La parola «democrazia» (dal greco δημοκρατία, comp. di δῆμος «popolo» e -κρατία «-crazia») allude all’idea del governo del popolo sul popolo. Il popolo, tuttavia, non è un insieme di individui, bensì una finzione: un sistema di atti individuali, creato e regolato dall’ordine giuridico1. Ciò che la forma unisce lascia impregiudicata la sostanza del popolo che è privo di una volontà uniforme. Nei fatti una massa di individui di differenti strati economici e culturali non esprime e non può esprimere unità di voleri concreti, che possano dirsi identici ed omogenei.
L’idea del «popolo» può solo sprigionare indirizzi, orientamenti, linee di direzione, rilevabili semmai da qualche legge della statistica. Indici quantitativi di tendenze, che lasciano presumere, in dati ambiti, una certa regolarità. «Governo del popolo», in una democrazia diretta o rappresentativa, sta solo a significare un governo al quale il popolo partecipa con la creazione e l’applicazione «delle norme generali e individuali dell’ordinamento sociale che costituiscono la comunità»2. È un meccanismo sociale o, se si vuole, un processo storico – e infine legislativo – volto a costruire un legame ideale nella comunità in cui gli individui si ritrovano a vivere insieme. Si affaccia un’istanza di fondo, caratteristica – in una linea antropologica – dell’«uomo come essere che agisce»3: quella di tenere unite le cose in cui l’uomo sociale agisce. L’idea di libertà che, coordinata con il principio di uguaglianza, si genera nella democrazia si oggettiva e prende corpo nella istituzione.
Nominare il «popolo» – in un discorso pubblico o privato – significa dunque scambiare una realtà osservabile, frammentaria, mutevole con una realtà impenetrabile, unitaria, ordinata. È un equivoco del nostro sguardo sulle cose, un’illusione semantica. «Guardando all’ingrosso e da lontano» – scriveva Benedetto Croce a proposito del movimento collettivo in una esercitazione militare – «par che ci sia uniformità; guardando da presso, si scorge la difformità»4. Ciò che appare artificialmente unito è naturalmente diviso. È perciò del tutto realistico – naturale, appunto – che tra queste molteplici volontà difformi, attirate nella presunzione di una regolarità apparente, vi siano volontà volubili, riluttanti, indolenti. In questo quadro, abitato da innumerevoli convinzioni, mutevoli e condizionabili, decidere di percorrere la strada pubblica della intransigente «verità» dei fatti e delle informazioni costituisce un rischio. È il pericolo delle atmosfere viziate. Chi si batte e si impegna contro una società fondata sull’inganno potrebbe finire – in un rovesciamento di ruoli, posizioni e credenze – per essere dichiarato dall’assemblea popolare una minaccia per la stabilità delle istituzioni, un «nemico del popolo». È ciò che accade – nell’opera di Ibsen, Un nemico del popolo, di recente riproposta al Teatro Argentina di Roma, per la regia di Massimo Popolizio, traduzione di Luigi Squarzina – al dottor Thomas Stockmann, medico dello stabilimento termale della città, animato dal fermo proposito di denunciare pubblicamente le infezioni provocate dall’inquinamento dell’acqua termale.
L’opera di Henrik Ibsen, scritta nel 1882, è un manifesto di attualità, adattabile ai sistemi democratici contemporanei, sempre più dominati dall’azione inquinante delle parole, dalla realtà incontrollabile della rete, dalla diffusione di notizie false che agiscono sulla capacità di giudizio condizionando le opinioni personali e indirizzando il consenso popolare.
Ritroviamo la metafora di una società costruita intorno ad informazioni non veritiere5, dove la distanza dalla «verità» viene attuandosi per ragioni di prudenza (quella dei giornali sulle questioni politiche6) di convenienza economica, di opportunità politica.
Le ispide maldicenze che si abbattono sul dottor Stockmann si alimentano della macchina linguistica del discredito, di una sapiente manipolazione informativa, di una subdola narrazione dei fatti. A chi mai leggerà l’articolo confezionato per la Voce del Popolo risulterà chiaro – afferma Peter Stockmann, borgomastro con funzioni di polizia, presidente della Società delle Terme, fratello maggiore del dottore – che «il progetto del medico dello stabilimento punta sostanzialmente (…) ad accollare ai contribuenti un’inutile spesa supplementare di almeno centomila corone»7.
Anche il fatto dell’acquisto – da parte del suocero di Stockmann – delle azioni della Società delle Terme contribuisce a screditare Thomas gettando sui suoi propositi di «verità» l’ombra del dubbio e delle malignità8.
In una società fondata sull’inganno più salutare sarebbe formarsi, sin da bambini, nella scuola delle frottole dove – come ironizza Petra, maestra di scuola, figlia di Stockmann – verrebbe declamata «una sfilza di buoni principi» senza credere a ciò che si insegna9.
Poiché – come rileva il borgomastro10 – l’opinione pubblica è variabile e incostante non è complicato far apparire il dottor Stockmann come un uomo – che pur lottando in cuor suo per la verità – si pone e agisce «deliberatamente contro l’opinione pubblica, contro le idee e i sentimenti della cittadinanza» (così conclude Hovstad, redattore della Voce del Popolo11). È il destino di un uomo che – ridotto, come scrive Luigi Squarzina sulle pagine di Sipario, n. 39, 1949, a una «eroicomica solitudine» – rinverrà in questa condizione, imposta e insofferente, il luogo di una grande scoperta: «che l’uomo più potente, più forte del mondo è l’uomo solo, il più solo, il più solo…» (suonano così le parole finali di Stockmann12). È tuttavia la scoperta di un potere immaginario che soltanto la presenza del domani potrebbe trasformare in un potere che, nella diffusione di una nuova cultura, si faccia visibile e reale. La presenza in scena di questo domani è a mio avviso impersonata dalla figlia di Stockmann – di mestiere insegnante – che, ascoltate quelle parole di smarrimento, afferra le mani del dottore ed esclama «Papà!»13. L’opera di Ibsen si chiude con questo gesto impulsivo di Petra, che accoglie e scuote il padre. Nulla sappiamo del risveglio di Thomas dal delirio onirico di snaturare, con il peso della solitudine, una società ormai inquinata.
1H. Kelsen, Vom Wesen und Wert der Demokratie, Tübingen , J.C.B. Mohr, 1929, trad. it. di Giorgio Melloni, ora in La democrazia, a cura di M. Barberis, Bologna, 1995, p. 59.
2H. Kelsen,Das Problem des Parlamentarismus, Wien-Leipzig, W. Braumüller, 1924, trad. it. di Bruno Fleury, ora in La democrazia, p. 195.
3A. Gehlen, Urmensch und Spätkultur. Philosophische Ergebnisse und Aussagen, 6° ed., Frankfurt am Main, 2006, ora in L’uomo delle origini e la tarda cultura, a cura di V. Rasini, trad. di Elisa Tetamo, Milano, 2016, p. 22.
4B. Croce, Filosofia della pratica – Economia ed etica, Biblipolis, 1908, a cura di M. Tarantino, p. 339.
5H. Ibsen, Un nemico del popolo, in Ibsen, trad. di C. Magris, C. Giannini, N. Zoja, Milano, 20177, pp. 179-190.
6Id., op. cit., p. 176.
7Id., op. cit., p. 175.
8Id., op. cit., p. 207-211.
9Id., op. cit., p. 118.
10Id., op. cit., p. 204.
11Id., op. cit., p. 177.
12Id., op. cit., p. 219.
13Id., op. cit., p. 219.
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