Werner Sombart e la crisi del capitalismo: quale lezione per oggi?

I nefasti effetti della crisi del 1929, risultato di un mix esplosivo di sovrapproduzione e speculazione finanziaria, incrinarono profondamente la fiducia sulla capacità del mercato di autoregolarsi. Ieri come oggi, specialmente a seguito della crisi del 2008 e di quella causata dal Covid-19, ritornano in auge alcune domande sul futuro del capitalismo e sulla necessità di una sua riforma.

Un fattore che accomuna il presente con il passato consiste nel fatto che il capitalismo lasciato a sé stesso mostrava e mostra i suoi limiti nell’incapacità evidente di conciliarsi con le richieste di giustizia sociale. Dopo la crisi del ’29 c’era bisogno di riformare il capitalismo, di addolcirlo, di piegarlo alle esigenze delle istanze sociali che non a quelle esclusive, univoche e freddamente materialistiche dell’accumulazione di capitale.

Come ben sappiamo, nel caos dovuto alla liquefazione del sistema economico il prezzo più alto venne pagato dall’ordine politico e sociale esistente in alcune società europee degli anni ‘30. La marea umana di disoccupati faceva sentire la propria voce attraverso i megafoni delle cabine elettorali. Il movimento che andava a delinearsi, sia in Europa che negli Stati Uniti, trovava nel riformismo del sistema capitalistico il proprio cavallo di battaglia. Dagli Usa alla Germania, passando per la Francia socialista, il motto era il seguente: non più disinteresse, cioè laissez-faire, bensì intervento diretto nella sfera economia. Mettere al centro lo Stato voleva dire rimettere al centro la società, le esigenze della collettività.

Se praticamente le direzioni politiche intraprese furono diverse, e spesso contrastanti, quelle economiche rimarcarono la stessa esigenza: mitigare gli effetti più deleteri del mercato autoregolato attraverso l’intervento diretto dello Stato.

La lezione di Werner Sombart va proprio in questa direzione. Padre della sociologia moderna nonché attento scienziato della realtà sociale contemporanea, Sombart vedeva nell’economia programmatica l’unica possibilità per salvare non solo l’ordine sociale, ma il capitalismo stesso. Egli afferma come:

“i difetti della civiltà capitalistica, raggiunto ormai l’apogeo, sono troppo grandi. La profonda divisione tra le classi del nostro popolo, l’affollarsi della popolazione nelle grandi città, la incertezza dell’esistenza, l’aleatorietà della produzione e della distribuzione sono difetti che non possono essere eliminati per opera di quel sistema economico. Bisognerebbe infatti che la totalità del popolo stesso, rappresentata dallo Stato, si impadronirà di nuovo del processo economico e lo inserirà nel grande complesso della vita statale e culturale. La via che conduce a questo scopo è l’economia programmatica nazionale. [59-60]”

Sombart ovviamente non voleva il sovvertimento della società capitalistica tout court, bensì avviare un progetto riformista. L’economia programmatica evocata non va intesa in salsa comunista, cioè di nazionalizzazione coatta. Il sociologo tedesco intendeva infatti mantenere ben viva l’economia privata, restaurandone i diritti usurpati da un capitalismo predatorio ed affaristico. Bisognava immettere nella vita economica forme razionali, capaci di affibbiare un’etica morale al capitalismo attraverso quella via nazionale che doveva farsi foriera degli interessi di tutta la collettività, non solamente di una parte di essa.

“Al posto delle due forze che sinora hanno dominato la nostra vita economica, il caso e l’aspirazione alla potenza e al guadagno da parte di un sempre minor numero di potenti dell’industria e della banca, deve sostituirsi, come forza determinante, la volontà del popolo impersonata dallo Stato. [60]”

La collettività deve quindi tornare protagonista delle scelte nel campo dell’economia, rimettendo al centro dell’agenda politica le esigenze del benessere collettivo. Sombart aveva difatti compreso come la trasformazione della borghesia fosse la chiave del cambio di paradigma economico negli anni ‘30. La classe media, nerbo delle società capitalistiche occidentali, impaurita dal potenziale declassamento sociale personificato dalla crisi economico-finanziaria, si faceva rapire, ad esempio in Germania, dalla retorica populista del nazional-socialismo.

L’eco delle previsioni di Sombart sembrano echeggiare ancora oggi. Lo studioso tedesco aveva infatti ben capito come qualsiasi riforma del sistema capitalistico dovesse partire da una feroce lotta ed un intelligente programma contro la disoccupazione, ed aggiungiamo noi, a favore di un processo di demercificazione del lavoro attraverso l’intervento dello Stato, cioè della collettività. Solo attraverso un vasto programma occupazionale di natura pubblica sarà possibile ridare dignità al lavoro, strappandolo dalle mani mortifere della società post-fordista, così da salvare il capitalismo e l’ordine sociale che conosciamo.  

(Citazioni tratte da: Werner Sombart, La crisi del capitalismo, a cura di R. Iannone, Mimesis Edizioni, Milano 2016)



È ricercatore presso il Dipartimento di Filosofia, Comunicazione e Spettacolo dell'Università degli Studi Roma Tre, dove insegna Storia Economica, Storia del Capitalismo e Geopolitica Economica. Si interessa di finanza pubblica, capitalismo ed imperialismo in età contemporanea specialmente nell'area del Mediterraneo. Le sue ricerche sono state pubblicate sulle riviste scientifiche Oriente Moderno, Eurasian Studies, The Journal of European Economic History e The International History Review. È co-autore del volume: L'Odissea del Debito, le crisi finanziarie in Grecia dal 1821 a oggi (Edibus, 2015) ed autore della monografia: Il Tesoro del Sultano, l'Italia, le Grandi Potenze e le Finanze ottomane 1881-1914 (Textus, 2018).


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