In una sala del Museo archeologico di Napoli, nel bel mezzo di una squisita raccolta di affreschi romani del primo secolo, una giovane seminuda bocconi, pietrificata nell’asfissia, catalizza l’attenzione dei visitatori che attraversano distratti il resto dell’immenso edificio. L’impronta nella cenere, l’istantanea (o quasi) di una persona in agonia, è restituita come finzione di un corpo sotto forma di calco: gioco di positivo e negativo, di matrice e stampo, di tipo e replica che turbava già i nostri maggiori un paio di secoli fa, negli scavi dell’antica eruzione.
Si ha però l’impressione che per la gran parte dei visitatori la vera attrazione di tutto il museo (se si eccettuano le due mummie della collezione egizia), sia proprio quella statua cadavere, occasione di un raro lampo di genuina curiosità nel ciondolare ipnotico tra le sale con l’aspettativa finale di una bibita ghiacciata, mentre si spunta con sollievo un altro to do dalla lista partenopea.
Mi sembra che da questa “cartolina” si possano trarre due atteggiamenti alternativi e un insegnamento molto generale. In termini ampi, vi è tematizzato tutto il problema dell’identità sociale di oggi.
L’insegnamento, purtroppo, è sempre quello. Perché convogliare torme di turisti ad annoiarsi in un luogo più adatto ai conoscitori, agli appassionati, agli specialisti? È un magazzino, si replica. E si capisce; forse sarebbe stato meglio assai lasciare affreschi, mosaici, sculture e suppellettili in situ, prendendosene cura con delicatezza lì dove furono trovate, nelle città museo Pompei ed Ercolano. Altri tempi, altra mentalità; inutile pestare i piedi. Quanto al trasloco, un allestimento serio avrebbe richiesto uno grande quanto le città stesse (con Borges) o, appunto, un sontuoso antiquarium. Ma i napoletani hanno un motto celebre: cosa fatta capo ha.
C’è il magazzino dunque. La Wunderkammer senza confini dove ogni bronzo, ogni tessera musiva, ogni tratto di pennello e ogni seno mitologico sono delizie da centellinare, nettari da meditare, sempre più introdotti nell’ebbrezza dell’armonia e dell’invenzione. Una visita che come anche per i Capitolini, per i Vaticani, per gli Uffizi, per il Prado e oltre, richiederebbe di potersi rinnovare con un solo pagamento magari per i cinque giorni indispensabili, per dare veramente modo a chi è interessato – non solo a studenti o ricercatori pressati dalla scadenza – di poter sentire qualcosa di essenziale.
Certo, simili intenti lascerebbero intatto a mala pena il cinque percento del pubblico attuale. Basterebbe allora dirottare il grosso del pubblico (per lo più famiglie, sposini e gruppi di ragazzi) verso una formula più alla mano per tutti, accattivante e in linea con la logica globale dei musei esperienziali e interattivi. Con pochi originali scelti e un sistema molto studiato di ricostruzioni, percorsi e coinvolgimento sensoriale, l’ora di full immersion classica volerebbe lasciandosi dietro una scia gradevole, magari una sottile nostalgia, come due sole ostriche ma accompagnate come si deve. Questo è del resto il dramma, metà farsa, metà tragedia, che assilla tutti i patrimoni culturali importanti quando si spingono troppo oltre le risorse del pubblico attuale.
Quanto alle alternative sollecitate dalla scena dei turisti sgomitanti sulla teca con il corpo cementato, riguardano invece la sfera dei princìpi e questo leva fin da subito la possibile “concretezza” da sotto ai piedi.
Come accade per esempio alle esposizioni di mummie, si può scegliere di reificare la corporeità, ossia considerare il cadavere alla stregua di un oggetto qualunque trattandolo poi come tale. Un tentativo di “oggettivazione” positivistica destinato a fornire una soluzione apparente al problema. Questa sembrerebbe peraltro la linea seguita dal museo napoletano, se non fosse per quell’accento di curiosità troppo insistito: il calco solitario di una giovane asfissiata, seminuda al centro della sala; il facile richiamo a certe morbosità, l’ammiccamento che funziona, la Wunderkammer appunto…
La scelta opposta (che si va facendo strada tra le polemiche) consiste invece nel tentativo di rispettare l’umanità del reperto necrotico, sostanzialmente lasciandolo in situ o sottraendolo comunque all’eccesso di visione. Facendo un controesempio, è plausibile l’esposizione di un unico, superbo Rubens, al museo teratologico dell’osepdale? Cosa penserebbero le tre biondone corpose e lascive dei poveri mostriciattoli sigillati nei barattoli di formalina? Sì, proposte simili ormai se ne contano a decine o centinaia in moltissime esposizioni del mondo, ma sono costruite appunto con intenti provocatori, dissacranti, ben dichiarati. In questo caso invece la provocazione è assente, il flusso delle attese è veramente interrotto (forse perciò scatta la molla). Ad ogni modo, le due visioni alternative sono difficilmente conciliabili in quanto presumono ciascuna a due etiche più generali che si contrappongono.
Il museo come è noto è invenzione moderna e umanistica strettamente legata al tema della ricerca identitaria collettiva. Con la perspicuità che gli è propria, Foucault sottolinea che dall’avvento dell’umanesimo l’essere umano diviene sempre più un problema a se stesso, un labirinto a mano a mano insondabile dove l’oggetto di studio, la mèta, finisce per dissolversi in una nebbiolina. L’esempio del corpo cementificato, forse la stessa nozione di museo, sono casi paradigmatici di questo movimento lungo e progressivo di evaporazione dell’umano.
Quanto vi è di voyeuristico, di morbosamente compiaciuto, di macabro fascinoso e al tempo stesso di radicalmente estraneo e distaccato negli sguardi rapaci e turbati dei visitatori; il fatto stesso che il corpo stia lì, esposto come una curiosità, per solleticarla nell’osservatore, fanno pernsare alla dissoluzione umana così presente in Foucault (e ovviamente prima di lui a Nietszche).
Identità, presenza corporeità, “antropometria” (desueta espressione lombrosiana riattualizzata dai programmi di risonoscimento somatico), sono temi che ossessionano a ondate crescenti il Novecento e soprattutto questo strano prolungamento che definiamo “presente”. Si scontrano con l’antico buon senso di chi non dubita troppo degli Immutabili o, se lo fa, subito se ne rassicura. Un buon senso popolare, contadino e artigiano, destinato a soccombere nell’epoca delle identità collettive fluide, effimere, docilmente malleabili e tanto più fragili e problmematiche. Da questo punto di vista, vien fatto di notare quanto nel nostro caso tali smarrimenti identitari si rispecchino nella vittima pietrificata al centro della collezione pittorica. Un “caduto” ignoto, forma e materia del quale non sono né corpo né statua, né realtà naturale né artificio di rappresentazione. Un ibrido, si potrebbe concludere, che per le sue caratteristiche (anzitutto l’esser vittima) sembra tradurre iconicamente e secondo un registro accessibile a tutti l’inquietudine delle masse che progressivamente hanno scoperto Nerval senza saperlo: Je est un autre. Immedesimarsi quindi in un altro da sé che però è un minerale; un minerale sì ma anche (forse) umano. Tra lei e te: un ponte? no, un baratro. L’unico ponte possibile è l’esser vittima tu pure, il contrario dell’eroe.
Inquietudine e scoperta onde si genera a più riprese la solita domanda: che fare? Domanda antipatica: di per sé non ammette una vera risposta ed è sempre più urgente e di interesse comune.
Rendersi conto anzitutto che l’affaire identitario (chiamiamolo così) va serpeggiando nel sottosuolo ormai da troppo tempo per potersi poi concludere con un colpo di vento. Inoltre, riconoscere che il terreno proprio è culturale, antropologico e filosofico: le identità politiche (ammesso che ancora trovino dei corifei) sono oggi un fenomeno periferico rispetto alla questione principale, che a tratti pare già sfociata nella mitologia. Disilludersi quindi che l’inflazione dei tanti brandelli d’identità sociali rimediati in giro possa subire a breve una battuta d’arresto o un’inversione di tendenza. Fan club, associazionismi, tifoserie, tatuaggi alla moda, bande più o meno teppistiche, affiliazioni settarie, circoli, gruppi di consumatori e via pescando nel baule dei costumi, altro non sono che tentativi, abitualmente fallimentari, di recuperare ai loro partecipanti un qualche senso di appartenenza già smarrito da un pezzo per tutti.
Anche per questo, incidentalmente, i discorsi politici progressivo riformisti e quelli opposti di stampo conservatore mantengono per il pubblico, a giorni alterni, i loro cinque minuti di persuasività. Anzi, data la confusione non sorprenderebbe domani la reviviscenza di un certo ribellismo anarcoide (istituzionalizzato però), contrapposto a sogni reazionari in stile De Maistre, ma presentati sotto il berretto frigio. Sit venia verbis. Ma lasciamo correre.
Un po’ come la tenera vittima di gesso, tutti noi siamo più o meno dei calchi riempiti di materiali eterogenei; per di più talmente assuefatti alla cosa da non considerarla un grande problema. Le cosiddette élites (economiche, politiche, “culturali”) non fanno eccezione a questa regola, anzi la incarnano più e meglio di altri perché ne hanno assorbito e propugnato la logica in anticipo. A parte il fatto che il termine “élite”, così come “eccellenza” (di fascistica memoria), puzza un po’ di stantio.
Ad ogni modo, per riscattare almeno qualcuna tra le meno annichilite delle tante identità sociali nei vari ambiti, si può fare un parallelo tra il museo divulgativo e quello specialistico. Rapidi percorsi di qualità che sappiano coinvolgere e interessare il pubblico “generalista”, una frazione del quale magari troverà anche lo stimolo giusto per approfondimenti più seri alla domanda “chi sono”. Ma occorrono appunto la misura, il metodo, la serietà: ossia il convitato di pietra, specie in tema di identità politica.
Occorre pure, come diceva Madama Letizia, denaro. Un mondo in preda alle paralisi identitarie multiple potrebbe infatti catalizzarsi per un po’ attorno all’idea di un’identità vissuta come servizio (non penso tanto agli ordini cavallereschi quanto, prosaicamente, ai servizi pubblici); cosa che di per sé richiede uno sforzo economico e finanziario.
Certo, una simile prospettiva non è di quelle che esaltino l’animo infiammandolo per chi sa quale utopistica avventura; ma può presentarsi in forma onesta, asciutta, liberale. Del resto la vituperata socialdemocrazia (che in molti rimpiangono senza ammetterlo o senza neppure sospettarlo) era riuscita sovente a quadrare il cerchio, offrendo un “paniere” di temi identitari, socialmente credibili, in cambio della più larga adesione a criteri e valori presupposti (eredi delle famose “regole del gioco”). Riproporre tutto sarebbe antistorico; ma all’interno del paradigma tecnico ed economicistico attuale il servizio pubblico è un problema destinato a rimanere cruciale per contenere le tensioni interne crescenti, specie in un continente che volge al declino. Magari trasformando la nozione di servizio pubblico nell’intelligente occasione che favorisca dei coaguli identitari di respiro più lungo. Appare superfluo insistere sui tanti benefici, anche economici, che si ricaverebbero dall’esaudire in modo non banale questa “voglia di comunità”. Tanto per dire, se si affrontasse la questione in sede sovranazionale si otterrebbe il doppio beneficio di armonizzare sul contintente certe classi di servizi pubblici essenziali (le identità culturali lo sono certamente), disinnescando al contempo alcuni dei motivi di risentimento popolare contro Bruxelles.
A meno che, naturalmente, le soluzioni si presentino da sole, inattese, magari scongiurate. Come nel caso delle guerre, tipico esempio di spreco generalizzato dove prima le diverse identità sembrano cementarsi, per poi annichilirsi a vicenda finché la stessa ansia identitaria ceda il passo alla sopravvivenza selvaggia.