Lo sguardo lungo del sapiente

Roberto Bazlen interprete del presente

Il sole è giovane ogni giorno

Eraclito

Abstract

Lo sguardo lungo del sapiente

Roberto Bazlen, pensatore e intellettuale italiano nato a Trieste agli inizi del Novecento, scelse di orientare la sua vita sulla sapienza, e non sulla filosofia e la letteratura, decidendo di non scrivere. La sua attitudine ha qualcosa di Socrate e, allo stesso tempo, del saggio orientale. In questo senso, anche la sua apertura mentale era straordinaria e, in un secolo tragico come il Novecento, egli seppe conservare le ragioni dell’ottimismo e della speranza. Amico di Svevo e di Montale, la sua impronta sulla letteratura italiana è ben visibile. Lo riconoscerà anche Italo Calvino, che aveva, rispetto alla letteratura e alla conoscenza, un’ottica opposta. Ora che il Novecento e la tragica stagione contemporanea hanno esaurito la loro spinta propulsiva, ora che il Coronavirus ha messo alla prova le nostre capacità collettive di resistenza, una figura come Bazlen può rappresentare un esempio, un faro, una guida. Per il livello di consapevolezza, per la straordinaria lucidità, per la sua conoscenza dell’umano. Poiché Bazlen comprendeva fin troppo bene l’importanza della speranza in una dinamica come quella dell’esistenza umana sulla terra.

The Long Gaze of the Wise Man

Roberto Bazlen, an Italian thinker and intellectual born in Trieste at the beginning of the twentieth century, chose to orient his life on Wisdom, and not on Philosophy and Literature, deciding not to write. His attitude has something of Socrates and, at the same time, of the oriental Sage. In this sense, his open-mindedness was also extraordinary and, in a tragic century like the twentieth century, he was able to preserve the reasons for optimism and hope. A friend of Svevo and Montale, his imprint on Italian literature is clearly visible. Italo Calvino will also recognize it, who had, with respect to Literature and Knowledge, an opposite perspective. Now that the twentieth century and the tragic contemporary season have exhausted their propulsive thrust, now that the Coronavirus has tested our collective capacity for resistance, a figure like Bazlen can represent an example, a beacon, a guide. For the level of awareness, for the extraordinary lucidity, for his knowledge of the human. For Bazlen understood all too well the importance of hope in a dynamic such as that of human existence on earth.

  1. Il rovesciamento della prospettiva tragica

Il Novecento è stato, nella storia umana (e non soltanto in quella europea), un secolo profondamente tragico. Basta mettere in ordine pochi, ma giganteschi, elementi: la Prima guerra mondiale, l’epidemia di spagnola, il fascismo italiano, stalinismo e hitlerismo, la guerra di Spagna, la Seconda guerra mondiale, la Shoah, le atomiche su Hiroshima e Nagasaki, la guerra fredda, i fascismi sudamericani, l’assassinio dei fratelli Kennedy, la stagione del terrorismo, il crollo del blocco sovietico, l’uccisione di Falcone e Borsellino.

Analogamente, è possibile fare un discorso simile per le grandi manifestazioni della cultura europea. Dopo la grande stagione dell’ottimismo moderno, che da Descartes e Leibniz arriva a Kant e Hegel, passando per la fondazione della scienza moderna, la cultura contemporanea nasce tragica per vocazione. A partire da Schopenhauer e Leopardi, che Francesco De Sanctis aveva visto protagonisti di un destino comune, passando per Kierkegaard e Nietzsche, fino ad arrivare a Heidegger, Jaspers e l’esistenzialismo, nonché a Adorno e alla Scuola di Francoforte. Senza dimenticare il giovane Thomas Mann, Kafka, Rilke, Montale, T. S. Eliot, Karl Kraus, Musil, Canetti, Proust, Beckett, Pavese, Pasolini.

Per coloro che il Novecento lo hanno attraversato solo per la sua ultima parte, invece, il quadro appare relativamente più solare. Figli, almeno in Italia, del famoso boom economico, hanno potuto assaporare forme di benessere assai più cospicue che non i loro nonni e bisnonni. Viaggiare non è stato più un lusso a disposizione delle classi agiate, così come non lo è stato lo studio, il possesso di una casa, una realizzazione professionale passabile, l’accumulo di un po’ di guadagno. Ma, dato che tutto, sul nostro pianeta, sembra essere soggetto alla legge del contrappasso, non sono mancate, nemmeno in questo caso, le difficoltà. Il benessere è diventato debolezza, fragilità. Laddove le generazioni nate nei primi decenni del Novecento, cresciute a sonori schiaffoni dai genitori e con pochi lussi, anche alimentari, avevano mostrato sufficiente tempra fisica e morale da affrontare i nazisti sulle montagne (finendo addirittura per sconfiggerli), le nostre generazioni soccombono davanti al facile gioco del neo-liberismo, che toglie ai poveri per dare ai ricchi.

L’epidemia di Coronavirus non fa che confermare la diagnosi sul nichilismo e la decadenza europee, formulata da Nietzsche alla fine dell’Ottocento. Eppure, ora che il Moderno è tramontato, ora che anche il Contemporaneo è sorpassato, è giusto che la cultura europea si riappropri di aspetti di resistenza, resilienza e speranza. A questo proposito, ci sembra interessante riflettere su una figura come quella di Roberto Bazlen.

  1. Un Socrate in abiti borghesi

Roberto Bazlen attraversò il Novecento come una meteora. Nato nel 1902 a Trieste, in pieno clima asburgico, egli caratterizzò la sua attività di intellettuale in senso sapienziale, anziché in senso filosofico o letterario, per la scelta determinante di non scrivere. Per tutta la vita, dedicò alla lettura e allo studio una parte della giornata, sdraiato e circondato dai libri.Ciò contribuì ad alimentare, intorno a lui, un clima di leggenda, anche grazie ad una poliedricità e ad una profondità nella sua formazione, del tutto fuori da ogni comune parametro, allora come oggi. Amico di Umberto Saba e di Italo Svevo, contribuì alla scoperta di quest’ultimo grazie all’amicizia di Eugenio Montale – che ascoltò sempre Bazlen, come autorità letteraria di primo rango, sia rispetto alla propria scrittura, che a quella degli altri.

Trasferitosi a Roma, negli anni l’attività di Bazlen si andò cristallizzando in quella di consulente editoriale, prima per Einaudi1 e, poi, per la nascente Adelphi. Alle spalle la Mitteleuropa, di fronte l’Oriente, senza dimenticare Nietzsche – molti dei libri pubblicati, in Italia, durante la seconda metà del Novecento, sono opera sua. Roberto Calasso e Adelphi hanno sempre voluto mantenere vitale il suo ricordo e l’importanza del suo contributo, come vedremo nel corso di questa riflessione.

Non solo, ma la sua attività sapienziale si esplicava in un altro ambito, che oltrepassava il piano teorico e letterario ed era quello di indirizzare ed orientare le vite degli altri, quando il suo interessamento veniva richiesto. La sua attenzione per la psicoanalisi è testimoniata, tra l’altro, da un’importante meditazione su Freud contenuta negli scritti pubblicati postumi2. Morì a Milano nel 1965, prima delle rivolte studentesche e delle molte cose che verranno dopo.

Sebbene Bazlen, nato a Trieste nel 1902, sia morto nel 1965, come si accennava, ossia presto per essere l’oggetto di un discorso sul post-contemporaneo che voglia collocarsi in un’ottica post-novecentesca, tuttavia sono le coordinate del suo “discorso” (e vedremo presto perché, nel caso di Bazlen, siano necessarie le virgolette) a rendere possibile quest’impostazione. Se personaggi come Giorgio Colli e Cristina Campo sono sulla stessa lunghezza d’onda, viceversa scrittori come Gadda, Calvino, Pasolini, Natalia Ginzburg respirano in un’ottica ancora tutta novecentesca. Sarà possibile riprendere il discorso su un ottimismo post-contemporaneo nella cultura italiana con autori morti recentemente, come Umberto Eco, Emanuele Severino, Alberto Arbasino e Roberto Calasso.

Calasso fu l’unico allievo “ufficiale” di Bazlen e questa riflessione muove dal recente Bobi3che egli ha voluto dedicare a questa figura di maestro tanto inclassificabile e, per lui, tanto decisiva – quasi a voler sgombrare il campo da indebite appropriazioni. Uscito contemporaneamente a Memè Scianca – dedicato agli anni d’infanzia -e alla morte dello stesso Calasso, nel luglio 2021, questo libriccino lungo meno di cento pagine è, innanzitutto, la testimonianza di un dialogo a due lungo una vita. Per scomodare un esempio imponente e abbagliante, viene in mente quando Platone parla di Socrate (ossia quasi sempre): ci sono solo loro due, non c’è spazio per altri. I tentativi anche significativi di scrivere su Bazlen, penso a Carlo Levi e Daniele Del Giudice4, sono liquidati con un gesto di stizza, quando non con il silenzio. Anche Eugenio Montale sembra essere un intruso. Questo stile assoluto – chi conosce un po’ di filosofia è abituato a ben altro, basti pensare a Hegel, Nietzsche, Heidegger o Adorno – fa parte del taglio intellettuale di Calasso, che alle regole illuministiche del dialogo e del confronto ha sempre concesso poco.

Dunque, se Bobi è l’ultimo atto del dialogo Bazlen-Calasso, è perché la testimonianza principale sta nel volume di Scritti di Bazlen, uscito nel 1984 per Adelphi, a cura dello stesso Calasso, con un’importante Nota di Sergio Solmi5. A ciò vanno aggiunte due poesie di Montale, uno scritto di Italo Calvino e il libro di Del Giudice, perché l’immagine di uno dei più eccentrici ed imprendibili intellettuali italiani del Novecento, possa avere un minimo di plausibilità. Fino a che sia possibile mostrare il messaggio di speranza che Bazlen ha affidato alla sua bottiglia.

  1. Tra la Sapienza greca e il Tao

Il volume di Scritti del 1984 si apre con un saggio di Calasso davvero notevole, intitolato Da un punto vuoto6. Scrive Calasso, che “non si nasce solamente, come voleva Coleridge, platonici o aristotelici, si può nascere anche taoisti – come Bazlen”7. Dunque, se è indubbio che Bazlen guardava a Oriente, è altrettanto vero che, nell’ambito della cultura occidentale, la scelta di non scrivere, di eludere l’opera, è tipicamente socratica. A questo proposito la dichiarazione capitale di Bazlen, tratta dalle Note senza testo, è la seguente:

Io credo che non si possa più scrivere libri.

Perciò non scrivo libri –

Quasi tutti i libri sono note a piè di pagina gonfiate in volumi (volumina). Io scrivo solo note a piè di pagina8

Così Calasso può scrivere, a proposito dei frammenti e degli aforismi di Bazlen dal titolo Note senza testo, che “il testo delle Note senza testo è da sempre altrove”9. Tuttavia, la migliore esemplificazione della sua scelta di non scrivere, ce la dà Bazlen stesso nello scritto Vi sono grandi uomini viventi in Germania (anch’esso parte delle Note senza testo). Scrive Bazlen:

Un grande uomo è un uomo che crea una grande opera, o che crea un’opera utile a molti. Chi ha

inventato la lampadina elettrica, chi ha portato alle stampe un urlo essenziale che gli è stato strap-

pato dal petto nella sua lotta con un qualsiasi dio, chi da solo ha sgozzato in mezz’ora cento nemici;

ma un uomo può essere anche grande in quanto realizza un tipo nuovo, in quanto crea un nuovo rap-

porto umano, forse anche unicamente in quanto ha risolto nel modo più giusto i piccoli pasticci

della vita quotidiana. La sua grandezza può stare nella rinuncia, la sua grandezza può stare nel

silenzio. Ora, pensi quante opere possono essere state distrutte senza che se ne sappia nulla, pensi

quanti tipi umani si possono essere realizzati nella solitudine o fra la definitiva e conclusiva in-

comprensione degli altri (anche la mia), pensi la ricchezza di rapporti umani che si è, forse, esaurita

in una stretta cerchia familiare o di coterie. Che poi, in un’economia cosmica e non immediatamente

sociale, nulla vada perduto, è ovvio. Ma chi conoscerà il loro nome? Come conoscere un nome se

la grandezza sta nel silenzio?10

  1. Nella mente dei grandi scrittori

L’amicizia tra Roberto Bazlen ed Eugenio Montale è tra le più significative del Novecento italiano. Si trattò di un evento capitale nella vita di entrambi. Per varie ragioni, letterarie ed interiori. Ci atterremo alle prime, che offrono numerosi elementi per riflettere anche sulle seconde.

Il primo elemento storico-letterario, che caratterizza il rapporto Bazlen-Montale, riguarda Italo Svevo. Montale ebbe il merito, almeno in Italia, di “scoprire” Svevo, che aveva pubblicato i suoi due primi romanzi, Una vita e Senilità, alla fine dell’Ottocento, nonché La coscienza di Zeno nel 1923, rimanendo pressoché completamente ignorato. Sul piano internazionale, il successo di Svevo fu, per lo più, merito di James Joyce, che aveva ricevuto il romanzo e che era legato da amicizia a Svevo dal tempo del suo soggiorno triestino11. Dunque, nel 1925, Montale pubblica il celebre saggio Omaggio a Italo Svevo, cambiando la fortuna critica dello scrittore triestino, almeno per quanto riguarda la storia letteraria del nostro paese. Come le Lettere a Montale di Bazlen dimostrano in modo inequivocabile, alle spalle di Montale ci fu Bazlen, che conosceva Svevo12 e conosceva Saba, come poi gran parte del mondo culturale italiano e non solo. Si tratta di un elemento molto noto tra gli specialisti ed acquisito dalla critica da decenni, ma che vale sempre la pena di essere ricordato e meditato.

Il secondo elemento storico-letterario che segna il sodalizio tra Bazlen e Montale appare, quantomeno, altrettanto macroscopico. Bazlen, infatti, sollecita Montale con una lettera scherzosa a proposito di una donna misteriosa che si chiama Dora Markus, che ha delle bellissime gambe e allegando, addirittura, una fotografia. “Falle una poesia13, scrive Bazlen all’amico. Ne nasce una poesia possente e rapinosa, Dora Markus, che mozza il fiato, degna di stare tra le più belle dell’intera letteratura italiana, nonché della produzione dello stesso Montale. Montale la inserirà in Le occasioni del 1939, la sua seconda grande raccolta lirica.Indimenticabile la conclusione della prima parte:

Non so come stremata tu resisti

in questo lago

d’indifferenza ch’è il tuo cuore; forse

ti salva un amuleto che tu tieni

vicino alla matita delle labbra,

al piumino, alla lima: un topo bianco,

d’avorio; e così esisti!14

Dunque, Bazlen era capace di queste sollecitazioni. Geniale Montale, certamente. Ma geniale anche chi, ossia Bazlen, sapeva interpretare la letteratura con tanta profondità, pur mantenendosi ai margini della stessa.

Sarà il vecchio Montale a rendere omaggio alle qualità dell’amico con due poesie del periodo tardo, entrambe successive alla morte di Bazlen del 1965. La prima poesia si intitola Lettera a Bobi e fa parte della raccolta Diario del ’71 e del ’72, uscita nel 1973 e in cui trovano posto anche altre poesie dedicate a personaggi contemporanei della cultura italiana, come Benedetto Croce, Pier Paolo Pasolini, Alberto Asor Rosa. La seconda lirica si intitola La madre di Bobi e fa parte delle Poesie disperse15. Nell’incipit della prima, troviamo un’indicazione preziosa per comprendere la personalità di Bazlen, la peculiarità e singolarità delle sue scelte, sia letterarie che individuali:

A forza di esclusioni

t’era rimasto tanto che tu potevi

stringere tra le mani; e quello era

di chi se n’accorgeva16.

Se, dunque, nelle parole di Montale, Bazlen trovò quel riconoscimento che nasce anche dal sentimento dell’amicizia, tanto più significativo è l’apprezzamento di Italo Calvino, nello scritto Ricordo di Bobi Bazlen17. Calvino era tutto ciò che Bazlen non era e non voleva essere. Credeva in una letteratura di impegno etico. Dialogava con le istanze rivoluzionarie presenti nella società di allora. Credeva in un progetto di costruzione razionale dell’uomo che, progressivamente, risolvesse le contraddizioni del passato e del presente. Si soffermava, stupefatto e ammirato, a contemplare e meditare Senofonte, Ovidio, Ariosto. Calvino era lento; Bazlen veloce. Calvino mite e mansueto; Bazlen scattante e irruento. Calvino rifletteva sulle conseguenze di Marx; Bazlen su quelle di Nietzsche. Eppure, quando Bazlen è morto da più di un decennio e anche per Calvino si avvicina il tempo dei bilanci, il grande Italo – la cui fama letteraria è ormai solida e unanimemente riconosciuta – rammenta il valore dell’avversario di un tempo.

  1. Bazlen e le conseguenze

Diciotto anni dopo la morte di Bazlen, avvenuta nel 1965, Daniele Del Giudice riflette con appassionata profondità sul perché Bazlen non scrisse, sulla sua professione di socratismo. Lo stadio di Wimbledon è, dunque, del 1983 ed è tenuto a battesimo da Italo Calvino, per Einaudi18.

Si tratta, perciò, di una maniera diversa di guardare all’esperienza e al mondo di Bazlen, rispetto a quanto fatto da Calasso e dall’entourage Adelphi, certamente con risultati, come ho cercato di mostrare, significativi. La scrittura di Del Giudice è, da un lato, sobria, nel modo di rapportarsi alle cose, malinconica alla maniera della Mitteleuropa e di quella Trieste, in cui Bazlen si era formato e forgiato19. Dall’altra è un bisturi freddo, razionale, ed è qui forse il motivo dell’esplicito apprezzamento di Calvino.

Per quanto riguarda il socratismo di Bazlen, la sua scelta di non scrivere, di eludere il rischio dell’opera, bisogna riflettere su di un elemento. Bazlen era nato nel 1902 e la sua stupefacente (e stupenda) formazione coincide con l’affermarsi di quel fenomeno che, nel 1947, Horkheimer e Adorno chiamarono l’industria culturale20. Ossia con la nascita e la diffusione del cinema, della radio, della letteratura commerciale e, poi, della televisione. Nonché di internet, negli anni recenti. Impensabile che Bazlen non se ne fosse accorto, che non comprendesse come, in un mondo di questo tipo, sia estremamente difficile mantenere un contatto diretto, autentico, con l’espressione scritta. Il terribile aforisma di Adorno – che pure Bazlen, al contrario di Calasso, non amava – e che suona “non si dà vera vita nella falsa” (Es gibt kein richtiges Leben im falschen)21, è oggi più vero che mai.

Bazlen, dunque, scelse la sapienza, ossia la via di Socrate e Gesù di Nazareth, piuttosto che quella di Platone, dell’espressione letteraria costruita in modo sistematico. Il motivo è che la via della sapienza permette – a chi ha abbastanza forza per percorrerla – una gamma di esperienze assai più vasta. Si tratta, del resto, di ciò che Platone stesso disse, nella cruciale testimonianza della Settima lettera: ossia che non si affidano allo scritto le cose veramente serie22.

Resta il monito di Bazlen. In un mondo in cui l’espressione letteraria – e non essa soltanto – è sottoposta ad un’esperienza di estraneazione radicale, bisogna guardare alla scrittura con parsimonia ed umiltà. Si tratta di un punto di vista simile a quello della sua amica Cristina Campo, che amava ripetere di aver scritto poco e che le sarebbe piaciuto scrivere ancora meno23.

  1. Superare la tragedia con un balzo

Racconta Sergio Solmi, grande critico letterario e anche lui amico di Eugenio Montale, come, nella seconda metà della sua vita, Bazlen gli disse che ormai non era più la letteratura ad interessarlo, ma l’antropologia24. Precisa Solmi che, con questa espressione, Bazlen non intendeva riferirsi alla contemporanea disciplina strutturalista, quanto piuttosto all’elemento umano sempre presente in ogni espressione scritta. Dai pochi cenni fatti sopra, è chiaro che Bazlen fu sempre lontanissimo da qualsiasi forma di umanesimo tradizionalmente declinata. Ciò va dunque inteso nel senso di chi fa professione implicita di socratismo, con tutta la scioltezza mentale e psicologica ricavata dal guardare alla cultura orientale, osservandola molto da vicino25. Non per caso, alla fine della sua importante Nota, Solmi ricorda come, tra gli inviti di Bazlen, ci fosse quello a cercare di tenere l’apertura del compasso al massimo delle sue possibilità26.

Un frammento delle Note senza testo, databile al maggio 1944 ed intitolato Appunti per una lettera, mostra la prospettiva di Bazlen ad un adeguato livello di complessità:

Non si tratta – lo capisci – di negare la storia – la storia esiste – il valore consiste nel superarla – la storia

(concediamoci questa astrazione) si realizza (non è un’idea disincarnata) attraverso la parte storica in noi,

la più caduca, la più ctonia, la meno cristallizzata – più ci realizziamo in pieno, meno disponibilità ab-

biamo per la ‘storia’, meno prendiamo parte a questa attività immediata – sono la voracità, la fame di vita, il

malinteso, l’aspirazione inadeguata in noi che fanno la storia: non il grande gesto che vince abdicando ma il

piccolo gesto che vince saziandosi – chi fa la storia non avrà mai la gloria della trasmutazione, non avrà

che la soddisfazione della sazietà, l’autocompiacimento di essere riuscito a imporsi, la bassa esaltazione

della vendetta realizzata – vincerà sul livello di dove è vissuto, e non respirerà la grande calma al di là del-

la vendetta e del perdono –27

Questo atteggiamento teorico, l’attenzione per le dimensioni mitico-simboliche, per gli aspetti sapienziali, per la metamorfosi, permette di affrontare le difficoltà e la durezza dell’esperienza, della storia, dell’epidemia, senza negare il principio di realtà. Calasso parla, in Bobi, di “un altro modo di respirare”28 e di “una strana irragionevole euforia che stingeva su tutto”29.

Ciò era possibile a chi sapeva guardare a Oriente, a chi – come Bazlen – aveva occhi per il respiro lungo delle culture tradizionali. Da quelle profondità sapienziali brilla ancora una luce, che ci porterà fuori dalla crisi presente.

Daniele Lorusso

1 Di particolare rilevanza il parere editoriale fornito da Bazlen, ad Einaudi, per L’uomo senza qualità di Musil, cfr. R. Bazlen, Lettere editoriali, in: Scritti: Il capitano di lungo corso – Note senza testo – Lettere editoriali – Lettere a Montale, a cura di R. Calasso, Adelphi, Milano 1984, pp.273-279.

2 Cfr. R. Bazlen, Freud, in: Scritti: Il capitano di lungo corso – Note senza testo – Lettere editoriali – Lettere a Montale, cit., pp. 259-261. Per un breve commento a questo testo, cfr. R. Calasso, Bobi, Adelphi, Milano 2021, pp. 82-85.

3 Cfr. R. Calasso, Bobi, cit..

4 Cfr. C. Levi, L’Orologio (1950), introduzione di M. Acetoso, Einaudi, Torino 2015; su Del Giudice mi soffermo al punto 5 di questa riflessione.

5 Cfr. R. Bazlen, Scritti: Il capitano di lungo corso – Note senza testo – Lettere editoriali – Lettere a Montale, cit. Si tratta di ripubblicazione, poiché le Lettere editoriali, Note senza testo e Il capitano di lungo corso erano già usciti, per Adelphi, rispettivamente nel 1968, nel 1970 e nel 1973.

6 Il saggio è raccolto anche nel volume che comprende tutti i saggi e gli interventi di Calasso fino agli anni novanta, cfr. R. Calasso, I quarantanove gradini, Adelphi, Milano 1991, pp. 65-71.

7 Ivi, p. 66.

8 R. Bazlen, Scritti, cit., p. 203.

9 R. Calasso, Da un punto vuoto, in: I quarantanove gradini, cit., p. 68.

10 R. Bazlen, Scritti, cit., pp. 262-263.

11 Per quanto riguarda un quadro storico-critico su vita e opere di Italo Svevo, agile ed esauriente, cfr. A. Asor Rosa, Storia europea della letteratura italiana. III. La letteratura della Nazione, Einaudi, Torino 2009, pp. 230-241.

12 Su Svevo ha scritto anche lo stesso Bazlen, in due brevi saggi dal titolo Introduzione a Svevo e Prefazione a Svevo, contenuti nelle Note senza testo, cfr. R. Bazlen, Scritti, cit., pp. 237-241.

13 R. Bazlen, Scritti: Lettere a Montale, cit., p. 381. Su questo episodio cruciale per le sorti della nostra letteratura, si sofferma anche Calasso, Bobi, cit., pp. 57-58.

14 E. Montale, Tutte le poesie (1980), a cura di G. Zampa, Mondadori, Milano 1996, p. 130. Per un commento a Dora Markus, cfr. E. Montale, Le occasioni (1939), edizione commentata da T. De Rogatis, con scritti di L. Blasucci e V. Sereni, Mondadori, Milano 2021, pp. 63-73.

15 Cfr. E. Montale, Tutte le poesie, cit., p. 832.

16 Ivi, p. 464. Per un commento a Lettera a Bobi, nonché a Lettera a Malvolio (dedicata a Pasolini), A un grande filosofo (dedicata a Croce) e a Asor, cfr. E. Montale, Diario del ’71 e del ’72 (1973), edizione commentata da M. Gezzi, con scritti di A. Jacomuzzi e A. Zanzotto, Mondadori, Milano 2020, pp. 175-180, pp. 188-198, pp. 288-293, pp. 312-316.

17 Cfr. I. Calvino, Ricordo di Bobi Bazlen, in: Saggi 1945-1985, I, a cura di M. Barenghi, Mondadori, Milano 1999, pp. 1007-1009.

18 Cfr. D. Del Giudice, Lo stadio di Wimbledon (1983), Nota di I. Calvino, Einaudi, Torino 2021.

19 Su Trieste, esiste un delizioso scritto di Bazlen intitolato Intervista su Trieste, contenuto nelle Note senza testo, cfr. R. Bazlen, Scritti, cit., pp. 242-255.

20 Cfr. M. Horkheimer-T. W. Adorno, Dialektik der Aufklārung. Philosophische Fragmente (1947); trad, it. Dialettica dell’illuminismo, traduzione di R. Solmi, introduzione di C. Galli, Einaudi, Torino 1997, pp. 126-181.

21 T. W. Adorno, Minima Moralia. Reflexionen aus dem beschādigten Leben (1951); trad. it. Minima moralia. Meditazioni della vita offesa, traduzione di R. Solmi, introduzione di L. Ceppa, Torino, Einaudi 1979, p. 35. Per quanto riguarda il duro giudizio di Bazlen su Adorno – “è uno di quelli che si profumano perché hanno paura di puzzare” – cfr. Calasso, Bobi, cit., p. 22.

22 Cfr. G. Colli, La nascita della filosofia (1975), Adelphi, Milano 1996, p. 112.

23 Cfr. M. Pieracci Harwell, Il sapore massimo di ogni parola, in: C. Campo, La Tigre Assenza, a cura di M. Pieracci Harwell, Adelphi, Milano 1991, p. 284.

24 Cfr. S. Solmi, Nota, in: R. Bazlen, Scritti, cit., p. 269.

25 Questa passione e questo impegno nei confronti della cultura orientale, sono poi passati in Calasso. Sia per quanto riguarda le scelte editoriali di Adelphi, a partire da capolavori del pensiero orientale come la Bhagavadgītā, il Tao-tê-ching, la Vita di Milarepa, meravigliosamente tradotti e commentati, sia per quanto concerne gli sviluppi della sua ricerca, cfr. R. Calasso, Ka (1996), Adelphi, Milano 2002; Id., L’ardore, Adelphi, Milano 2010.

26 Cfr. S. Solmi, Nota, in: R. Bazlen, Scritti, cit., p. 271.

27 R. Bazlen, Scritti, cit. pp. 200-201 (corsivo mio).

28 R. Calasso, Bobi, cit., p. 18.

29 Ibid.



Daniele Lorusso è nato a Roma nel 1977, dove vive e lavora. Si è formato alla Sapienza in discipline filosofiche, storiche e letterarie, concludendo il proprio percorso di formazione accademica con un lavoro su Gnoseologia e metafisica in Schopenhauer. Successivamente si è occupato delle connessioni tra il pensiero di Hillman e la filosofia antica, moderna e contemporanea, attraverso un lavoro intitolato Considerazioni su Il mito dell’analisi di James Hillman (Studi Junghiani, 2013). Nel 2014 pubblica il suo primo libro con l’editore Moretti & Vitali di Bergamo, intitolato L’apprendista stregone. Note sul rovesciamento di mezzi e fini nel mondo contemporaneo. Lo scopo del libro è di far risuonare, ancora una volta, le parole della grande critica che la filosofia otto-novecentesca ha rivolto alla contemporaneità, tanto da parte marxista che da parte conservatrice, tanto per ciò che concerne il mercato quanto per ciò che concerne la tecnica. Come appendice e prosecuzione delle tesi del lavoro maggiore, è nato un ulteriore lavoro (Ritiri filosofici, 2015) su Mobilitazione totale di Maurizio Ferraris, in cui, attraverso il confronto con le posizioni del filosofo del “nuovo realismo”, la tesi del rovesciamento di mezzi e fini nel mondo contemporaneo viene applicata alla rivoluzione digitale in corso.


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