Nonostante il nome di Frances Taylor Patterson sia sconosciuto ai più finanche tra gli addetti ai lavori, il suo ruolo si rivela strategico nell’ambito della riflessione critica sull’allora nascente industria cinematografica. La maggior parte delle notizie biografiche purtroppo non è nota, ma senza dubbio tale nome riveste una posizione di assoluto rilievo nella storia del cinema americano degli albori, almeno per tre motivi:
- è stata la prima docente donna di cinema in ambito americano e il suo corso alla Columbia University, Photoplay Composition, del 1917, è stato uno dei primissimi insegnamenti dedicati alla settima arte addirittura sponsorizzato dalla Paramount;
- in tale corso ha prefigurato alcune importanti questioni di ordine estetico inerenti al dispositivo filmico e al ruolo attivo dello spettatore nel decodificare le immagini in movimento;
- ha rivestito una posizione chiave per quanto riguarda i contatti tra accademia ed industria, rappresentando il primo caso di un tentativo di impostazione culturale di tradizione accademica nei confronti degli studios, qui rappresentati dalla Famous Player Film (in seguito Paramount) di Adolph Zukor e Jesse L. Lasky.
Ma andiamo con ordine. In un articolo del 1913 riguardo la Famous Player Film Company di proprietà di Adolph Zukor si legge: «Brander Matthews, of Columbia College, has made an offer to [Adolph Zukor] of the Famous Players Company to preserve in his private collection a copy of every film made by the company […]. The offer has been accepted absolutely […]»[1]. I contatti quindi tra Zukor e la Columbia University avvengono già nel 1913, e il polo della Columbia si rivela molto attivo nell’intrattenere rapporti con l’industria cinematografica allora agli albori, prima con il professore Brander Matthews, poi con gli alievi di Matthews: Victor Oscar Freeburg (che insegnò Photoplay Composition fino al 1917) e Frances Taylor Patterson, che sostituì Freeburg fino alla fine degli anni Trenta. È proprio con quest’ultima che la Paramount intrattiene i rapporti più duraturi. Come afferma Peter Decherney, Hollywood, per legittimare lo statuto artistico della forma filmica, si è dovuta avvalere dell’appoggio delle istituzioni: «[…] Hollywood producers and their marketing departments were in no position to declare film to be art on their own. They were able to seize various opportunities presented by cultural institutions – universities, museums, and government art and information agencies – whose leaders had their own designs on turning popular film into an American art form […]»[2].
Il corso di Patterson era un extension course, uno di quelli che, come diciamo oggi, non dà crediti, ovvero non è utile ai fini del conseguimento della laurea. Era piuttosto un corso universitario serale aperto sia agli studenti immatricolati che volevano approfondire le loro conoscenze sul cinema, sia ad un pubblico adulto desideroso di lavorare nell’industria del cinema, finanche – a partire dal 1919 – a corsisti a distanza. Da un punto di vista squisitamente didattico, Patterson si pose in maniera antitetica rispetto al metodo di Freeburg, del quale mai nemmeno adottò i libri. Dana Polan sostiene addirittura che Patterson sia stata un’allieva di Freeburg; inoltre, nel suo Cinema Craftmanship (1920), Patterson cita spesso Brander Matthews, advisor di Freeburg al tempo del dottorato: quasi sicuramente i due si conoscevano.
Da Freeburg, l’autrice ha sicuramente ereditato un’idea di cinema in cui il film non sia solo il risultato di una scrittura letteraria, bensì una stratificazione di elementi sia visivi che narrativi. A differenza di Freeburg, però, i cui gusti tendevano ad essere molto conservatori, Patterson era più aperta alla “sperimentazione” e ha sostenuto opere come La corrazzata Potemkin (1924) di Sergei Eisenstein o Il gabinetto del dott. Caligari (Das Cabinet des Dr. Caligari, 1921) di Robert Wiene.
L’attività di docente l’ha portata a scrivere due volumi sull’arte della sceneggiatura, Cinema Craftsmanship (1920), di cui riportiamo più avanti un estratto in traduzione, e Scenario and Screen (1928), che sono stati utilizzati come libri di testo per il corso e che includevano anche una riflessione più generale sull’estetica dei film. Il fatto stesso che Cinema Craftsmanship abbia avuto una seconda edizione solo un anno dopo la sua prima pubblicazione può far supporre che il testo possa aver goduto di una certa diffusione anche in ambiti non universitari. È difficile sapere in che misura la sua attività critica abbia influenzato l’industria cinematografica, ma Dana Polan ci informa che lo stesso Zukor ha avuto una certa influenza nella sua candidatura come docente alla Columbia e che la Paramount Pictures ha prodotto un film pedagogico sulle tecniche cinematografiche appositamente per lei, forse per essere usato come paradigma esemplificativo di queste tecniche durante il suo corso[3]. Possiamo quindi certamente affermare che il corso di Patterson sia stato il primo insegnamento universitario di cinema ad essere sponsorizzato e finanziato da una casa di produzione come la Paramount[4]. In Cinema Craftsmanship l’autrice coglie il rapporto dialettico tra l’arte di fare film e l’approccio pragmatico tipico dell’ambiente industriale: a differenza di un testo teatrale che può essere letto senza essere rappresentato, la sceneggiatura deve avere come fine ultimo la sua “produzione” per essere tradotta in immagini e proiettata al cinema. Patterson affronta, in anticipo sui tempi, anche questioni critiche relative alla consapevolezza dello spettatore: un fruitore consapevole delle tecniche cinematografiche è anche più pronto a cogliere l’aspetto formale del film e a comprenderne meglio le relazioni che si instaurano tra forma e contenuto. Uno spettatore “colto”, secondo Patterson, potrebbe spingere l’industria a produrre film di qualità maggiore. Alcune di queste considerazioni possono apparire oggi ingenue, ma contestualizzate nel loro periodo storico, la fine degli anni Dieci, momento in cui venivano prodotti film con standard qualitativi ancora non uniformi, ci sembrano esemplificative di un modo di intendere il cinema che tiene sempre presente il rapporto con l’industria. Un aspetto del tutto originale e che appare oggi utopico, che si trova solo nel libro di Patterson e non di altri autori di quel periodo[5], è che lo scrittore della sceneggiatura dovrebbe essere il vero regista, indicando fin dallo script tutti gli aspetti tecnici del film e soprattutto l’aspetto formale. Per Patterson, è quindi lo scrittore, e non il regista, il vero autore del film: in questo modo a chi idea il film sarebbe garantito che il suo disegno narrativo originale non subisca manipolazioni né dal regista – nel tradurlo in immagini -, né dalla casa di produzione[6].
Ma Cinema Craftsmanship è importante anche perché testimonia l’uso di convenzioni aristoteliche nella stesura di una sceneggiatura. Tali convenzioni vengono per lo più attribuite ai “neoaristotelici” degli anni Settanta: a partire infatti da questo periodo, si assiste in ambito statunitense al fiorire di una cospicua manualistica inerente alle modalità di scrittura cinematografica i cui autori sono teorici e storyconsultants come Robert McKee, Chris Vogler, Linda Seger e soprattutto Syd Field, con il quale si inaugura la grande stagione della codificazione della three act structure ereditata dalla Poetica di Aristotele[7]. Anche se la convenzione dei tre atti è stata estrapolata arbitrariamente, viene applicata con una riflessione seria in ambito industriale proprio a partire da questi critici (alcuni di loro professori universitari), reclutati dagli studios come consulenti alla sceneggiatura. In alcuni studi di settore si è evidenziato come l’utilizzo di questi teorici neoaristotelici nell’industria cinematografica rappresenti il primo “scambio” tra accademia e industria. Possiamo invece affermare, alla luce di quanto si è detto, che tale scambio sia avvenuto circa mezzo secolo prima, rappresentato appunto dai frequenti rapporti tra Columbia University/Patterson e Paramount/Zukor. Inoltre Cinema Craftsmanship si pone a tutti gli effetti come antesignano dei concetti espressi da Syd Field (con il quale erroneamente si fa coincidere la codificazione del paradigma dei tre atti): «We can, in fact, go back to 1920 and Francis Patterson’s Cinema Craftsmanship and read a description of what makes an American tick – which sounds every bit like Field’s book […]»[8]. Lo stesso Field tra l’altro ha dichiarato di essersi ispirato al libro di Patterson. Questa pioniera del cinema rimane ancora oggi tra i teorici del cinema meno riconosciuti: il suo nome recentemente è apparso in alcuni studi di rilievo, come quelli di Decherney e Polan, sia per ricostruirne l’attività di docente, sia per valutarne il nucleo teorico di alcune sue proposte. È innegabile però che il suo nome sia ancora poco conosciuto. Riportiamo in maniera parziale alcuni punti salienti di Cinema Craftsmanship, il I capitolo, The Art and The Science, il II capitolo, The Plot, e il IX, The Critical Angle: auspichiamo che in questo modo si possa far luce su alcune teorie inerenti al cinema che Patterson aveva prefigurato e che si consolideranno solo qualche decennio più tardi[9].
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Per consultare la traduzione dell’inedito cliccare qui
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Bibliografia
ARISTOTELE, Dell’arte poetica, a cura di G. Galavotti, Cuneo, Lorenzo Valla Editore 2004.
DECEHERNEY P., Hollywood and the Culture Elite: How the Movies Became American, Columbia University Press, New York 2005.
FIELD S., Screenplay, The Foundation of Screenwriting, Dell Publishing, New York 1979.
HARCHER W., Play-Making. A Manual of Craftsmanship, The Univeristy Press, Cambridge 1912.
HORTON A., edited by: Three More Screenplays by Preston Sturges, University of California
Press, London 1998.
JACOBS D., Christmas in July: The Life and Art of Preston Sturges, University of California Press,
Oxford 1992.
NARDIS A., Un dittatore ad Hollywood: il caso Aristotele, Milano, Tangram Edizioni Scientifiche
2015.
POLAN D., Scenes of Instruction: The Beginnings of the U.S. Study of Film, University of
California Press, Los Angeles 2007.
[1] Peter Decherney, Hollywood and the Culture Elite: How the Movies Became American, Columbia University Press, New York 2005, p. 51.
[2] Ivi, pp 1-2.
[3] Dana Polan, Scenes of Instruction: The Beginnings of the U.S. Study of Film, University of California Press, Los Angeles 2007. Si veda il primo capitolo, First Forays in Film Education: The Pedagogy of Photoplay Composition at Columbia University.
[4] Il produttore Adolph Zukor e Jesse L.Lasky vengono addirittura ringraziati nella prefazione di Cinema Craftsmanship.
[5] Questi libri non erano nella più parte e in prima istanza pensati come contributi estetici o teorici, ma come veri e propri manuali principalmente incentrati sulla scrittura per il cinema. Fin dagli anni Dieci ci furono molti contributi in questo senso; ricordiamo, tra i titoli maggiori: On Picture-Play Writing: a Hand-Book of Workmanship di James Slevin (1912), The Technique of the Photoplay, di Epes Winthrop Sargent (1913), Writing the Photoplay, di J. Berg Esenwein e Arthur Leeds (1913), The Photoplaywrights’ Handy Text-Book di Florence Radinoff (1913), The Photoplay Writer di Leona Radnor (1913), The Art of the Photoplay di Eustace Hale Ball (1913), Moving Pictures: How They Are Made and Worked di Frederick A. Talbot (1914), The Photoplay di James Taylor (1914).
[6] È ironico che la sceneggiatura prodotta da Patterson, Broken Hearts del 1926 (ora persa) sia stata fortemente monitorata dal produttore del film: Patterson, in questo senso, sembra avere avuto poco potere all’interno del business cinematografico.
[7] Una sfasatura storica ha contribuito ad attribuire ad Aristotele norme e convenzioni filtrate in realtà attraverso la cultura rinascimentale, come la divisone del dramma in tre atti e il rispetto delle unità di luogo, tempo e azione (si veda la Poetica volgarizzata di Ludovico Castelvetro). Aristotele non ha mai codificato la tragedia in atti: nessuno degli esemplari superstiti presenta tale convenzione. Il filosofo si è espresso in termini differenti, parlando del racconto come di un «tutto che abbia un principio, mezzo e fine:» (Poetica, 7, 1450 b, 24-26). L’unico riferimento alle parti fisiche del dramma si ha poco più avanti, quando afferma che «[…] ci sono da considerare poi (gli elementi della tragedia) da un punto di vista materiale, rispetto alle sezioni fra cui si ripartiscono: prologo, episodio, esodo e parte orchestrale» (Poetica, 12, 1452 b, 15-17). Tolta la parte orchestrale, è vero che le parti relativi all’azione drammatica sono effettivamente tre, prologo, episodio ed esodo, ma questo non ci autorizza a parlare di tre atti.
[8] A. Horton, Writing the Character-Centered Screenplay, University of California Press, New York 1999, p.92.
[9] Ringrazio la traduttrice Alessandra Avino per aver saputo cogliere le stratificazioni semantiche del testo di Patterson.
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