Abstract
La condizione di esilio, lì dove si pone come mancanza, rappresenta una possibilità di trasformare il mondo in uno spazio ospitale. Qui l’universalismo e i localismi possono coincidere in una realtà dinamica che esprima un multiverso cosmopolitismo così che si passi da una patria ad una matria. Il sentiero tracciato da Levinas e Derrida fornisce una pista preziosa per capire come il fatto che deriva dall’essere ad un tempo ebrei e greci concilia l’universalità del nomos con la particolarità della pietas. Questo chiasma ingiunge di perseguire categorie bibliche universali e concrete come una irrecusabile responsabilità per lo straniero, l’orfano e la vedova. Tale prospettiva cosmopolitica e multiversa indicherebbe pertanto orizzonti di pace e di liberazione.
Abstract
The condition of exile is both a lack and a possibility to turn the world in a common space where parrochial and universal are connected.
The path traced by Levinas and Derrida is precious to understand how this kind of chiasm so clear in being Jew and Greek at the same time conciliates the Universality of nomos and the particularity of pietas calling for an unrefusable responsibility toward foreigner and poor, thus perspecting a new kind of cosmopolitism oriented to liberation and peace.
Introduzione
Pensare è non essere a casa ma, ad un tempo, costituisce una diversa possibilità di abitare. La cifra plotiniana dell’ascesa, così come quella dello spaesamento che disegna una geografia filosofica da Freud ad Adorno sono chiare evidenze di una inquietudine decifrabile solo dentro la fatica dell’esistenza intesa come figura del possibile Questo per indicare come la cifra dell’esilio sia propria della filosofia e costituisca un esercizio di autocoscienza per apprendere la via del ritorno ad una patria che, tuttavia, si esplica come riserve di senso e come un cammino sollecitato dallo stesso richiamo della vita.
Tale condizione dell’esule configura uno spazio sempre da inventare, un dare nome al mondo per renderlo abitabile e ospitale in modo da condividerlo come evento di diverse voci, tutte levate per dire un universo plurale, paradossalmente, si esprime come comune.
In questo senso l’esilio traccia l’utopia del possibile non a partire dai luoghi, ma certamente a partire dalla comunione dei volti1 e, se, come dice Bloch, patria è dove non si è, il pensiero è appena il percorso che segna provenienza ed orientamento: ognuno nella propria differenza ripercorre la propria origine comune, consapevole che in quella differenza è microcosmo ospitale, esposto alla responsabilità in virtù di cui accogliere l’altro facendo incontrare due estraneità in modo tale che tendere all’abitare la patria, sia pur sempre un esodo.
Necessario è, tuttavia, sottolineare che questo esodo è sempre un moto interiore che, aprendosi ad altri, scuote quella identità solitaria, richiamandola –in un imperativo ineludibile- alla cura.
Ma questo implica un rovesciamento: in primis è necessario ricever-si come apertura d altri, conseguentemente riconoscere il pensare come prima uscita da sé che segna un compimento ogni volta che da un interiore altrove si riconosce l’ingiunzione infinita della responsabilità.
La cifra levinassiana ed ebraica qui richiamata, configura già una sorta di ontologia dell’esilio, dato che viene qui configurata una filosofia che cerca di abitare una lingua altra,2 assumendola come un luogo ospitale caricando l’esilio di inedite possibilità
Se le cose stanno così, l’esilio è casa comune, in un modo tale che l’accoglienza di chi è straniero diviene memoria della propria estraneità che ingiunge una comune fruizione senza l’ingordigia del possesso.
Sceglieremo come cifre di questo esilio accogliente o forse meglio di questa ospitalità memorie dell’esilio: Atene e Gerusalemme, e dunque una cifra chiastica che segna da un lato la necessità di riconoscere la traccia del logos in chi è portatore di una differente ragione e dall’altro l’esigenza di ravvisare nel concretum l’ineludibile visione dell’universale, arricchendolo della pluralità.
Levinas e Derrida saranno, in tal senso mentori di questo esodo. Nel primo in particolare l’attenzione alla cifra del femminile che, nella sua capacità di genesi, si espone in un continuo portare l’altro, ci sembra di poter ravvisare la carica profetica che nell’esilio esprime il possibile, e segna una responsabilità di alleggerimento della terra.
§1 Kairos messianico e storia come profezia: l’ermeneutica biblica di Levinas
L’esilio è una cifra ricorrente nel mondo biblico semitico, condizione che, da un lato rinvia ad un prototipo storico-paradigmatico: Israele in quanto popolo del patto (Berit) e, dall’altro ad una concezione dell’affrancamento e della redenzione della storia fattasi segno messianico di una riconciliazione fra i popoli.
Non possiamo non riferirci ad Emmanuel Levinas, che, tuttavia, presenta un pensiero davvero paradossale, come ben evidenzia Silvano Faccioni, dato che si ravvisano nella sua produzione radici e matrici di diversa provenienza (dal rabbinismo alla Cabbala) nelle quali cogliere anche obliquamente una notevole forza filosofica. Già quindi basterebbe questo a rendere ragioni della fecondità della filosofia dell’esilio 3
Le letture talmudiche di Emmanuel Levinas costituiscono un documento ineludibile di una sempre necessaria ermeneutica biblica orientata verso un ethos politico, ragione per la quale egli legge il Libro Sacro sul versante del mondo greco, tanto da configurare la struttura chiastica di cui si diceva.
La Berit ebraica si configura come la trama controluce del logos greco, dal momento che la cura responsabile dell’altro diventa l’architrave della possibile comunità. D’ altro canto la polis greca si erge come possibile luogo del riconoscimento del soggetto come te, offendo uno spazio istituito di libertà, quello stesso riconoscimento, tuttavia, trova inizia e trova compimento nel pre-politico tu non ucciderai, radice di ogni ethos
“Cosa è l’Europa? È la Bibbia e i Greci. La Bibbia-ribaltamento ontologico? (…) Allora l’io umano significherebbe anche, per l’essere votato a essere, per l’essere che non ha che da essere, la possibilità d interrompere il suo contusi essendo , la possibilità per lui di rispondere d’altri, che tuttavia non lo riguardano e che per lui non sono niente”4
Si evince come l’inclusione dialettica di due culture rinvii ad una nuova patria che, proprio per questo esclude ogni chiusura etnica per essere ospitale affermazione, dando vita, così, ad un riconoscimento della soggettività che si basa sulla interruzione dell’autoreferenzialità. In tal senso l’ospitalità in un’altra terra si arricchisce di una sapienza affatto nuova, quella per cui l’ekumene si costituisce nel seguire la giustizia e solo la giustizia, a partire dal riconoscimento della terra come eredità comune e in quanto tale mai sottomessa alla schiavitù. In questo caso si deve intendere la terra nel senso di apertura ai popoli, in quanto paradigma di una nuova modalità di essere popolo, nell’interruzione definitiva di qualsiasi ius sanguinis, a favore di una sorta di ius agapico che rende autenticamente giusta la giustizia.
In questo senso, sono davvero fondamentali i rilievi di Silvano Faccioni:
“Forse con Levinas la Torah (ed i commenti della tradizione dei maestri) non è più, o meglio, non è soltanto una raccolta di testi “religiosi” perché la tensione verso l’universalismo che ne vertebra la struttura e ne orienta il senso ultimo, confligge con la rappresentazione particolare di religione, con la sua determinazione storica e storico-culturale”5
Tuttavia, la più feconda contraddizione è che, nel mondo semitico tale spazio istituito si dà in un luogo figurato, un luogo, per così dire sempre istituendo in quanto si configura nella responsabilità per l’altro. Proprio per questo Levinas ritiene che la stessa natura della diaspora insita nell’ineluttabile componente religiosa dell’ebraismo non potrà compiersi se l’ebraismo si rifiuterà di collaborare con altri popoli, pur evidenziando il sacrificio della nazionalità6
Questo rilievo segna un culmine importante, specie per una lettura politica e per una possibile filosofia di liberazione letta da un punto di vista ebraico dato che rimanda all’esigenza di superamento di nazionalismi antagonisti, visti come inevitabili in una filosofia della storia di tipo dialettico ma anche nelle vicende del XX secolo. La vicissitudine di popolo paradigmatico, infatti, potrebbe essere declinata nel senso di una nuova visione cosmopolitica aperta ad una prospettiva di pace7
Tuttavia in Levinas la tensione verso il criterio universale dispiegato nel pensiero filosofico si intreccia con la concretezza dei volti che rimandano ad un’epifania della Trascendenza, in modo tale da ravvisare nella singola opera della bontà la sovversione di ogni violenza troppo spesso basata sulla presunzione del possesso.
“ In Genesi 24 il servitore di Abramo venuto da lontano alla ricerca di una sposa per il figlio del suo padrone chiede a Rebecca, futura madre di Israele, un poco di acqua dall’anfora, ma Rebecca darà da bere anche ai cammelli della carovana “finché tutti ebbero bevuto”8
Un chiaro segno di che cosa si intenda per patria, concetto, che, tuttavia, si comprende proprio a partire da una dimensione di esuli, sempre nomadica.
Nel prosieguo del brano, Levinas fa riferimento anche ad una dimensione paradigmatica di rapportarsi ai beni della terra, in questo caso i9l supremo dei beni che è l’acqua. Si tratta di un paradigma della fruizione nella misericordia, quasi che ogni terra d’esilio possa essere rovesciata in terra della promessa.
Scrive Levinas:
“Secondo i rabbini che commentano questo passo, dall’arrivo di Rebecca al suo incontro, le acque dal profondo sarebbero risalite al di sopra del loro livello naturale. Miracolo o parabola? Le acque che il primo mattino della creazione-prima ancora della prima luce-le acque, ancora puro elemento fisico, ancora appartenenti alla desolazione, del tohu wabou iniziale, alla fine sono risalite al servizio della misericordia”9
Levinas evidenzia come il gesto concreto della bontà che esprime la cura d’altri o, nel linguaggio levinassiano, la soggezione ad altri è, ad un tempo, la cifra aperta verso l’universalità dell’ethos.
Da questo punto di vista possiamo evidenziare, anche spazialmente l’intersecarsi di Torah e Logos e di Logos e Torah. Il loro richiamarsi presenta ad un tempo la figura di un esilio, o meglio di un esodo, destinato al puro compimento.
Tale integrazione reciproca rende al concreto della cura il suo carattere universalistico: il farsi prossimo al volto, esprime, infatti una personalità corporativa, rappresentazione dell’humanitas.
D’altro canto, l’universalità del nomos potrebbe essere integrato dall’epiekeia della pietas.
Tornando, ora, al riferimento che Levinas fa all’Europa, si può certo evincere come egli evidenzi nella confluenza di due culture la memoria di una radice che trova corrispondenza nel cammino verso una patria comune che sospende ogni nomos della terra, per aprirsi alla fondazione di una humanitas comune nella differenza, ove è proprio la differenza a fondare l’istanza della dignità.
I paradigmi qui richiamati, tuttavia, non sono solo quello di Abramo opposto ad Ulisse, ma anche quello di Enea profugo che reca sulle spalle il vecchio Anchise, nel viaggio verso un nuovo abitare.
Ecco dunque che il nuovo ethos che qui si presenta si fonda sulla coscienza di una sospensione e una nuova ermeneutica delle leggi che hanno contrassegnato la civiltà per poter incrementarne il senso a partire dall’inedito che esse celano.
La categoria dell’esilio, quindi, resta come sfondo sottratto per poter permettere una nuova fusione di orizzonti che indichi il carattere ospitale della lingua, in modo da renderne sempre evidente la vitalità a partire dall’ethos che la ospita per riconfigurare il mondo abitato.
Si tratta, a nostro avviso, di rileggere, da un lato il paradigma del logos greco come prerogativa cosmopolitica che indichi nella capacità linguistica dell’uomo il segno di una cittadinanza aperta, ma dall’altro di rileggere il paradigma di Babele non nel senso della confusione linguistica, quanto invece secondo una capacità di ascolto, ma soprattutto secondo un riscatto della lingua finalizzato ad una grammatica originaria della relazione.
Da questo punto di vista l’esilio rappresenta propriamente la cifra di una mancanza senza la quale non potrebbe darsi la figura dell’ospitalità, riserva critica, ma potremmo dire escatologica che attraversa il vivere. Del resto le profezie pronunciate nel segno della denuncia civile e dell’annuncio del non ancora divenuto, sono fiorite in terre d’esilio, indicando così la fecondità di un nuovo abitare sempre trascendente lo ius sanguinis e sempre rivolto al riscatto della terra di desolazione, di cui il riposo periodico da ogni coltivazione, così come la remissione del debito sono cifre fondamentali.
L’esilio (galut) si staglia come condizione fenomenologica del Dasein ebraico, ma non si tratta di configurarlo in una sorta di dialettica inverata nella redenzione, bensì è necessario comprenderlo nella sua possibilità di liberazione, già nel momento in cui è il deserto a farne fiorire la profezia10. Provvisorietà ed escatologia configurano, dunque, l’esilio come experimentum mundi per citare la celeberrima opera di Ernst Bloch.
Se, poi, si dovesse rispondere all’obiezione di provvisorietà che comprometterebbe una fondazione istituzionale, si potrebbe sic et simpliciter invitare a riflettere sullo stesso carattere provvisorio delle forme politiche, che proprio in questo aspetto, devono potersi interrogare, ad esempio, sul senso della democrazia e sull’universalismo di leggi troppo astratte.
È opportuno, a tale proposito, ascoltare la riflessione levinassiana:
“Ricordo della Bibbia nella giustizia che essa porta. E ciò significa, concretamente in Europa, l’incessante esigenza di giustizia, di una giustizia sempre più giusta, più fedele al suo imperativo originale nel volto d’altri”11
Non si tratta, dunque, di assumere, nell’universalismo astratto, la categoria concreta del volto per poter tendere a questa giustizia sempre più giusta che permette la prossimità alla patria che non muore in quanto la giustizia si compie nel rapporto verso l’altro, e l’altro più indigente, troppo spesso raffigurato da masse di popoli in fuga che interrogano fortemente i nostri ordinamenti. Ecco dunque che, l’ethos come filosofia prima, è tanto cogente da far rimettere in discussione le nostre ontologie dell’essere sociale, così come l’eccessiva astrazione di un diritto che troppo spesso si irrigidisce in casistiche esclusive.
Così scrive Levinas:
“La storia moderna dell’Europa è una permanente tentazione di razionalismo ideologico e di esperienze condotte attraverso il rigore della deduzione, dell’amministrazione, della violenza. Una filosofia della storia, una dialettica, che conduce alla pace fra gli uomini, è ancora possibile dopo il Gulag e dopo Auschwitz?”12
Un interrogativo fondamentale, e non solo teoretico, dato che ne va della rilettura di una nuova condizione di patria dopo i fallimenti terribili di quella nata da fin troppo frequenti esercizi di astrazione, ben lungi da una autentica ermeneutica che possa finalmente esprimere che la legge è per l’uomo.
Le indicazioni che Levinas ci pone risultano quanto mai preziose. Dato che egli evidenzia come si possa e si debba leggere la storia santa ravvisata nel retaggio biblico il significato di un esilio inteso come diaspora che non si confonde però con il carattere dell’erranza.
La prima specificazione necessaria è quella per cui la cifra della santità della storia non rimanda ad alcun fondamentalismo. La santità della storia, infatti, non indica nessuna separazione, tanto meno rituale dall’altro, anzi esorcizza l’ossessione dell’altro attraverso una prossimità che, sospendendo l’identità chiusa ed inospitale, rimanda all’Alterità radicale che configura la creazione come spazio dialogico nella Parola. Essa, quindi, si esplica come etica in quanto filosofia prima capace di costruire una nuova terra abitabile. Se, tuttavia, questo ravvisa la tradizione di Israele, a maggior ragione –ritiene Levinas- non si dovrebbe mai operare una reductio in senso nazionalistico, dato che il particolarismo di Israele assume in tal senso un valore universalistico, quasi segnando una politica che esclude la violenza ed il possesso.
Quanto possono incidere, oggi, sia la rilettura delle figure tragiche greche che si stagliano a ricordare la necessaria coscienza di un codice non scritto e forse mai totalmente scrivibile, che tuttavia, rimanda alla pietas, sia quella delle figure bibliche che non esitano a sovvertire la lettera della legge nella fecondità attiva di una parola tornata ad essere forza creatrice attraverso la prossimità ad altri?
Forse che la cifra dell’esilio non ha in sé la capacità di fra implodere la presunta stabilità del mondo amministrato per illuminare la provvisorietà della costruzione di una patria radicalmente altra con la luce di una profezia che rinnova la lingua e l’ethos della civiltà?
§2: La dialettica esilio/universalismo nelle lettere di Paolo
Non ci sembra casuale il fatto che la riflessione ebraico-rabbinica si concentri sul carattere universalistico del messianismo ebraico-cristiano, concentrandosi in particolare sul corpus paolino. Per questo motivo, accanto al prezioso pensiero levinassiano può essere legittimamente collocato quello di Taubes13.
La sua ermeneutica dei testi paolini evidenzia in modo inequivocabile come l’andare di Paolo verso i pagani esclude ogni appartenenza etnica. In questo senso si dà, nella fede, il superamento della stessa legge giudaica. Interessante è la tesi di Taubes specie quando sottolinea che tale universalismo alla base del nuovo popolo si rivolge ai pagani in quanto allontanatasi dai culti che eli contraddistinguevano, e tuttavia, Paolo opera un rovesciamento dato che li assimila ai figli di Abramo perché il loro vivere per la fede li rende eredi della Promessa. Tale rovesciamento che evidenzia, per altro la non necessità della circoncisione, si basa sulla possibilità del nuovo Israele sulla base della nuova Alleanza, comunità già presente ed insieme escatologica. Sembra davvero notevole l’idea che Paolo resti fedele alla sua matrice cristiana, da cui esprime un’apertura universale ai popoli, destinati a diventare il nuovo popolo, ma che offre altresì un rinnovamento della visione ebraica.
Già questi tre elementi sono in grado di indicare la tensione escatologica verso la nuova comunità a partire dal superamento identitario ed etnico (non c’è più né Giudeo né greco) che configura l’emergere della patria che risiede nei cieli. Tuttavia, questo significa, da un lato, il carattere gratuito dell’elezione divina, dall’altro il carattere esule della provvisorietà con cui si abita la terra (vedi Rm 5,11), carattere che, talora, viene esplicitato dalla condizione della stessa esistenza corporea (2 Cor. 5,8).
A nostro avviso questo costituisce un nucleo di importante per una teologia politica, in quanto offre lo spunto per mettere in evidenza come l’etnia non possa offrire garanzia di universalismo, ma solo una sorta di carattere transitorio basato su convenzioni troppo umane, dalle quali non è escluso il carattere cultuale. Il vero universalismo è quello della Rivelazione compiuta in Cristo, che tuttavia esclude la carne ed il sangue, e quindi ogni privilegio di un popolo sull’altro, ma anche quello che si esprime in un nuovo ethos della comunità, simbolo di quella escatologica (vedi Atti) basato sulla comunione dei beni e sul riconoscimento che nessuna autorità può esercitare coercizione alcuna (Paolo è in catene per il Vangelo, e in quelle catene, espressione di prigionia ed esilio è capace di generare il germoglio del nuovo popolo)
Tuttavia, qui, si può ravvisare un nuovo rovesciamento: l’universalismo di cui Paolo è l’annunciatore sospende quello preteso del nomos, dato che si fonda sul reietto dal nomos, sul Kyrios crocifisso-risorto.14
Si potrebbe confrontare questa istanza con quella levinassiana dell’altro che sovverte nella sua ingiunzione ogni generalità per richiamare in primis al non uccidere, e basterebbe questo a fondare una nuova comunità escatologica. In entrambi l’irriducibile idea della kenosis, della deposizione identitaria in nome dell’essere per altri, si esplica come possibile ri-fondazione o meglio re-istituzione di una comunità universale. Tuttavia, si tratta di una comunità dell’esodo che non può dire sua la terra che non ha coltivato è l’albero che non ha piantato (Dt 7) e che non può fare schiavi, riscattata com’è essa stessa dalla schiavitù.
L’essere ostaggio dell’altro in Levinas corrisponde al generare in catene di Paolo, ma in entrambi i casi si esplica la liberazione attraverso un esodo. Nel primo caso, si lascia se stessi per farsi altri per lasciar implodere ogni pretesa signoria dell’uomo sull’uomo, nel secondo caso, portare le catene esprime la dialettica di un esilio che indica ancora più intensamente la provvisorietà del potere che esclude.
Non la legge, quindi che porta la giustizia, ma al contrario la giustizia che illumina le leggi. Se le cose stanno così, la legge adempiuta nella giustizia può solo fungere da indicazione escatologica. Secondo lo schema già evidenziato, ove Levinas ravvisa nell’altro l’inizio an-archico e pre-politico del comandamento irrecusabile, tale da fondare una protologia, Paolo ne illumina escatologicamente il senso. Anche in questo senso si evidenzia un innesto del Cristianesimo nell’Ebraismo, ma anche la possibilità di illuminare la portata inedita del messianismo ebraico, quasi a tracciare una filosofia di liberazione a partire dall’esilio.
$3 Eteronomia ed ospitalità: il rovesciamento del nomos
Al fine di ricostruire una topologia dell’esilio che si esplica attraverso l’implosione della lingua nell’invenzione di una nuova grammatica, crediamo che sia utile il recupero della riflessione di Jacques Derrida specie a partire da quel suo concetto di differenza che sottende la possibilità di una diacronia e quella di un’esteriorità che interroga lo stesso linguaggio e convoca la dimensione politica ad un profondo discernimento.
A partire dal saggio sull’ospitalità15 il filosofo franco algerino sottolinea come la condizione dell’ospitalità sia legata alla lingua dell’amicizia nella quale poter dire che si è a partire da un eccomi e questo sancisce un movimento dello straniero che porta da fuori la sua domanda fondamentale.
Jacques Derrida lascia convergere l’attenzione sulla possibilità di un altro logos che contesta quello del padre greco, ma questo può essere letto come una metafora di quanto il linguaggio rimandi ad un inedito che fa implodere l’identità e persino le basi del nomos. Oltre il diritto-dovere dell’ospitalità, essa si esplica come incondizionatezza di un esporsi, di levinassiana memoria che si apre all’altro totalmente anonimo sospendendo ogni reciprocità. Questa radicale apertura sottende una differente legge, paradossale e quasi fuorilegge16 come lascia ravvisare il caso di Antigone, in virtù di cui è l’altro ad istituire un nuovo ethos, non codificato, basato sulla pietas e l’epiekeia. Paradossale ed antinomico, il crinale fra il nomos codificato e la legge non scritta, dice di una inevitabile antinomia che rimanda alla complessa genesi della civiltà :jewgreek o greekjew, secondo la dizione derridiana che implica il darsi contemporaneo di Atene e Gerusalemme e il carattere ineludibilmente ospitale della cultura e della lingua, una ospitalità che rimanda all’esilio come a quell’inquietudine che cresce nel linguaggio, nella sua tensione ad un altrove sempre presagito, ma sempre mancante al dire,
Quale legge avanti ogni legge si configura nell’ospitalità, se non quella di un a asimmetria iperbolica che rimanda ad una responsabilità prima di ogni imperativo codificato e assolutamente libera persino da una possibile reciprocità? Derrida esclude anche che si possa chiedere il nome allo straniero che si accoglie, forse perché sarebbe un pro-nome levinassianamente, assoluta trascendenza che si esprime nel volto, ma forse anche perché ogni nominazione si trasforma nella possibilità di una comunione di volti dove il versante dell’esilio è anche quello di una prossimità più autentica.
Da questo punto di vista la nominazione è finalmente riscattata da ogni tentazione oggettivante e ritorna alla sua originaria essenza genetica e poietica, ma altrettanto genetico e poietico è il gesto dell’ospitalità che riconduce i volti in una comunione oltre i legami di terra e di sangue in una patria messianica, già presente e sempre a venire.
Conclusione
Levinas e Derrida sono pensatori emblematici che portano in sé stessi la coscienza di una memoria ineludibile e l’esperienza di uno sradicamento che li spinge ad istituire un nuovo linguaggio ma anche a concentrare il loro pensiero sull’altro ed il terzo, denunciandone l’esclusione in un pensiero che, ossessionato, ha sempre teso ad espellerlo.
In questo senso l’esilio costituisce per entrambi l’esperienza emblematica di un pensiero segnato dallo stigma totalitario dell’identità, ma anche la conditio sine qua non di una nuova fondazione ontologica.
Proprio per questo motivo esso acquisisce un valore etico e politico atto a rifondare una koiné che, per dirla con Italo Mancini, possa costituire un nuovo aeropago, sottratto al legame violento dell’esclusione e capace di rifondare una grammatica dell’umano che è già un approdo alla patria
Paola Mancinelli
1 I. Mancini, Tornino i volti, Marietti, Genova 1989
2 Una lingua come questa dovrebbe declinare il femminile riservandole un nuovo spazio che configura l’ospitalità accogliente, a partire dalla parola ebraica rechem (utero), che sottende l’impossibilità della neutralità e l’originaria memoria di una lingua paradisiaca, per dirla con Benjamin, senza violenza. Su questo cfr. C. Chalier, La figura femminile in Levinas, Morcelliana, Brescia 2020, p.25
3Consultare su questo l’interessante saggio di S Facioni, Il pensiero in esilio, in Levinas inedito, Mimesis 2020
4Cfr. E. Levinas, A l’heure des nations, trad.it. w cura di S. Facioni, Nell’ora delle nazioni, Jaca Book, Milano 2000, p 155
5 S. Facioni, cit,,p.155 ss.
6 Si veda su questo Levinas, L’insipiration religieuse de l’Alliance
7 Si potrebbe su questo rinviare alla famosissima opera kantiana dal titolo Per una pace perpetua che prospetta un nuovo soggetto cosmopolitico di tipo universalistico che pur si intreccia con le istanze della concretezza storica di ogni popolo.
8 E. Levinas, A l’heure, trad. it. cit p154
9 Ivi, p. 154
10 ibidem
11 Levinas, A l’heure, trad. it. cit, p 155
12 Ibidem.
13 Taubes, eminente esponente del rabbinismo ebraico, ha scritto molto specie sul messianismo e sull’escatologia. Per orientarsi nella lettura delle sue opera, si rinvia in particolare all’agevole ma approfondito testo di L. Spegne, Ascoltare il futuro, Il pozzo di Giacobbe, Trapani 2016
14 Le pagine del già citato saggio di Spegne sono davvero emblematiche nell’indicare una differente lettura dell’universalismo che, pur rinviando alla concretezza del volto, rovescia qualsivoglia primato etnico.
15 J. Derrida, De l’hospitalité, trad. it. di I. Landolfi, L’ospitalità, Baldini& Castoldi 2002
16 Derrida, De l’hospitalité, trad. it cit., p. i84