Intorno all’esperienza dell’esilio in Brodskij

iustitiam cole et pietatem…

(…segui giustizia e pietà…)

Cicerone, Somnium Scipionis,

(De re publica, VI, 16)

Sebbene autore di grandi saggi, confluiti nei volumi Less Than One e On Greaf and Reason (tradotti in italiano da Adelphi), il terreno proprio dell’opera di Iosif Brodskij, quello che fu veramente suo, è la lirica. Nato a S. Pietroburgo, allora Leningrado, nel 1940, da una famiglia di origini ebraiche, Brodskij fu un autodidatta. Formatosi tanto sulla tradizione letteraria russa che su quella inglese e americana, egli sentì presto il giogo del potere sovietico. Di quel sistema politico terrificante, di cui Hannah Arendt con Le origini del totalitarismo (1951) e Czesław Miłosz con La mente prigioniera (1953), ci hanno aiutato a comprendere caratteristiche e modalità politiche. Arrestato e poi condannato, Brodskij venne espulso dall’Unione Sovietica nel 1972, per stabilirsi negli USA. Apprezzato, letto, discusso, il Nobel per la letteratura nel 1987 ne sancì la consacrazione ad ultimo grande poeta della tradizione russa. Morì nel 1996 e fu sepolto al cimitero S. Michele di Venezia, per sua stessa volontà.

Come ci insegna un filosofo come Heidegger, ogni autentico poeta è, inevitabilmente, anche un vero pensatore. Poiché dimora nei pressi di quella regione dell’Aperto, in cui pensiero e poesia si incontrano. Niente di meglio, allora, per quanto concerne la questione dell’esilio, che interrogare Brodskij, che al tema ha dedicato uno scritto specifico1. Poiché l’esilio fu, per Brodskij, un destino personale e politico. Per lui che nacque a S. Pietroburgo, al tempo Leningrado, nel 1940, quando Stalin era saldamente al potere. Quello Stalin, come ci ricorda Adorno, altro grande esule dalla Germania hitleriana, cui bastava schiarirsi la gola, perché gli intellettuali di mezzo mondo gettassero Kafka e Van Gogh nella spazzatura2.

All’inizio del suo testo, Brodskij impartisce una bacchettata sulle nocche alla auto-referenzialità degli intellettuali. I quali, alla parola “esilio”, aggrottano la fronte, in pensose riflessioni su Ovidio o su Dante. In realtà, l’esule autentico è il migrante. Questa figura eterna, in cui sembra si racchiuda la sofferenza della Storia. Del resto, anche al giorno d’oggi, ne abbiamo la prova. Mentre l’Italia, l’Europa e il mondo sono funestate dalla pandemia del Coronavirus, il mare nostrum continua ad inghiottire vite umane, che sono disposte a tutto, pur di partire.

“L’esilio è una condizione metafisica”3, ci avverte Brodskij. Non capirlo vuol dire permanere “nella condizione di vittima incapace di comprendere”. L’esilio è una condizione metafisica, perché essere stranieri nel mondo è un’esperienza che può colpirci anche tra le quattro mura di casa. Il nichilismo, l’estraneazione, l’alienazione, soprattutto nelle contemporanee società di massa, possono essere un vissuto tristemente comune. Fino ad arrivare a quella condizione del mendicante, da cui sono popolate le nostre città dell’Occidente globalizzato. Senza un tetto sulla testa, senza la possibilità di prendersi cura di sé, senza un lavoro, cibandosi di quello che il caso offre lì per lì, possono provenire da un altro continente, ma anche dal quartiere accanto al nostro. Non a caso un frammento di Benjamin tratto dal Passagenwerk – il grande lavoro sui passages di Parigi rimasto incompiuto – dice: “finché ci sarà ancora un mendicante, ci sarà anche il mito”4. Per il Benjamin di questo frammento, il mito non è la dimensione aerea e piena di mistico fascino, che è quella di Walter F. Otto e dei libri di Calasso, quanto piuttosto rappresenta la condizione di massima sofferenza sociale. La violenza naturale scatenata inoculatasi nelle nostre società e che, forse, appartiene alle società di ogni tempo e luogo.

Poi, certo, ci dice Brodskij, per l’intellettuale in esilio ed in modo particolare per lo scrittore è inevitabile cadere nella dimensione che l’industria culturale ha, in qualche modo, preparato per lui. Le pensose riflessioni sulla Roma di Ovidio, sulla Firenze di Dante, sulla Dublino di Joyce. Il delirio narcisistico della competitività e del successo.

Ma a dimostrazione di come l’esperienza dell’esilio non sia soltanto fisica c’è, a nostro modo di vedere, il caso di Nietzsche. Sia per come lo interpreta Deleuze nel saggio Pensiero nomade del 1973, secondo cui Nietzsche va inscritto nella dimensione del nomadismo, perché visse “andando di pensione in pensione”5. Sia per come, nella Lettera sull’umanismo del 1946 lo interpreta Heidegger. Per il filosofo di Friburgo, Nietzsche è stato l’ultimo a fare l’esperienza della “spaesatezza”6. Questa esperienza, che risuona nella parola tedesca Heimatlosigkeit, non deve essere, per Heidegger, riferita alla patria o alla nazione, ma alla storia dell’essere. Indubbiamente qualcosa, in Nietzsche, ricorda lo sradicamento proprio dell’esilio. L’esilio, dunque, è molto vicino alle esperienze decisive della contemporaneità e può essere assunto come una delle caratterizzazioni più efficaci di quest’ultima. Non è una forma di esilio il nichilismo? E la Shoah? Essa fu esilio, poi sterminio. Dunque, torna ad essere esilio in senso metafisico, per usare le parole di Brodskij.

L’esilio, per lo scrittore che lo subisce, è una condizione fatata e fatale, da cui è difficile uscire. Anche perché lo scrittore esule deve ad esso la sua ispirazione, la condizione che gli permette di riprendere e condurre in porto la sua operazione letteraria, fuori del suo paese di origine. Ma se esso è metafora stessa della situazione che spinge alla poesia, se poesia ed esilio in qualche modo coincidono, perché lo sradicamento è l’unica esperienza da cui la lirica nasce, allora si può dire che questa situazione riguarda ogni poeta di ogni tempo e luogo. Eugenio Montale, ad esempio, cui si deve l’ultima grande stagione lirica della nostra letteratura, non conobbe l’esperienza dell’esilio. Eppure, egli fu sempre fedele a quell’esperienza, che una delle sue poesie tarde designò con i versi: “Vissi al cinque per cento, non aumentate / la dose”7.

Con quell’understatement che gli derivava dai suoi maggiori inglesi, Brodskij ci racconta come la mente dello scrittore in esilio, ma non solo di quest’ultimo, sia ossessionata da due elementi: l’indifferenza dei suoi contemporanei e l’oblio. Una qualità fondamentale, egli dice, per costruire un’opera letteraria degna di questo nome, è l’intensità della concentrazione. Quello che, per gli indiani del suo amico Roberto Calasso, era l’ardore (tapas) della mente8. Dall’altra parte il grande nemico è la banalità. Da questo punto di vista, afferma Brodskij, l’esilio rappresenta un acceleratore, nello svelare all’uomo che tutto ciò che egli possiede sono sé stesso e la sua lingua, “senza più nessuno o nulla in mezzo”9.

Per Brodskij, l’esilio ci conduce là dove “occorrerebbe una vita per arrivare”10. Esso assomiglia ad una capsula catapultata nello spazio, da cui nessuno ci viene più a recuperare. E la capsula gravita non intorno alla Terra, bensì verso l’esterno. Per lo scrittore, in modo particolare, l’esperienza dell’esilio è di tipo linguistico. Così come era l’esperienza del mondo per uno scrittore come Karl Kraus. Il linguaggio, attraverso l’esilio si fa destino. In seguito, ossessione e dovere. Ma, soprattutto, al pari del logos, il linguaggio possiede una spinta centrifuga, una specifica volontà di potenza che gli è peculiare: cerca di inglobare quante più possibili porzioni di essere e vuoto riesce a far proprie. Esso è pur sempre la casa dell’essere, come Heidegger ben sapeva11.

Secondo Brodskij, la letteratura è “un dizionario della lingua nella quale la vita parla all’uomo”12. Qui è un bacino di Senso e di significati, in grado di aiutare i nuovi nati, i giovani che si affacciano alla vita, a non rimanere impantanati nelle sabbie mobili della loro interiorità e del mondo esterno. Capire, scavare, ricercare, immergersi nelle parole e nei significati, “ha un effetto liberatorio”13. Ferma lo sguardo raggelante e immobilizzante della Gorgone e fa sì che i grumi del dolore e della sofferenza si sciolgano. Così è anche per l’esilio. Per rendere meno dolorosa questa prova a coloro che l’affronteranno in futuro, bisogna dispiegare tutto il potenziale racchiuso nelle nostre parole. Ciò ci dà un’occasione piuttosto unica, per Brodskij. Quella di smettere di essere soltanto i “rumorosi effetti”14 delle cose, per diventarne finalmente le cause. Ciò non significa smetterla con la tradizionale funzione di monito, propria dello scrittore esiliato, quanto saperla arricchire di significati nuovi. Ossia, con qualcosa che appartiene alla sfera della libertà: la capacità, nella sconfitta, di non incolpare nessuno, di non incolpare gli altri, nemmeno la terra di origine che ha privato l’esule della sua libertà, costringendolo alla fuga.

Così, con questo approdo all’amor fati, termina il discorso di Brodskij, che l’esilio lo visse, lo sperimentò e che aveva la capacità di esprimersi e pensare in modo cristallino. Del resto, la serena accettazione di ciò che la vita ha in serbo per noi, ha sempre fatto parte dei vertici della Sapienza umana, di ogni tempo e luogo.

1I. Brodskij, La condizione che chiamiamo esilio (1987), in: Dall’esilio, traduzioni di G. Forti e G. Buttafava, Adelphi, Milano 2015, pp. 11-36.

2Cfr. T. W. Adorno, Minima Moralia. Meditazioni della vita offesa (1951), traduzione di R. Solmi, Torino 1979, p. 250.

3I. Brodskij, La condizione che chiamiamo esilio, cit., p. 20.

4W. Benjamin, I «passages» di Parigi (1927-1940), a cura di R. Tiedemann, Einaudi, Torino 2002, I, p. 446.

5G. Deleuze, Pensiero nomade (1973), in: L’isola deserta e altri scritti. Testi e interviste 1953-1974, introduzione di P. A. Rovatti, Einaudi, Torino 2007, p. 329.

6M. Heidegger, Segnavia (1967), a cura di F. W. von Herrmann e F. Volpi, Adelphi, Milano 2008, p. 290.

7E. Montale, Diario del ’71 e del ’72 (1973), in: Tutte le poesie, a cura di G. Zampa, Mondadori, Milano 1996, p. 520.

8Cfr. R. Calasso, L’ardore, Adelphi, Milano 2010.

9I. Brodskij, La condizione che chiamiamo esilio, cit., p. 32.

10Ibid.

11Cfr. M. Heidegger, Segnavia, cit., p. 267.

12I. Brodskij, La condizione che chiamiamo esilio, cit., p. 33.

13Ibid.

14Ivi, p. 35.


Daniele Lorusso è nato a Roma nel 1977, dove vive e lavora. Si è formato alla Sapienza in discipline filosofiche, storiche e letterarie, concludendo il proprio percorso di formazione accademica con un lavoro su Gnoseologia e metafisica in Schopenhauer. Successivamente si è occupato delle connessioni tra il pensiero di Hillman e la filosofia antica, moderna e contemporanea, attraverso un lavoro intitolato Considerazioni su Il mito dell’analisi di James Hillman (Studi Junghiani, 2013). Nel 2014 pubblica il suo primo libro con l’editore Moretti & Vitali di Bergamo, intitolato L’apprendista stregone. Note sul rovesciamento di mezzi e fini nel mondo contemporaneo. Lo scopo del libro è di far risuonare, ancora una volta, le parole della grande critica che la filosofia otto-novecentesca ha rivolto alla contemporaneità, tanto da parte marxista che da parte conservatrice, tanto per ciò che concerne il mercato quanto per ciò che concerne la tecnica. Come appendice e prosecuzione delle tesi del lavoro maggiore, è nato un ulteriore lavoro (Ritiri filosofici, 2015) su Mobilitazione totale di Maurizio Ferraris, in cui, attraverso il confronto con le posizioni del filosofo del “nuovo realismo”, la tesi del rovesciamento di mezzi e fini nel mondo contemporaneo viene applicata alla rivoluzione digitale in corso.


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