Post-verità è parola nuova, in certa misura già consumata, introdotta con adattamenti dalla lingua inglese. Allude ad una situazione in cui i fatti obiettivi sono meno influenti sull’opinione pubblica rispetto agli appelli emotivi e alle convinzioni personali (dall’Oxford English Dictionary che ha eletto «Post-Truth» parola dell’anno 2016). Il termine è improprio e fuorviante, destinato a fluttuare tra contraddizioni, variazioni di senso, contesti operativi. Già si potrebbe dubitare della novità del fenomeno che il neologismo intende designare. La dissociazione tra convinzioni personali e realtà «oggettive» e controllabili attraversa la storia più problematica del pensiero scientifico e filosofico. Nel corso dei secoli l’umanità ha vissuto nella ferma credenza che la Terra fosse piatta, immobile, al centro del mondo e che l’Universo fosse identico a se stesso. Abbiamo poi imparato che la Terra è rotonda, che esistono quark, buchi neri, particelle e campi che si muovono nello spazio, che l’Universo è multiforme, rutilante, in continua espansione (C. Rovelli, La realtà non è come ci appare. La struttura elementare delle cose, Milano, 2014, pag. 9). Il pensiero scientifico, come incatenato nella buia caverna di Platone, procede per ombre, immagini e percezioni sino a quando riesce a descrivere il mondo in modo più funzionale al nostro sguardo. Così, a titolo di esempio, Faraday, sviluppando l’intuizione di Newton circa la presenza di «un qualche agente» che spiegasse il perché dell’attirarsi e del respingersi a distanza dei corpi, elaborò l’idea delle «linee di forza» che, nella versione matematica offerta da Maxwell sul comportamento del campo elettrico e del campo magnetico, aprirà la strada a tutte le applicazioni della moderna tecnologia delle comunicazioni (pagg. 52-55). In altre parole, «più scopriamo, più ci rendiamo anche conto che quello che ancora non sappiamo è più di quanto abbiamo già capito» (pag. 9).
Il discorso filosofico, per altro verso, lascerebbe sùbito emergere i tre fondamentali atteggiamenti che hanno scandito la storia della filosofia, nei quali si anima, in vario modo, il rapporto di identità o di opposizione tra certezza «soggettiva» e verità «oggettiva», tra conoscenza umana e il mondo che ne è indipendente, tra credenze e realtà [E. Severino, La filosofia dai Greci al nostro tempo. La filosofia moderna7 (1996), Milano, 2011, pag. 12]. In una linea postmoderna, in cui la realtà oggettivante appare dissolta nella soggettività, e dove la possibilità di accesso al mondo si esercita nell’orizzonte della precomprensione (di un «equipaggiamento», come scriveva Kant) e della nostra lingua storico-naturale (v., con riguardo al pensiero di Heidegger, G. Vattimo, Della realtà. Fini della filosofia, Milano, 2012, pag. 27), non sarebbe improprio rinvenire nella post-verità un celebre frammento degli appunti postumi di Nietzsche: «non ci sono fatti, solo interpretazioni. Anche questa è un’interpretazione». Sicché, in questa prospettiva, sarebbero proprio le convinzioni e le suggestioni personali a qualificare i fatti come obiettivi, facendone la qualità e costruendone il significato.
Questo rapido sguardo al pensiero scientifico e filosofico – dove il concetto di post-verità è destinato a disperdersi e ad annacquarsi – lascia però in ombra l’origine della fortuna della parola, dovuta all’attualità. L’uso del termine, come è noto, si è largamente diffuso in occasione dei risultati delle elezioni americane del 22 dicembre 2016 e dell’uscita dal Regno Unito dall’Unione europea (Brexit) a seguito del referendum del 23 giugno 2016.
Si è fatta strada l’idea – per alcuni – che in entrambi i casi, in relazione agli esiti del voto, l’emotività abbia preso il sopravvento sul consenso popolare, risultando quest’ultimo meno condizionabile da dati obiettivi e verificabili, in certa misura insensibile alla verità o falsità delle informazioni disponibili (ad esempio, la notizia, non documentata e poi smentita, dei costi eccessivi sopportati dal Regno Unito come contributo dovuto all’Unione europea). Di qui il dubbio, sotto il profilo semantico, di sostituire il prefisso «post» con il prefisso «oltre». Non già post-verità, ma «oltre la verità» (M. Biffi, Viviamo nell’epoca della post-verità?, consultabile sul sito web dell’Accademia della Crusca). Non un «dopo» che rinvia ad un tempo successivo, bensì una meta-verità, un «superamento» della verità (Id., op. cit.), in quanto l’opinione pubblica si muove in direzioni avulse dalla forza persuasiva dei fatti «obiettivi»; sul piano mobile, appunto, degli impulsi emotivi e delle convinzioni personali.
L’era della psicopolitica digitale, che si alimenta di big data, di smartphone, di like e di post, ha istituito un nuovo rapporto tra potere e libertà, riducendo la capacità di giudizio e influenzando la psiche su un piano pre-riflessivo (Byung-Chul Han, Psicopolitica (2014), Roma, 2016, pagg. 21-22). La realtà della rete appare subdola e frammentaria. Da un lato moltiplica strumenti e possibilità di partecipazione, dall’altro, amplifica il problema della formazione delle opinioni e dei processi decisionali. Può così accadere che talune informazioni, benché palesemente false, siano accolte e condivise dagli utenti in quanto rispondenti alle loro convinzioni e aspettative di senso (v., con riguardo ai gruppi chiusi di Facebook, M. Ainis, Ecco l’era della solitudine di massa, in La Repubblica del 14 ottobre 2017).
Si rimarca l’esigenza, in questa prospettiva, di una informazione seria e indipendente, sostenuta da cronisti esperti e preparati che abbiano senso del dubbio, sappiano confrontare le notizie e isolare i fatti veri da quelli alternativi [F. de Bortoli, Poteri forti (o quasi), Milano, 2017, pag. 15]. Soltanto per questa strada, preparata da altri, l’opinione pubblica, stordita dagli impulsi occulti della rete e dall’anonimato digitale, può tornare a fungere da autentica «architrave di una democrazia» (pag. 14, dove si richiama un’espressione di Giovanni Sartori).
Affiora, in questo quadro, l’elemento implicito della parola post-verità che riguarda, a ben vedere, non la produzione di notizie false diffuse nel web, nelle cronache giornalistiche, nelle campagne politiche, ma un fenomeno diverso e sottostante, che è quello del modo di accogliere o di rifiutare tali informazioni. Il prefisso «post-» nasconde e omette ciò che invece sarebbe utile esplicitare, vale a dire, la radice psicologica ed emotiva di un giudizio di massa. Ciò che resta sottinteso – e che a mio avviso caratterizza il senso complessivo del fenomeno – è la logica interna, ignota e talvolta indesiderata, della formazione di un modo di pensare e di agire collettivi (nei casi menzionati, decisioni a rilievo sociale e politico). Allude in particolare ad un diffuso disinteresse per la verità, ad un atteggiamento di indifferenza, di rinuncia al disinganno. Introduce l’idea di una generale indolenza nell’acquisire e nel verificare informazioni utili ad una decisione consapevole. Emerge, dietro questo profondo senso di inerzia, una volontà indebolita che da questo punto di vista sconfina – si potrebbe dire – in una forma di abulia collettiva. Più opportuno sarebbe allora discorrere, non di post-verità, bensì di psicoverità (o, se si vuole, di psicorealtà). Parola, questa, più adeguata ad esprimere un fenomeno psichico collettivo concernente una certa idea di «verità» (o di «realtà»). In questo contesto, dominato da giudizi impulsivi e conclusioni infondate, ciò che resta della «verità» è destinato a rifluire in quel presumersi nella ragione per il solo fatto di decidere e compiere una scelta.
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