Che la filosofia si occupi di un social network oggi globalmente diffuso, è certo una buon segno di vitalità. Che si possa addirittura “fare filosofia attraverso Twitter”, esprimersi in 140 caratteri e sperare di lasciare tracce di eternità nel flusso vorticoso di messaggi, appare invece una domanda provocatoria che l’autore lancia consapevolmente, per attiraci sulle questioni connesse che non sono affatto secondarie. Non a caso, l’autore ad un certo punto si chiede se Twitter sia o non sia funzionale alla “costruzione e allo sviluppo di una democrazia qualificata, fatta da cittadini capaci di contribuire pariteticamente a sviluppare un discorso comune e ad assumere decisioni compartecipate” [p. 49]. E’ una domanda scomoda perché investe il difficile quanto ambiguo rapporto tra comunicazione e verità, e come tale si rivela anche fastidiosa, perché punge lo stile easy going del politico da quasi un decennio. Come il tafano Socrate, Fabris resta a fianchi del fenomeno che sta cambiando o ha già cambiato la comunicazione politica analizzandoti gli aspetti più reconditi, senza rinunciare ad un immersione nelle sue acque pescose ma anche vorticose come un vecchio Diogene. Partendo da una questione filosofica radicale quanto quella del rapporto tra forma e contenuto, Fabris invita a ripensare la tesi di Mc Luhan non accettando la facile identificazione di medium e messaggio. Il problema, dice l’autore, è che si dà per scontato l’uso dei dispositivi, le loro regole, conformando il nostro messaggio al punto di stravolgerlo purché abbia efficacia, sortisca l’effetto di essere letto e rilanciato: “ci limitiamo oggi ad adoperarli, semplicemente, senza volerne conoscere i meccanismi: vale a dire il loro contenuto e il loro significato. Dimentichiamo la reale incidenza della relazione. Ci sfugge proprio la sua potenza formatrice, anche se ne risentiamo gli effetti” [p. 16]. Così, Fabris, per un mese ha deciso di sperimentare il campo auditivo di una platea più o meno avvezza inviando a mo’ di aforisma una riflessione al giorno. Il risultato è ambivalente. Da una parte Twitter rivela delle possibilità interessanti perché invita ad esprimersi in prima persona, a rivelare i pensieri più profondi, dando la possibilità di avviare una comunicazione diversa, insolita e difficile in altri contesti. Dall’altra, rischia di esaurirsi presto in slogan a caccia di condivisione più che di partecipazione. La scoperta di una fragilità esistenziale, “la debolezza della mia voce e l’irrilevanza del mio io” [p. 34] invece di alimentare un ricerca di sé e di altri, alimenta di fatto un’ansia autoaffermativa fagocitante. L’opportunità di cavalcare il flusso spumeggiante degli istanti, di coglierne la “carpa” del giorno si perde troppo facilmente nel gorgo dell’apparenza e del transeunte, ben lontani da qualsiasi sostanza aristotelica. Twitter è di fatto un luogo narciso, unidirezionale, elitario e privo di quei riscontri incrociati che hanno fatto la fortuna dell’accademia e delle comunità scientifiche. D’altra parte è proprio il carattere assertorio dei Tweet, di essere confinati in 140 caratteri, che porta ad eludere la corrispondenza tra verità e realtà, e a “plasmare” quest’ultima all’abbisogna. Non essendoci spazio da una parte per argomentare, e dall’altra quindi per poter vagliare il messaggio, l’autorevolezza dipende da altro. Ma giustamente Fabris si domanda: “Di quale autorità si tratta? Qual è in generale l’autorità insita nelle asserzioni e che le asserzioni trasmettono?” [p. 45]. Qui il discorso si fa quanto mai interessante perché lambisce il terreno fondante della moderna democrazia ipertecnologica in cui Twitter prospera, marcando tutta la differenza da quella antica. In filosofia un’asserzione è vera non per chi la dice ma per ciò che dice, e l’evidenza è quindi legata a ciò “che deve darsi a vedere a tutti come tale” [p. 46]. L’evidenza della verità nell’antica Grecia, ricorda l’autore, era legata fortemente alla democrazia, cioè non a rivelazioni miracolose o magiche, ma al giudizio di ogni singolo e della collettività, “da cittadini capaci di riflettere e argomentare” [p. 46]. Ma la verità ha un debole forza messianica, come avrebbe detto Benjamin, ed è facile preda di chi è più credibile. Socrate lo ha dimostrato a suo spese, ricorda Fabris, e Twitter è tutto basato sul gioco della credibilità, come la maggior parte dei social network, dove la condivisione effimera e distratta, del “mi piace” e del “seguace” prende il posto della partecipazione e del controllo. Se filosofia e democrazia sono protese a mettere in fuori gioco “sia la violenza del tiranno sia la presunzione del sofista” con l’arma dell’argomentazione e del vaglio critico, la politica invece predilige cinguettare proprio perché sorpassa a destra quell’ostacolo, creando un suo pubblico e lisciando il pelo alla moda, al senso comune ovvero alla maggioranza. È possibile redimere un mezzo così vocato alla dannazione politica? Si, dice l’autore, se si si fa del “mezzo il tema stesso di una riflessione critica […] L’essere non si risolve nel linguaggio. Può accadere, certo. Ma c’è nel dire un’ulteriorità inespressa, e pur sempre esprimibile, che non coincide con la struttura dell’espressione” [p. 57]. La filosofia, l’amore per il vero, dice l’autore, sembrano la strada maestra, o meglio il viatico per tentare questa strada. Ce lo auguriamo, per adesso registriamo che l’ansia di eternità e di volontà di potenza che avvince i fruitori di twitter sembrano dare ragione alla peggiori previsioni del potere della tecnica presagite dallo stesso Heidegger, che portano ben lontano dalla democrazia.
- Titolo: Twitter e la filosofia
- Autore: Adriano Fabris
- Editore: Edizioni ETS – Pisa 2015
- Pagine: 63
- Prezzo: €10.00