardo il processo di deliberazione (to boulesthai), dal momento che sono numerose le tragedie dove un personaggio da origine al disastro attraverso un cattivo processo decisionale o, più aristotelicamente, una pessima diánoia, ovvero il processo intellettuale. L’esempio più classico lo possiamo trovare nell’Antigone di Sofocle, dove si vede Creonte, signore di Tebe, che sin dal primo giorno al potere prende precipitosamente una serie di cattive decisioni, senza prestare ascolto alle ammonizioni di buoni consiglieri totalmente obiettivi e, in ultima analisi, senza fare alcunché di ciò che Aristotele, nel terzo libro dell’Etica Nicomachea, dice che un uomo dovrebbe fare per prendere una buona decisione. Alla fine del dramma, Creonte appare sulla scena reggendo fra le braccia il corpo esanime di suo figlio Emone, che lui stesso aveva ucciso, sebbene in maniera indiretta, per tramite delle sue pessime disposizioni, e incolpa per quanto accaduto se stesso e la sua dysboulia, ovvero la sua incapacità di prendere decisioni corrette (v. 1269). Tracciando l’uso della radice boul-, che si ritrova anche in bouleuma “decisione, proposito”, si arriva in ultima analisi alla boulé, ossia ad Atene il consiglio di cinquecento membri eletti per sorteggio fra i cittadini d’età superiore ai trent’anni, i quali rimanevano in carica per un anno e avevano il compito di ascoltare le più complicate questioni in materia di finanza, diplomazia internazionale, guerra, progetti urbanistici e così via, preparando proposte (probouleúmata) da sottoporre al voto dell’assemblea. Questi cittadini per un anno dovevano rinunciare ad ogni altra occupazione per dedicarsi a questo dovere e, logicamente, più essi erano in grado di comprendere quanto dibattuto, meglio era per la città. È possibile che almeno una volta nella vita ogni cittadino ateniese si sia trovato a fare parte del consiglio. In questo senso, la tragedia poteva educare i cittadini ateniesi nel processo della deliberazione, aiutandoli a prendere le decisioni in maniera appropriata. La consapevolezza nel processo decisionale è centrale, ad esempio, nel famoso episodio narrato da Tucidide in cui gli Ateniesi presero impulsivamente e sull’onda dell’ira la decisione di condannare a morte l’intera popolazione maschile della ribelle città di Mitilene, inviando una trireme per avvisare del provvedimento il generale Pachete, a capo del corpo di spedizione ateniese a Lesbo; essendosene tuttavia pentiti pressoché immediatamente, convinti di avere deliberato in maniera troppo frettolosa, il giorno successivo convocarono una nuova riunione dell’assemblea in cui la precedente decisione venne rovesciata e fu inviata una seconda trireme per impedire a Pachete di intraprendere la repressione. Sono convinta, dunque, che vi sia una perfetta sinergia fra il processo decisionale negli organi della città e il fatto che i cittadini avessero la possibilità di vedere questi personaggi dell’età del bronzo, tutti re e grandi leader, prendere decisioni sbagliate una dopo l’altra, subendone le conseguenze. Mi piacerebbe veramente vedere anche oggi qualcosa di simile a questa realtà istruttiva. Può sembrare presuntuoso, ma se si è in grado di creare un’opera teatrale eccellente, è possibile che essa sia istruttiva e al tempo stesso assai piacevole, come nel caso dell’Antigone. Sarei davvero felice se oggi vi fosse per il pubblico, particolarmente per quello del cinema, la possibilità di fruire di un tale esercizio dell’etica.
D. – Vorrei ora concentrare nuovamente l’attenzione sul contesto performativo. Come detto le tragedie e le commedie erano messe in scena in un contesto ufficiale sottoposto al controllo dello Stato. Di che tipo di controllo si trattava? C’era il rischio di censura?
R. – Sfortunatamente non abbiamo a disposizione molti dati concreti a riguardo. Prendere parte a queste feste era, per un autore, una cosa importantissima, anche se alla fine il vincitore risultava essere un altro: conosciamo numerosi aneddoti narranti la rabbia di un drammaturgo che non era stato selezionato. Sembra che ogni autore che volesse avere una chance di esibirsi alle Grandi Dionisie dovesse sottoporre quasi un anno prima una qualche forma di proposta all’arconte eponimo, un alto magistrato che aveva anche il compito di decidere chi avrebbe dovuto fare parte del coro. Alcuni potrebbero sospettare che in una tale procedura vi fosse ampio spazio per la corruzione, ma penso che i cittadini ateniesi fossero talmente appassionati di teatro che non avrebbero sopportato questo genere di comportamenti immorali. Vi era chiaramente una grande sensibilità a riguardo. Solo a titolo d’esempio si pensi che i giudici che dovevano emettere un verdetto sulle opere messe in scena erano tirati a sorte. Penso vi fosse un livello sufficiente di ostilità alla corruzione.
Sinceramente non penso che un anno prima l’autore sottoponesse all’arconte il testo in forma definitiva. Abbiamo alcuni elementi nei testi in nostro possesso che suggeriscono la possibilità che l’autore abbia modificato la sua opera dopo aver passato la valutazione dell’arconte. Una volta che una tragedia veniva selezionata, all’autore venivano assegnati gli attori. Ora, Euripide caratterizza alcuni ruoli ritagliandoli chiaramente su un ben preciso attore; tuttavia egli non poteva sapere quali sarebbero stati gli attori assegnati al suo dramma prima della decisione dell’arconte. Probabilmente, dunque, egli dovette modificare e adattare il testo dell’opera successivamente all’assegnazione del cast.
Per quanto riguarda il rischio di censura, sinceramente non saprei per quanto tempo un drammaturgo avrebbe potuto continuare a comporre se, per esempio, avesse inserito in una sua opera un pesante insulto a Pericle. Tuttavia penso, al tempo stesso, che se egli non avesse messo in scena qualcosa che toccava la sensibilità pubblica, avrebbe ricevuto numerosi fischi. In questo senso ritengo che il dramma venisse sottoposto a un processo condotto dalla sensibilità del pubblico.
Diverso è ovviamente il discorso riguardante la commedia. Gli eventi a cui si fa riferimento in maniera più o meno esplicita nelle commedie di norma precedevano di poco, dal punto di vista cronologico, la messa in scena dell’opera. Abbiamo testi in cui si menzionano accuse di corruzione recentissime nei confronti di personaggi politici. In questo senso, il caso più famoso è quello di Aristofane e Cleone, uno dei politici più in vista al tempo: i due si odiavano reciprocamente e provenivano dal medesimo demo, quello di Cidateneo. Aristofane raggiunse un enorme successo alle feste Lenee del 424 a.C. con i Cavalieri, una commedia piena di attacchi diretti e radicali a Cleone, accusato di corruzione e, potremmo dire, abuso d’ufficio. Si potrebbe pensare che l’immagine pubblica di Cleone fosse stata fortemente danneggiata da questa rappresentazione. Invece poche settimane dopo egli fu rieletto stratego per l’anno successivo. La relazione che legava questi due personaggi è un vero rompicapo: si odiavano, ma certamente si sfruttavano reciprocamente per fare carriera. Sappiamo che Cleone era presente fra il pubblico alla rappresentazione dei Cavalieri, perché vi sono alcune battute che non avrebbero senso se egli non fosse stato lì. Tuttavia è probabile che Aristofane non fosse sicuro della presenza del suo nemico sino all’ultimo. Questo dimostra come nella commedia lo sviluppo fosse vivace e quasi in tempo reale: questo la rende particolarmente eccitante. Un altro chiaro esempio è la Pace, messa in scena alle Grandi Dionisie del 421, solo pochi giorni prima della ratifica della pace di Nicia. Questa commedia è tutta incentrata sull’atmosfera di speranza nutrita nei confronti della pace: è probabile, quindi, che Aristofane non abbia composto l’opera nella sua forma definitiva prima dell’inizio delle trattative vere e proprie.
D. – Spostiamoci leggermente, pur rimanendo nel solco del rapporto fra teatro e Stato. Nel Suo recente libro Introducing the Ancient Greeks (una cui recensione è pubblicata nel presente volume di Leussein), Lei identifica dieci caratteristiche che, nel complesso, distinguono e definiscono l’“essere antichi Greci”. Fra queste qualità vi è il sospetto nei confronti di qualsiasi autorità. Come si concretizza questo atteggiamento nelle opere teatrali?
R. – Una tale forma di diffidenza è rintracciabile pressoché ovunque. Prima ancora che nel teatro tragico e comico, essa si trova nei miti che permeano tali rappresentazioni. Uno degli elementi costanti di questi miti è la posizione assolutamente precaria di chi ricopre una carica, di chi detiene il potere, in altre parole la presenza di un governo costantemente instabile. Inoltre vi sono ovunque dei ribelli, come Prometeo. Molti di questi miti hanno un legame diretto con la polis. La natura profonda della polis, comunque la si voglia intendere, dall’intero universo fino al piccolo villaggio, è complessivamente instabile e l’idea che possa essere scossa in qualunque momento è sempre presente. La cosa interessante è, a mio giudizio, che nella tragedia il pubblico che assiste a scene di re e tiranni dell’età del bronzo che mandano tutto a rotoli è democratico e anche coloro che non sono democratici nell’ambito delle loro convinzioni politiche, devono accettare il fatto che la maggioranza lo è. Parte di quello che viene messo in scena in una tragedia ha un risvolto piacevole per lo spettatore, nella misura in cui esso è una sorta di giustificazione del sistema politico in vigore ad Atene. I cittadini ateniesi potevano vedere come le cose andassero terribilmente male nella Tebe dell’età del bronzo dominata da despoti. C’è peraltro un inganno particolarmente acuto nella tragedia: il coro, ovvero la gente comune, sopravvive sempre. Il messaggio implicato è chiaro: la città va avanti mentre ricchi e tiranni no. Possiamo mettere a confronto la dinamica che si sviluppava in questo contesto con l’atteggiamento di coloro che leggono i rotocalchi che trattano di celebrità incredibilmente ricche, che tuttavia vengono coinvolte in continui divorzi, devono ricorrere infinite volte alla chirurgia plastica o i cui figli sono trascinati nel vortice distruttivo della droga: in certa misura, queste letture permettono a chi non gode di una tale ricchezza di provare una sorta di piacevole sollievo e questo è quanto accadeva con le tragedie.
D’altro canto, come detto, penso che la commedia fosse incredibilmente rinfrescante. Non vedo alcun comico al giorno d’oggi fare nei confronti di David Cameron quello che Aristofane fece a Cleone. Al più si può trovare qualcosa del genere nel teatro di nicchia, ma mai avverrà in un’opera rappresentata al National Theatre, finanziata dallo Stato e da ricchi cittadini e messa in scena alla presenza delle persone in essa derise. Aristofane lanciò contro Cleone tutte quelle accuse fortissime di corruzione, furto e abuso d’ufficio: se la maggior parte della popolazione fosse stata convinta che quelle accuse erano pienamente fondate, Cleone non sarebbe stato rieletto stratego pochi giorni dopo. In questo senso si ha un vero e proprio processo attraverso la commedia nei confronti di quanti di propongono per dirigere lo Stato. Si trattava di una parte integrante delle dinamiche politiche che oggi sarebbe difficile replicare. Nel Regno Unito abbiamo Private Eye (http://www.private-eye.co.uk), il cui editore, Ian Hislop, ha espresso in maniera energica la convinzione che una nazione democratica abbia la necessità di avere una satira pubblica in grado di tenere sotto controllo quanti esercitano il potere. Quanto sarebbe bello se oggi venisse approvata una tassa su quanti hanno mezzi sufficienti, destinata a finanziare il migliore autore di satira nella nostra nazione per comporre la commedia più feroce nei confronti di chi detiene il potere. Pensandola in questi termini, si può meglio comprendere quale grande risultato fu raggiunto dalla commedia all’epoca di Aristofane.
In seguito questo tipo di commedia scomparve, particolarmente dopo il governo di Demetrio Falereo (317-307 a.C.) e il dominio macedone. In epoca romana, nell’anno 215 d.C., Caracalla giunse fino ad Alessandria d’Egitto, mosso dalla rabbia nei confronti dei suoi abitanti che lo avevano attaccato attraverso il teatro comico. È interessante notare come gli Alessandrini si sarebbero richiamati a miti classici per attaccare l’imperatore, per esempio a quello di Edipo, dal momento che v’erano voci di una relazione incestuosa fra Caracalla e sua madre Giulia Domna. Inoltre essi avevano rovesciato il paragone fra l’imperatore e Achille o Alessandro, dicendo che li ricordava solo nell’essere basso. La vendetta di Caracalla fu tremenda e oltre cinquemila cittadini furono trucidati.
D. – In un approfondimento pubblicato su questo volume di Leussein, Corrado Cuccoro ha esaminato con grande cura i tratti principali del pensiero platonico sul teatro. Quale tipo di rapporto vi fu fra il fenomeno del teatro e lo sviluppo della teoria politica?
R. – È certo che l’esperienza del teatro abbia esercitato un’influenza sullo sviluppo della teoria politica. Platone riconobbe chiaramente l’incredibile impatto psicologico che il teatro poteva avere. Nelle Leggi egli tratta il potere del teatro come un reale problema politico. Il suo Socrate perviene alla conclusione che la politeia non era in grado di sopportare un tale livello di mimesis e sfida chiunque a mostrare che il teatro non dà (dia?) solo piacere (edoné), ma che ha anche dell’utile (ōphelimos), dal momento che il piacere da solo non può essere sufficiente. Ad assistere alle lezioni di Platone vi era Aristotele, il quale, nella Poetica, dice in effetti che il teatro è utile perché educa anche coloro che non sono filosofi e ha anche effetti benefici. Socrate, o meglio “Platocrate”, dal momento che non abbiamo prove dirette che Socrate non apprezzasse il teatro, nel momento stesso in cui sottolinea l’incompatibilità fra il teatro e la politeia lascia comunque spazio per una replica.
Penso che quello che Platone odiava realmente fosse il dominio delle masse, in teatro come nello stato. Nelle Leggi (701a) egli usa la parola theatrokratia, la dittatura della spettatorialità, in riferimento al dominio esercitato dalla massa (ochlos) che pretende di decidere cosa (sia) è meglio. D’altro canto, nella Poetica Aristotele dice, in maniera abbastanza prudente, che chiunque può imparare dal teatro. Altrove, nella Politica, egli aggiunge che su alcune cose, come l’arte, l’opinione della massa è meglio di quella del singolo. Egli usa l’analogia con un pubblico banchetto dove ciascuno porta un piatto differente e il risultato è migliore di quello realizzato da un’unica persona. In altre parole, Aristotele afferma che in alcuni ambiti come l’arte, il prodotto finale del giudizio della massa è migliore anche della somma delle sue parti. Penso che Aristotele, nonostante difenda la schiavitù, sia molto conscio e aperto mentalmente nei confronti del potenziale intellettuale delle masse lavoratrici.
D. – Al giorno d’oggi, quale forma d’arte può essere considerata l’erede del teatro greco?
R. – Purtroppo temo che oggi, per quanto riguarda il contribuire a creare l’ideologia comune, l’analogia vada ravvisata nel cinema e in alcuni show televisivi, nonostante questo mi rattristi particolarmente. Oggi nel Regno Unito meno del 10% della popolazione ha mai messo piede in un teatro e ha mai assistito a una rappresentazione. Il teatro è diventato così una sorta di forma d’arte intellettuale d’élite, che ha poco a che vedere con la formazione dell’ideologia comune. Al contrario, i registi e i produttori cinematografici sono perfettamente coscienti del fatto che i loro lavori hanno un impatto importante a livello ideologico: i loro film raggiungono un’ampia maggioranza della popolazione, come al tempo il teatro ad Atene. Riguardo a ciò, penso seriamente che i registi e i produttori di Hollywood siano profondamente irresponsabili e questo andrebbe in qualche modo limitato. Oggi molti produttori sono moralmente irresponsabili e perfettamente a loro agio. Gli eventi storici sono spesso al centro di processi di oscena banalizzazione. Se si pensa a film come 300 o 300 – L’alba di un impero, al netto degli errori storici presenti, si ha l’impressione che si tratti di mera pornografia di guerra. Sono sicura che nessuno di questi film avrebbe superato lo scrutinio dell’arconte eponimo o di un ipotetico odierno gruppo di archontes democraticamente eletti e incaricati di decidere cosa è opportuno mettere in scena. D’altro canto, tuttavia, vi sono per fortuna registi che comprendono perfettamente che la loro arte può essere utile e insieme gradevole, come facevano tragediografi e commediografi greci. Uno di questi e Ridley Scott: nessuno dei suoi film, neppure Il gladiatore, è grossolano dal punto di vista morale. Si tratta di film assolutamente piacevoli e al tempo stesso hanno una vera autorevolezza morale: si può sempre imparare qualcosa da ciascuno di essi. Quindi si può fare, i film possono essere altamente gradevoli e al contempo educativi. Ma quanto spesso si vede una cosa del genere? Purtroppo non così spesso.
[1] Edith Hall è professore ordinario presso il Classics Department del King’s College London. Le sue aree d’interesse spaziano dalla letteratura greca al teatro, dalla storia sociale e culturale alla permanenza della cultura classica nel corso dei secoli. È autrice di numerose monografie, fra cui:
- Inventing the Barbarian: Greek Self-Definition through Tragedy, Clarendon Press, Oxford 1989;
- The Theatrical Cast of Athens: Interactions between Ancient Greek Drama & Society, Oxford University Press, Oxford 2006;
- The Return of Ulysses: A Cultural History of Homer’s Odyssey, I. B. Tauris, London 2008;
- Greek Tragedy: Suffering Under the Sun, Cambridge University Press, Cambridge / New York 2010;
- Introducing the Ancient Greeks: From Bronze Age Seafarers to Navigators of the Western Mind, W. Norton & Company, London 2014.
Fra i volumi di cui ha curato l’edizione, si ricordano:
- Hall – F. Macintosh – O. Taplin (eds.), Medea in Performance 1500-2000, Legenda, Oxford 2000;
- Hall – P. E. Easterling (eds.), Greek and Roman Actors: Aspects of an Ancient Profession, Cambridge University Press, Cambridge 2002;
- Hall – F. Macintosh (eds.), Greek Tragedy and the British Theatre 1600-1914, Oxford University Press, Oxford 2005;
- Hall – S. Harrop (eds.), Theorizing Performance: Greek Drama, Cultural History, and Critical Practice, Duckworth, London 2010.
Edith Hall è autrice di numerosi articoli in riviste scientifiche internazionali e contributi in volumi. È co-fondatrice dell’Archive of Performances of Greek & Roman Drama, centro di ricerca facente parte della facoltà di Classics dell’Università di Oxford.
'Teatro e democrazia. Intervista a Edith Hall Dall’antica Grecia ai giorni nostri' has no comments
Be the first to comment this post!