Ernesto Laclau, “Marxismo e populismo”

Rispondendo alla prima domanda Ernesto Laclau ci tiene subito a precisare che i suoi genitori erano ammiratori di Hipólito Yrigoyen – il due volte presidente dell’Argentina che nei primi decenni del secolo scorso ha combattuto contro i conservatori a favore delle classi lavoratrici più deboli, conquistando il suffragio universale maschile – e che quindi un’aria radicale e popolare l’aveva vissuta in famiglia ben prima di sentire il vento di Treviri. Un marxismo più ortodosso lo ha respirato solo dopo, nelle facoltà universitarie negli anni ’60 di Buenos Aires, come a dire che l’incontro con il pensiero di Marx non è certo stato il suo imprinting politico, semmai l’occasione per una messa a fuoco della sua visione, decisamente post-marxista.

Il filosofo argentino scomparso 4 anni fa che con Egemonia e strategia socialista e La ragione populista più di altri si è sforzato di pensare insieme marxismo e populismo, in questo dialogo fitto e appassionato con Mauro Gerbino – pubblicato per la prima volta nel 2012 nella rivista ecuadoregna Iconos e adesso tradotto da Massimo De Pascale per Castelvecchi (senza alcuna nota introduttiva e tanto meno la data dell’intervista, sigh!) – afferma d’altra parte che il post-marxismo è una realtà di fatto già nel 1848, quando emerge incontrovertibile il dato che le leggi economiche del capitalismo “non avrebbero portato alla sparizione delle classi medie e del proletariato” [p. 7].

Lettore di Althusser ma soprattutto di Gramsci, Laclau fa sue le categorie di sovradeterminazione e di egemonia per cominciare ad articolare un altro ‘discorso’ politico. Di Gramsci mette subito a fuoco l’intrinseco a suo dire post-marxismo nel momento in cui alla estinzione progressiva dello Stato profetizzato dal filosofo di Treviri, sostituisce “una teoria sul farsi stato della classe operaia” [p.8]. Una lunga strada che il partito di Gramsci dovrà perseguire con necessarie tappe togliattiane, quando nel secondo dopoguerra bisognerà riscattare il Sud d’Italia attraverso le sezioni di partito e i sindacati contro una visione ‘operaista del nord’. Si trattava di promuovere, coagulare e articolare le diverse lotte per singole cause, come per l’acqua o contro la mafia: “una serie di lotte disperse avrebbero costituito l’egemonia del partito” [p. 10].

La teoria di Gramsci torna spesso nella conversazione con Gerbino, soprattutto nella distinzione strategica che Laclau vede rispetto a quella di Lenin. Se Lenin “pensava che le classi avessero un’identità assoluta e che l’alleanza fosse un elemento puramente esterno” [p. 26], per Gramsci, secondo Laclau: “la classe in quanto tale, il luogo degli agenti sociali nel processo di produzione, non ha alcuna priorità. È solo quando una classe diventa egemone, cioè quando articola una serie di elementi discorsivamente, che si crea una certa centralità, però questa centralità implica il primato del discorsivo. È a partire da qui io ho iniziato a sviluppare il mio discorso” [pp. 14-15].

Un Gramsci ‘disarticolatore’, dunque, guida il filosofo argentino innanzitutto nel prendere una posizione nei confronti delle tre correnti che hanno a suo avviso marcato la filosofia del XX secolo: la filosofia analitica, la fenomenologia e lo strutturalismo. Deluse dall’impossibilità di accedere in modo assoluto ai loro oggetti elettivi (il referente, il fenomeno e il segno) queste tre ‘tendenze’, secondo il filosofo argentino, sono costrette a ripiegare su una mediazione discorsiva che “diventa costitutiva, nel senso trascendentale del termine, quello cioè che non può fare riferimento a un fondamento più profondo” [p. 12]. In alte parole il ‘gioco linguistico’ di Wittgenstein, la ‘differenza ontologica’ di Heidegger, la ‘decostruzione’ del legame tra senso e conoscenza di Derrida, e il fluttuare del significato dietro al ‘significante’ di Lacan, sono tutti stratagemmi o pratiche discorsive per compensare il vuoto lasciato dall’impossibilità di un fondamento. Laclau le adopererà come categorie in chiave politica per pensare un campo aperto, popolare, in cui i gruppi di protesta possono prendere posizione in modo strategico mantenendo una certa equivalenza tra di loro e una distanza da un terreno fondativo troppo identitario (altrimenti divisivo).

La prassi politica di Laclau è pensata su due livelli: da una parte “Quello orizzontale di estensione della protesta sociale [che] porta all’autonomia dei vari movimenti” e dall’altra un centro egemonico cui gruppi di protesta tendono per trovare una composizione che li renda visibili mantenendo però una equivalenza: “è necessario creare una centralità, ma una centralità egemonica, la centralità di un orizzonte non di un fondamento” [16]. Presupposto fondamentale è dunque l’equivalenza dei gruppi orientati ad un fine, una catena più o meno solida che si rinsalda via via che la lotta acquisti compattezza, rappresentatività e quindi egemonia. La catena delle equivalenze, i legami tra i gruppi di protesta autonomi, possono essere più o meno forti ed è fondamentale immaginare una tattica che consenta alla catena di resistere strategicamente alle sollecitazioni esterne nella scalata verso l’egemonia. Essenziale per questo scopo è l’avvicendarsi di una dinamica che Laclau mutua dal lessico lacaniano, ovvero le figure retoriche di metafora e metonimia: “La metafora è una relazione figurale di sostituzione sulla base dell’analogia, mentre la metonimia lo è sulla base della contiguità” [p. 29]. L’impiego politico di queste figure come snodo del suo sistema di pensiero lo lasciamo spiegare allo Laclau: “Prendiamo un esempio politico, supponiamo che in una zona ci sia violenza raziale e che l’unica forza capace di combatterla siano i sindacati […] La funzione dei sindacati non è combattere contro il razzismo, ma difendere il livello di vita dei lavoratori, però, per la relazione di contiguità, poiché sono gli unici capaci di portare avanti questa lotta, l’antirazzismo si associa ai sindacati, e questa relazione è metonimica. Ma se con il passare del tempo si arriva a una situazione in cui la gente si è abituata al fatto che i sindacati siano la base dell’antirazzismo, allora questo diventa parte del significato del concetto di sindacato in quella zona, cioè quello che è cominciato come una metonimia diventa una metafora, e io credo che questo sia la base dell’egemonia: al principio si tratta di elementi debolmente integrati che poi iniziano a costituirsi come solide identità collettive” [pp. 29-30].

Ma cosa avviene se le istanze sociali di protesta non si articolano in un centro egemonico perché la loro ‘catena di equivalenza’ viene infranta da un antagonista, per esempio lo Stato, che tende a soddisfare le singole richieste? La risposta di Laclau è lapalissiana quanto significativa se calata nel contesto europeo degli ultimi decenni, ovvero il sistema del Welfare: “Il Welfare State è stato il primo tentativo di costruire una società omogenea sulla base di un assorbimento indefinito delle domande sociali” [p. 39]. Con quali conseguenze, però, se non il ritorno alla lotta per rinsaldare la catena delle equivalenze? Laclau non lo dice qui direttamente, ma possiamo dedurre che il welfare europeo non ha retto l’urto della crisi economica del 2007 generando l’ondata populista successiva, la cui forza cinetica è stata abilmente convogliata in centro egemonico nuovo, conquistato da un nuovo movimento populista. Ci riferiamo al caso nostrano 5 Stelle che nell’arco di una decina di anni è riuscito a trasformare il pubblico di un comico apocalittico, attraverso i Meetup (nati nel 2006) prima e grandi eventi di piazza poi, in gruppi di protesta che una volta arrivati in parlamento hanno cominciato a dettare l’agenda politica nazionale. L’intraprendenza tecnologica del Movimento nel campo mediatico è stata impressionante. Non a caso, lo stesso Laclau riconosce ai media un’enorme forza articolativa ed esponenziale delle sue stesse categorie: “Ciò che i mezzi di comunicazione rappresentano, visto da una prospettiva globale, è oggi un terreno nel quale tutte queste logiche che abbiamo descritto prima appaiono moltiplicate nei loro effetti” [ p.18].

Ma se il passaggio dal metonimico al metaforico, ovvero da interessi e istanze locali a una lotta più universale, può svolgersi secondo logiche egemoniche ‘equivalenti’, è vero anche il percorso contrario: “la disgregazione, la perdita di egemonia, costituisce il processo inverso: quando ciò che si considerava parte integrante di una certa significazione comincia a disgregarsi negli elementi costituivi, la metafora ritorna indietro a una situazione metonimica e questo è segno di una crisi di egemonia” [p. 30]. Sembra il caso decisamente del partito democratico che, nell’assolutizzare la metafora del leader, ha perso il contatto ‘metonimico’ con la base e di conseguenza il centro egemonico.

Per concludere, quel che emerge con chiarezza da questo dialogo è l’importanza del travaso del concetto di egemonia gramsciana dal marxismo al populismo. Un passaggio non certo indolore, anzi, frutto di un conflitto a volte drammatico. Per altro, secondo Laclau, questo conflitto è stato combattuto soprattutto tra marxisti e postmarxisti italiani, a partire da Gramsci, passando per Togliatti, gli operaisti e Toni Negri con un esito che viste le premesse a nostro avviso ha del tragicomico se si pensa che a raccoglierne i frutti siano stati poi i populisti pentastellati.

Ma al di là di tutto, questo libricino che ha il dono della brevità e della disinvoltura pratica sudamericana merita sicuramente una lettura attenta perché oltre a contenere diversi esempi che chiariscono i passaggi principali di un pensatore attualissimo come Laclau, porta al dibattito odierno sul populismo concreti elementi di approfondimento a partire dal concetto ‘post-marxista’ di centro egemonico.

Ernesto Laclau, Marxismo e populismo. Conversazione con Mauro Cerbino, Castelvecchi, Roma 2018, pp. 43, € 7,50



Direttore editoriale della rivista Leussein, si è laureato in giurisprudenza (La Sapienza) e in filosofia (Gregoriana), e ha conseguito il dottorato di ricerca in filosofia della politica (La Sapienza). E' stato ideatore, coordinatore ed editorialista della Rivista della Scuola superiore dell’economia e delle finanze dal 2004 al 2006. Ha scritto diversi saggi e ha collaborato con diverse Università (Sapienza, Gregoriana, Lateranense, UPRA) e istituti di ricerca (Istituto italiano filosofici di Napoli - Scuola di Roma, Studi politici San Piov). I suoi percorsi di ricerca si snodano negli ambiti della filosofia ebraica, la teologia politica, gli studi postcoloniali e la teoria della comunicazione.


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