di Frances Taylor Patterson[1]
Introduzione
[Traduzione: Alessandra Avino, Note: Alessandro Nardis]
The Art and Science[2]
Lo studio del photoplay[3] può essere considerato da due punti di vista. Il primo è quello culturale. Chi si accosta a questo tipo di studi potrebbe voler imparare il più possibile sul photoplay come forma d’arte, cogliendone i punti di forza latenti, il desiderio di estetismo. Si potrebbe intraprendere lo studio dello scenario per meglio apprezzare gli sforzi dei produttori, o per criticarli con cognizione di causa. Si potrebbe sostenere che se un photoplay merita un impegno di almeno tre o quattro sere a settimana, come argomento di cultura generale, varrebbe la pena dedicargli un maggiore studio e un approccio più attento. Oppure, potrebbe essere il pubblico a voler esprimere nuove idee sull’ultimo photoplay, come su un libro fresco di stampa, un brano musicale, un play, o il risvolto recente di una situazione politica. Non tutti gli studenti di arte desiderano superare Leonardo da Vinci o Michelangelo, né quelli di metrica sperano di offuscare la gloria di Omero o Virgilio. Non tutti gli studenti di strategia militare pianificano di vincere Alessandro, Cesare o Napoleone, né quelli di drama si aspettano di rubare l’alloro di Sofocle, Shakespeare o Molière. Non tutti quelli dediti allo studio del photoplay decidono di produrre un play. Molto spesso il loro unico obiettivo nello studio dell’arte è quello di padroneggiare i principi cardine di un’arte divenuta una delle forme più famose di svago. Tuttavia, ci sono tanti studenti che guardano al photoplay con l’idea di produzione finale. E questo approccio ci offre il secondo punto di vista, quello del senso pratico della composizione del photoplay.
Scrivere per lo schermo è un’arte ma anche una scienza. Lo scrittore deve essere al contempo artista e artigiano. La conoscenza teorica è fondamentale e pone le basi per un ulteriore lavoro. Deve, comunque, essere supportata dall’esperienza pratica. Lo studente deve seguire il principio pedagogico “l’esperienza insegna”. Nel caso del photoplay, non deve limitarsi a scrivere scenario ma deve vederli prodotti. Un photoplay non ha realtà oggettiva finché non raggiunge lo schermo. Può esserci il closet drama, se volete i drammi di Tennyson e Swinburne possono essere letti con il più vivo trasporto in una biblioteca – ma non può esserci un closet photoplay. Un dramma teatrale trascritto in forma cartacea può essere letteratura, anche se non necessariamente. Il dialogo c’è, così come deve esserci tra l’essere sul palco solo con le voci, le pose degli attori e la mancanza di attrici. L’azione, di solito, è già presente. I drammi di Shaw, Galsworthy, Barrie, Pinero, Jones, sono spesso più famosi come letture in biblioteca, come certi romanzi e short stories. Non così per il photoplay.
Un photoplay non diventa veramente tale finché non si fa film. Richiede l’impiego del picture. Sebbene i picture possano essere accennati in un manoscritto, questi non esistono finché non vengono prodotti. L’autore del manoscritto fornisce l’idea che arriva all’editor dello scenario, al regista e agli attori, prima di apparire sotto forma di picture.
Ci sono alcuni principi fondamentali che ogni bravo scrittore di motion pictures dovrebbe considerare. Deve conoscere le fasi di sviluppo che ha attraversato il photoplay. Deve conoscerne la tecnica che, alla fine, è individuale. Il photoplay ha un suo linguaggio – il linguaggio della macchina da presa. Un grande autore di scenario deve conoscere i punti di forza e i limiti della macchina da presa, così da poter trattare il tema in modo appropriato. Questo libro offre allo studente un esercizio nei fondamenti della composizione dell’arte filmica. Cerca di fornirgli il kit necessario, gli strumenti utili alla sua professione. Non deve perdere di vista il fatto che il massimo successo dipenderà dal suo sforzo individuale. L’esercizio e il consiglio accademico possono aiutarlo a rielaborare e creare la maggior parte delle sue idee. Può stimolare e risvegliare il suo giudizio. Ma è lui, lui soltanto, che deve fornire le idee. Deve, allo stesso modo, fornire la perseveranza, la dedizione e il sacrificio, essenziali alla realizzazione. Il potere del photoplay nelle mani di uno scrittore esperto è illimitato. Assistiamo a una domanda crescente di scrittori capaci, di storie originali, di continuità e di critica cinematografica, ma per soddisfare questa domanda lo scrittore deve esercitarsi affinché la sua abilità sia indiscutibile.
L’ampia espansione dell’industria stessa può rappresentare in misura adatta il bisogno colossale di photoplay e di scrittori di photoplay. Ma i photoplay non si fanno in un giorno, né gli scrittori diventano tali in una settimana o in un mese. La perfezione è un duro maestro. Perfino l’uomo di lettere esperto può gettare in mare l’equipaggio che ha forse reclutato negli anni e imparare la nuova arte di motion pictures, diversa dalla scrittura romanzesca, come la pittura dalla musica. Dopotutto, l’arte è duratura e il tempo breve, e il cammino per chi fa cinema è lungo e spinoso. Eppure, il vaso d’oro posto alla fine dell’arcobaleno a volte chiamato successo, dovrebbe essere abbastanza motivante per tenere in vita la speranza nei cuori degli scrittori di photoplay. Adesso devono prepararsi ad affrontare il giorno in cui i loro servizi saranno altamente premiati.
The Plot[4]
[…] Il plot anticipa la letteratura scritta e il drama. Fu una delle caratteristiche delle storie trasmesse dalla tradizione orale nell’età omerica. È quella combinazione di pensieri, azioni o idee che cattura e trattiene l’attenzione dell’ascoltatore, del lettore o dello spettatore. L’interesse per la trama affiora quando nasce un senso di meraviglia attorno allo sviluppo di eventi e personaggi. In questo stato di meraviglia deve esserci un fattore di dubbio. Il pubblico o il lettore spera che certe cose accadano e teme il contrario. Si potrebbe dunque definire la suspence desiderio e paura. Eppure al plot occorre un altro elemento. Le voci più autorevoli ricordano la necessità di un conflitto. Goethe scrive nel Wilhem Meister che il dissidio è necessario al drama. Aristotele afferma che il conflitto è fondamentale. Archer sostiene che il climax è un fattore più importante delle forze opposte, ma come precisa il professor Brander Matthews: “che cos’è il climax se non l’opposizione di forze?”. Henry Arthur Jones lo rende nel linguaggio di tutti i giorni: “il drama nasce ogni volta che l’uomo ci si scontra”. “Esatto”, commenta il Professor Brander Matthews, “ma quando un uomo si scontra è in conflitto”. Stevenson dichiara che c’è drama quando “il dovere e l’inclinazione giungono dignitosamente alla resa dei conti”… e ancora una volta assistiamo a uno scontro inevitabile.
Eppure, potrebbe non essere un conflitto fisico. Potrebbe essere mentale. Potrebbe trattarsi della lotta tra personaggio e l’ambiente in cui vive; potrebbe scontrarsi con una serie di circostanze, l’eredità, un’abitudine assunta, una sua cattiva inclinazione. In tutti i casi appena descritti l’antagonista sarebbe un’astrazione, un influsso, una forza morale. A volte un personaggio può incarnare o rappresentare un’idea o una influenza, dietro cui si cela il vero antagonista. In Doll’s House, ad esempio, non è il conflitto tra Nora e Torvald che ci rapisce. È l’attitudine che Torvald mantiene nei confronti della moglie e la reazione della donna a questo atteggiamento. Ne Les Misérables, Jean Valjean lotta con il passato da cui è puntualmente lacerato, soprattutto quando ha ormai raggiunto vertici spirituali nel presente. Figura di questo passato, sebbene in tinte più o meno decise, è il personaggio di Javert. Il plot dipende dalla suspence e la suspence dipende dal dubbio e dall’esito di problemi e situazioni. A influenzare questo esito, e qui l’interesse del plot, è la legge di causa-effetto. Eppure non c’è precisione sillogistica o sicurezza, riguardo a questo rapporto di causalità, e nemmeno l’elemento del dubbio potrebbe totalmente esserne assorbito.
Il plot è un comune denominatore dell’arte narrativa, teatrale e figurativa. È ciò che unisce il photodrama al dramma rappresentato, e, ad eccezione del caso in cui un personaggio riveli se stesso attraverso l’azione, è l’unico collegamento tra due media così diversi. Il photoplay ha una sua identità come forma d’arte, malgrado la confusione esistente tra i due mezzi e il pregiudizio che la scrittura cinematografica sia sorellastra di quella teatrale, o, per dirla in altri termini, che il motion picture sia lo scheletro nell’armadio di una famiglia teatrale rispettabile. È un mezzo di espressione chiaro e definito. Non è la cameriera umile del palcoscenico né il novellino del teatro. È un modo nuovo e sorprendente di raccontare storie. Per la prima volta nella storia dell’arte narrativa, una vicenda può essere narrata solo ed esclusivamente attraverso le immagini. Essendo il photoplay un’arte giovane, lo è anche l’analisi del plot. Tuttavia, non potrà esserci aiuto maggiore per uno studente della nuova arte fotodrammatica, se non quello profuso dal vasto materiale critico sulla teoria e pratica del teatro. Lo studente che analizza il plot deve immergersi nella letteratura drammatica da Sofocle a Euripide, da Granville Barker a Eugene O’Neill. Finché riesce a calarsi nel plot, deve analizzare e riprodurre a mo’ di cianografia i migliori esempi di drammaturgia. Deve entrare in sintonia con le menti più illustri della critica drammaturgica. Dallo Stagirita a Sarcey, da Brunetière a Brander Matthews[5]. Una volta raggiunta la maggior competenza possibile sui lavori del plot, lo studente deve trasferire con accortezza questo nuovo bagaglio di conoscenze dal lavoro del palco al lavoro dello schermo, eliminando quei principi che non concorrono allo sviluppo del plot tramite l’azione, scartando i metodi che prevedono la valorizzazione del plot attraverso l’uso esclusivo del dialogo, allenandosi a riconoscere e utilizzare gli elementi che meglio si adattano alla proiezione cinematografica. Deve tenere a mente che il plot cinematografico deriva dalla descrizione dell’azione più che dalla parola. Rivela se stesso nelle immagini più che nel dialogo. A chi è abituato a pensare per immagini il cinematografico è facilmente distinguibile dal non cinematografico. Prendete ad esempio la definizione stessa di plot. Il Webster lo definisce “il piano … di un play… che ha in sé un intreccio o una serie fortuitamente connessa di eventi concatenati che via via si svolgono, talvolta attraverso mezzi inaspettati”. Su questa definizione da una lato si potrebbe esclamare come Amleto: “Parole, parole, parole”. Dall’altro, recuperare il vecchio significato francese del termine: “nel primo atto prendi un uomo e fallo salire su un albero; nel secondo lanciagli le pietre; nel terzo fallo scendere”. Qui vediamo subito dei picture. Visualizziamo il plot. È realizzato come se fosse una sciarada. Potrebbe essere recitato per la macchina da presa, e allora cinematografico, invece l’altro è mera teoria.
Le voci autorevoli sul plot sono infinite. Il più antico trattato esistente è contenuto nella Poetica di Aristotele VII:
[…] Si dà infatti anche un intero che non ha grandezza,
ma intero è ciò che ha principio, mezzo e fine.
Principio è ciò che per se stesso non viene necessariamente
dopo altro, mentre dopo di lui si dà naturalmente
che sia o avvenga un’altra cosa. La fine, al contrario, è ciò
che dopo un’altra cosa per se stessa esiste di necessità o esiste
usualmente, ma nient’altro c’è dopo.
Il mezzo è ciò che viene dopo altro, ma un’altra
cosa viene dopo di lui. Quindi bisogna che i racconti costruiti bene
non comincino da un punto qualsiasi né finiscano dove che sia;
si debbono invece conformare ai detti criteri[6].
Quindi secondo Aristotele, le divisioni strutturali del plot sono inizio, metà e fine. Parafrasando potremmo dire introduzione, svolgimento e conclusione[7]. L’introduzione accenna i preliminari del plot. Ha il ruolo della presentazione. Ha la funzione di far acquisire al pubblico fatti e circostanze necessari a seguire lo svolgimento del plot con il minimo sforzo. Herbert Spencer nel suo Philosophy of Style ha teorizzato l’economia dell’attenzione del lettore. Clayton Hamilton offre un capitolo interessante nel suo The Theory of the Theatre, sostenendo lo stesso principio da applicare alla letteratura del teatro. Questo è non meno estendibile al photoplay. La più grande cura dovrebbe risiedere nello stabilire i fatti iniziali, i quali sono antecedenti all’azione eppure necessari a chiarire lo sviluppo dell’intreccio. Lo svolgimento è la base del plot. Da questa dipendono la solidità o la debolezza della sovrastruttura. Dumas chiama “preparazione” l’arte del teatro. Se l’introduzione viene curata attentamente, il pubblico non avrà bisogno di ulteriori spiegazioni nel corpo del plot, e riuscirà ad evitarsi smarrimento e confusione. Un’introduzione fallace e inadeguata è meno grave e più dannosa nelle arti drammatiche che narrative, perché è impossibile recuperare pagine figurative, chiarire domande, risolvere dubbi o riprendere personaggi e eventi ormai usciti di scena. Ciò che è uscito dallo schermo o dal palco è uscito. O corre in aiuto la memoria o deve svolgersi un’altra performance. L’abilità dell’autore si commisura al suo metodo di gestione del materiale introduttivo. L’introduzione dovrebbe dare degli infiniti “segnali”, atti ad indicare la direzione degli eventi nella complessità dello svolgimento ma quasi furtivamente, così da non trasformare la suspence in rapida conseguenza. Archer ha riassunto questo concetto in una formula vincente: “Predire ma non anticipare”.
L’introduzione del play non è mai intensamente drammatica. Qualunque grande tensione in questo momento anticiperebbe il climax. Il photoplay The Source, recitato da Wallace Reid nel ruolo di protagonista, si apre con una situazione piuttosto drammatica. Dapprima ci vengono presentati i personaggi e uno spazio scuro dove figure vaghe si muovono in modo confuso. Nella luce fioca di una lanterna vediamo corpi umani trasportati e trascinati sulla paglia, nell’interno di una specie di caverna. L’uomo con la lanterna è robusto, quasi nascosto dall’ampio cappotto di pelliccia e dal cappello. Si avverte qualcosa di sinistro, di misterioso. Viviamo subito la suspence riguardo all’identità di queste persone. Sono cadaveri? Se sì, come sono morti? Si tratta di una rivoluzione? Di cospirazione? Un delitto? Chi ne è responsabile? Subito vediamo che la figura è un boscaiolo dell’estremo Nord che aveva comprato alcuni reietti sbronzi a dieci dollari l’uno da un proprietario di un saloon e li spedisce nella sua falegnameria con un carro bestiame dove li fa prigionieri e li costringe a lavorare. È una scena molto drammatica e in circostanze normali potrebbe dare vita ad un’immagine troppo intensa. Ma in questa frangente la storia è tutta drammatica. Ci sono momenti di suspence che seguono ciò che succederà dopo questa crisi iniziale. Quindi la scena racchiude il concetto chiave del picture, e in nessun modo priva il climax della sua potenza. In termini di continuità l’introduzione in genere prende una prima intera bobina. L’intreccio è il cuore del photoplay. Racchiude la situazione drammatica principale. Ne sono annodati i fili, ne è aggrovigliata la matassa. In progressione la seconda, terza e quarta bobina sono in genere messe a disposizione dell’intreccio. A volte questo consuma fino alla prima metà della quinta bobina. Il climax del play segna la fine dell’intreccio. Si può definire climax il punto del play in cui le forze nascenti culminano. Raggiunto il climax irrompe ciò che Freytag definisce il “falling action”. La tensione gradualmente si allenta. Il climax è spesso definito “il punto di svolta” nel drama. Malgrado il photoplay ammetta solo un climax, possono verificarsi diverse crisi nel plot. Lo scontro di forze opposte origina una crisi. La direzione del plot non è dritta. Spesso si incontra un bivio. Una svolta a destra o a sinistra. Quando si deve prendere una decisione, il cui seguito determina il corso dell’azione, quando una situazione va accettata o combattuta, allora abbiamo una crisi nel plot. Un singolo photoplay può ammettere diverse crisi ma devono essere secondarie al climax.
The Critical Angle[8]
In merito alla critica, molti possono contribuirvi in modo personale. Questo approccio raramente è frutto di un pensiero improvviso o un lampo di ispirazione. È il risultato di anni. È frutto del nostro quotidiano, delle abitudini del pensiero, dell’ambiente che ci circonda, del nostro esercizio. La critica di un play può variare, per esempio, a seconda del critico, se autore, attore, bravo elettricista, guardiano antincendio o se è un Anthony Comstock. Potrebbe interessarsi ai dettagli tecnici della rappresentazione, ai costumi, alle luci, alla scenografia oppure al play stesso ̶ il dialogo, la struttura del plot, la definizione dei personaggi. O ancora potrebbe preoccuparsi dell’etica del dramma, il suo valore morale, il suo slancio edificante o il suo valore educativo. Se è esperto di uno di questi settori, guarderà al play con gli occhi dello specialista. Probabilmente si farà un’opinione completamente diversa da chi gli siede accanto. Il potere di osservazione differisce radicalmente in ognuno di noi. Quando succede qualcosa, ci sono sempre versioni contrastanti dell’accaduto. Alcuni testimoni raccontano le vicende in un modo, altri, spesso, in netta contrapposizione con la prima versione. Quando accade un incidente, tutti testimoniano la stessa cosa. Eppure le versioni sono diverse. Questo è dovuto a un fenomeno psicologico accettato che noi dobbiamo contrastare esercitandoci a osservare l’essenziale, ciò che è importante, invece di farci distrarre dai dettagli irrilevanti. Dobbiamo imparare a scorgere con attenzione. Il professore John Talcott Williams, per tanti anni direttore della Scuola di Giornalismo alla Columbia University, aveva un metodo interessante per far esercitare i giovani reporter che seguivano i corsi di giornalismo. Installava un proiettore e di tanto in tanto affittava film. La pellicola, che di solito conteneva qualche evento appassionante, veniva riprodotta per gli studenti. Poi veniva chiesto loro di scrivere un report dell’evento accaduto nel film. I report venivano letti e confrontati. Ovviamente nessuno di loro coincideva. Nella realtà un incidente non può essere riprodotto per essere descritto correttamente. Ma qui interveniva il valore della pellicola. Il picture veniva proiettato lentamente una seconda volta, di modo che gli studenti potessero vedere dove avevano commesso errori, e dove erano stati approssimativi. Questo mezzo, sostiene il professor Williams, aiutava gli studenti enormemente nell’avere una visione corretta fin dalla prima volta. Abbiamo detto che ognuno di noi porta il proprio punto di vista con sé a teatro, che è frutto della sua esperienza e dei suoi interessi. Il critico non fa eccezioni, ma deve criticare un play senza pregiudizi, con sguardo limpido e apertura mentale, deve divorziare dall’influenza insidiosa del suo punto di vista. Deve coltivarla come se fosse un’attitudine mentale universale. Deve lottare per l’imparzialità il più possibile. La sua critica deve essere libera da fattori quali la politica, la religione o il compenso economico. Non deve mostrare, e in realtà provare, alcun antagonismo verso la materia che recensisce. Deve conoscere il soggetto in ogni sua fase e sotto ogni angolazione: tecnica, pittorica, istrionica, drammatica, etica, psicologica. Deve scrivere della pulsazione della produzione, avvertendola tra le dita. Deve costruire la sua esperienza come critico imparando il più possibile sulla professione, attraverso la lettura di tutta la letteratura esistente riguardo all’argomento, e l’applicazione della conoscenza acquisita alla pratica quotidiana della sua arte. Questo è il tempo degli specialisti, del tecnico esperto. Il lavoratore non specializzato è arcaico e obsoleto. Solo i più adatti sopravvivranno.
Eppure, al critico potrebbe non bastare la conoscenza di tutte le leggi e i principi che governano la sua arte. Per raggiungere termini di paragone, deve conoscere profondamente i criteri delle altre arti. Come può elogiare o condannare le ambientazioni di un photoplay se non sa niente di composizione? Come può sottolineare la maestria dell’illuminazione se è cieco di fronte agli effetti tonali prodotti da piccole gradazioni di luce e ombra? Come può apprezzare lo svolgimento del pensiero attraverso l’azione se ignora totalmente lo studio dell’espressione mimetica? Che competenza può avere nel dire ai lettori che un photoplay non cattura l’attenzione del pubblico, se non conosce le leggi della suspence? Ovviamente il critico deve disporre del suo bagaglio prima di approcciare un tale compito. A seconda della grandezza del bagaglio, grande o piccolo, la sua critica risuonerà vera o falsa.
Oggi c’è una grande scarsezza di critici competenti nel campo della critica cinematografica. Il lavoro dei bravi critici esce dalla mediocrità di massa come fari sul mare di notte. Tuttavia gran parte della critica pubblicata su giornali economici e riviste, è riportata dalla pubblicità di una casa di produzione, e la sua influenza finisce per offuscare lo scrittore. I giornali vogliono pubblicare questa critica inadeguata e spesso fuorviante perché l’opinione generale è che i photoplay pubblicizzati non valgano tanto. Gli editori sanno che non meritano né il tempo né l’intelligenza acuta dei loro più abili scrittori. L’impressione prevale in vista del fatto che alcuni dei migliori giornalisti di New York si sono identificati con la critica cinematografica. Posto che la maggior parte dei photoplay proiettati sullo schermo non meriti grande considerazione, c’è comunque qualcosa di buono nei lavori peggiori così come qualcosa di brutto nei migliori, da rimettere all’attenzione del pubblico, ammesso che la gente voglia apprezzare e affinare il proprio gusto. La maggior parte della gente ha bisogno di una guida in questo. Non è tanto questione di dare loro quello che vogliono. Piuttosto di orientare i loro gusti così da arrivare a esigere il meglio. Possono giungere a questo solo attraverso quell’organo di illuminazione universale, la stampa pubblica. Solo allora il critico cinematografico avrà intrapreso questa missione seriamente nella vita. Avrà imparato tutto quello che c’era da imparare sulla sua professione, coltivando la conoscenza delle altre arti, da cui il photoplay prende in prestito, o che utilizza nel raggiungere il suo effetto per generare termini di paragone. A volte la critica inadeguata dei play odierni nasce da un’attitudine più o meno antagonistica espressa dal critico nei confronti del motion picture. È abituato a discreditare e sminuire i “movies”. Quindi non può mettere alcuna empatia nel suo lavoro. Spesso la sua critica non è analisi ma vituperio e violenza. Chi non riesce a scorgere le possibilità del photoplay come forma d’arte, chi non ne sa riconoscerne la bellezza e i punti di forza anche nel suo inziale stato embrionale, non è al passo con il progresso.
Un’altra ragione per cui la critica cinematografica è spesso un fallimento, è che sebbene scrittori eccellenti vi si dedichino, questi appartengono ad altri campi. Un critico d’arte drammatica non è ipso facto [n.d.t. nel testo] un buon critico cinematografico, né un autore di photoplay è necessariamente un buon critico di motion picture. Potrebbe conoscere la sua arte e i principi che la regolano, ma potrebbe non essere in grado di trasferire la sua conoscenza ai plays altrui. Aristotele, il più grande critico che il mondo abbia mai avuto, definito da Dante “il Maestro di color che sanno”, era critico d’arte drammatica, ma, a quanto ne sappiamo, non ha mai scritto un’opera teatrale. Non per forza un bravo critico è un bravo drammaturgo, né un bravo drammaturgo deve essere per natura un bravo critico. I critici cinematografici devono esercitarsi affinché possano educare il pubblico a riconoscere gli elementi migliori nei photoplay, e a fornirgli le conoscenze per essere esigenti nei confronti di distributori e produttori.
Oggigiorno, come tutti i critici cinematografici brillanti concorderanno, troppo spesso brancoliamo nel buio. La critica cinematografica senza dubbio crescerà con la stessa lentezza di quella letteraria e drammatica, ma alla fine sarà destinata a fiorire.
Quando questo millennio volgerà al termine non ci sarà più, come oggi, il bisogno disperato, per il pubblico dei teatri interessati al motion picture, di essere guidati nella scelta dei “film”. Il pubblico sembra non riuscire a scegliere il proprio intrattenimento sapientemente perché ha assistito a photoplay per anni. Troppo spesso vanno a “vedere film”, piuttosto che andare a vedere un play in particolare. Non esercitano facoltà selettiva. La scelta è spesso fortuita. Si recano nei teatri più vicini alle loro abitazioni o ai posti di lavoro o al luogo dove sono andati la prima volta. La gente non dovrebbe andare a vedere un play a caso. Si “fa un salto a vedere un movie per un’ora o due”, ma non si sognerebbe di fare un salto a teatro senza preoccuparsi di sapere se il play è burlesque, una commedia musicale, o un dramma borghese. Infatti ingenti sono il tempo e la ponderazione consumati per l’acquisto di un biglietto teatrale. In parte è dovuto al fatto che si tratta di una spesa più consistente, in parte al fatto che la critica teatrale atta a guidare il pubblico nella scelta dei play è distinta, e in parte al fatto che un play resta in un teatro per un certo lasso di tempo, così da dare la possibilità al pubblico di esserne più o meno a conoscenza. Eppure, nessuna di queste ragioni impedisce all’individuo la scelta dei “movies” con la stessa cura e precisione. Si può prendere dimestichezza con le policy delle varie case di produzione e con il tipo di picture che producono. Se si è interessati a un certo play si può chiedere un cambio, e trovare subito in che teatro viene proiettato quel picture. Molta incomprensione e indifferenza riguardo ai photoplay nascono da questo fallimento dell’individuo di esercitare la capacità di selezione.
Un gentiluomo severo, sempre aggressivo nelle diatribe sul motion picture, è stato sorpreso a frequentare un teatro gestito da una compagnia che raramente produceva altro dai propri lavori, che si sono rivelati essere il melodramma della peggior specie, osceno, volgare e rivoltante. Il teatro si trovava vicino alla sua abitazione, e mai ne aveva cercati altri. Le opinioni che aveva sul photoplay si basavano esclusivamente sulle impressioni formate lì. Pensava che i photoplay fossero tutti simili. Una colonna o due di elogio o avvertimento nel giornale del mattino vi avrebbero facilmente posto rimedio. Sfortunatamente, la compagnia è stata molto pubblicizzata e i suoi lavori lodati come eccellenti.
A volte succede che quando la gente ha attentamente pensato al photoplay da vedere, va a teatro solo per trovare che quel play è stato sostituito da un nuovo film. Raramente un produttore allestisce la proiezione di un film più a lungo di una settimana. Tuttavia, un passo verso la giusta direzione è stato fatto da Hugo Riesenfeld, manager dei teatri Rialto e Rivoli di New York. Ha rilevato il teatro Criterion dove vuole proiettare picture per molte settimane, finché il pubblico lo chiede. Il successo di questo rischio, se Riesenfeld porterà a termine l’idea originaria di mostrare il photodrama così com’è, diventerà argomento a favore o a discapito del sistema di programmazione. È bene aggiungere, ad ogni modo, che molto dipende della felicità della scelta. Singole proiezioni di questo tipo sono già state fatte ovviamente, riscontrabili in un numero di esempi isolati, come nel caso di The Birth of a Nation, Joan the Woman, Jack and the Beanstalk, Broken Blossoms, The Fall of Babylon, e altri play mostrati al pubblico di Broadway, per molte settimane consecutive, e in alcuni casi fino a una stagione.
Abbiamo detto che il campo della critica cinematografica o del giornalismo offre ricche opportunità allo scrittore che desidera fare della critica la sua professione. Riviste, giornali e periodici hanno bisogno di personale allenato e abile, in grado di scrivere non solo critica e recensioni, ma anche articoli specializzati su photoplay. Alcuni articoli possono essere scritti con tono grave, come quelli pubblicati di tanto in tanto su “The New Republic”, o in tono più leggero, come gli articoli di Rob Wagner, di frequente pubblicati sul “Saturday Evening Post”. Lo scrittore freelance può fare qualcosa per aiutare il pubblico a un migliore apprezzamento del photoplay come forma d’arte, scrivendo articoli di questo tipo e scegliendo il mercato attentamente come se dovesse selezionare un magazine per l’uscita di sua short story. Se i suoi articoli meritano di essere stampati, riuscirà a trovare mercato. “The New Republic” non stampa critiche di photoplay, ma ha dato alle stampe l’articolo di Vachel Lindsay “The Romance of the Redwoods”, in cui recitava Mary Pickford. Tutto dipende dal mandare l’articolo giusto al giusto editore. Ancora una volta è in funzione la legge della domanda e dell’offerta. Tuttavia, se il punto di vista critico è importante per il potenziale giornalista, lo è ancor di più per ogni autore di photoplay. Che voglia o meno scrivere due righe di critica deve comunque coltivare le sue facoltà di critico.
La più grande risorsa che possiede uno scrittore di photoplay è il teatro di motion picture. I teatri sono dei laboratori per i suoi studi, ben equipaggiati per gli scopi di ricerca analitica. Là può assistere ai lavori degli altri. Può osservare il modo in cui gestiscono il materiale. Può riflettere sull’attrattiva di un play o sulla sua mancanza. Può imparare decine di cose sul suo lavoro in un picture di una bobina 15. Può verificare dove lo scrittore ha commesso errori o dove è stato bravo, o andarsene, o fare altrimenti a seconda dei casi.
Per criticare un play con discernimento dovrebbe assistere almeno a una seconda proiezione del picture, e se possibile a una terza. Durante la prima proiezione segue la storia. La seconda volta, conoscendo già i fili narrativi e non vivendo più uno stato di suspence, può prestare attenzione alla struttura del play. La terza volta può apprezzare gli effetti tecnici. Può seguire la continuità, osservare i titoli del picture, le luci, la fotografia, la composizione, le inquadrature della macchina da presa, e alcuni strumenti fra cui le dissolvenze, i diaframmi a iride, la vignettatura, la doppia esposizione. Un editor di scenario molto conosciuto ha detto che lo studente intelligente con occhio per il dettaglio, e testa per l’analisi può ricavare più dalla visione di un photoplay per tre volte, che non dall’osservazione di una produzione al lavoro in uno studio per ore consecutive.
Avendo così sviluppato la sua facoltà critica riguardo ai photoplay di altri scrittori e perfezionato la capacità analitica su un materiale in nessun modo caro a lui, può cominciare ad applicare questa perizia alle sue creazioni.
Ognuno di noi può essere indulgente verso difetti e debolezze. Se siamo madri e padri estendiamo questa indulgenza ai figli. Se siamo scrittori estendiamo questo ai figli che abitano il nostro cervello. Siamo spesso incapaci di dissociarci dal nostro lavoro. Questo atteggiamento deve essere superato se vogliamo diventare scrittori di successo. Dobbiamo essere capaci di dissezionare i nostri scritti con la massima freddezza e calcolo. Dobbiamo diventare esperti della critica costruttiva e distruttiva, cioè dobbiamo poter fare a pezzi un play e ricostruirlo nella nostra immaginazione. Lo scrittore che abbandona un lavoro perché è difettoso non è un artista. Dovrebbe mettere il dito sul punto debole, cercare una ragione alla sua esistenza, e subito trovare un rimedio. Se un soggetto è stato meritevole, è giusto rilavorarlo. Lo scrittore deve imparare a gettare il falso e trattenere il vero.
Una stima accurata del lavoro degli migliori autori di scenario, dei migliori registi, dei migliori attori e scrittori, sarà “gettare il pane sulle acque”. Avrà un ritorno diretto nelle potenzialità dello scrittore, aumentando il suo valore e diminuendo poi le possibilità di fallimento.
[1] N.d.T. D’accordo con l’autore dell’articolo a commento del testo tradotto, abbiamo preferito mantenere alcuni vocaboli (Photoplay, Scenario, Craftsmanship) nella loro versione originale, senza tradurli, così da lasciare inalterata la loro storicità, fornendo prova del contesto temporale in cui Patterson lo ha prodotto e potenziando il valore prezioso di questa testimonianza. Ciononostante, se da un lato abbiamo mantenuto la lingua originale per sottolineare l’importanza del documento storico, dall’altro si è trattato anche di scelta stilistica. Si può tradurre il significato, ma non l’effetto evocato da certi termini. Pertanto, a guida del lettore, i titoli originali dei capitoli. Per chi desidera fermarsi un istante e riavvolgere la pellicola della costruzione del grande cinema, ripercorrendola come un atto unico fin dagli esordi, da New York, dagli anni ’20 del Novecento.
[2] Traduzione integrale.
[4] Traduzione parziale, pp 5-11.
[5] Qui Patterson sta codificando un albero genealogico di studiosi di Aristotele. Se l’opera di Field è considerata il paradigma esemplificativo delle correnti neoaristoteliche della New Hollywood e se, come abbiamo accennato, il manuale di Patterson – allieva di Matthews – è antesignano di quello di Field, in un’ipotetica scala genealogica di neoaristotelici in ambito americano il ruolo di Matthews appare fondamentale, tanto più che il suo nome viene puntualmente citato da sceneggiatori come Preston Sturges e Robert Riskin.
[6] Traduzione di Carlo Gallavotti (n.d.a.). Nel testo originale, traduzione del Professor S. H. Butcher (n.d.t.).
[7] Patterson ci fornisce indicazioni sulla divisione del racconto in tre atti, quella che si attribuisce erroneamente a Syd Field a partire dagli anni Settanta (three acts srtucture). La scrittrice anticipa Field di mezzo secolo. Anche se la norma dei tre atti è stata estrapolata arbitrariamente, viene applicata con una riflessione seria e cosciente nell’ambito degli studios – registi, sceneggiatori, attori e produttori in primis – soprattutto a partire dagli anni Settanta, con l’avvento della New Hollywood. Proprio in questo periodo cominciano a fiorire manuali di sceneggiatura che vanno in questa direzione, riconosciuti ed utilizzati all’interno dell’ingranaggio industriale da molti sceneggiatori che vi lavorano, alcuni di loro anche come consulenti durante la produzione di un film; spesso sono proprio questi consulenti gli autori di questa manualistica, come Robert McKee, Cris Vogler, Linda Seger e soprattutto Syd Field, autore di Screenplay, The Foundation of Screenwriting che parla apertamente della the three acts structure e di come tale norma sia stata utilizzata ad Hollywood fin dagli anni Dieci. In realtà, i manuali di sceneggiatura fioriti all’alba del sistema produttivo hollywoodiano, non codificano chiaramente le sceneggiature in tre atti – il primo esplicito riferimento si ha solo nel 1912 per mano dello scrittore Wiliam Archer[7] –, anche se vi sono numerosi riferimenti ad Aristotele. Patterson però sembra voler effettivamente suggerirci una divisione della sceneggiatura in tre parti o atti.
[8] Traduzione completa.
'Fabbricare cinema. Un manuale per gli scrittori' has no comments
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