In nessuna arte, come nella poesia, la memoria sembra essere tanto profondamente legata al processo creativo. Non dobbiamo dimenticare, del resto, che gli antichi Greci, alle origini del fenomeno poetico avevano posto una dea, Mnemosýne, la madre delle Muse e la personificazione della memoria, della quale i poeti si facevano interpreti. In maniera analoga agli indovini ispirati da Apollo, gli aedi si lasciavano possedere dalle Muse, non per predire il futuro, in questo caso, bensì per far rivivere il passato e svelarne il senso più profondo.
Poesia della memoria dunque, ma anche poesia dell’oblio, della dimenticanza di sé, che trasforma lo sguardo in visione, proiettando il vissuto del poeta in una dimensione universale e condivisa, cioè mitica. “Ogni poesia in senso alto” – scriveva il filologo tedesco Walter Friedrich Otto – “è mitica e non nel senso di un’opera della fantasia (soggettiva), ma nel significato più oggettivo possibile, come annuncio della verità dell’essere, la quale, come ben sa ogni vero poeta, accade soltanto grazie ad un’autorivelazione […]”. Così, il canto dei poeti antichi nasceva dal mito e da tutto quel patrimonio di racconti dell’immaginario collettivo, dal quale nascono anche le figure evocate nelle liriche di questa raccolta di Raffaela Fazio: eroine, fanciulle, dee, elevate dalla poetessa ad archetipi dell’interiorità femminile ed unite da un filo sottile, quello di Arianna, le cui trecce sciolte divengono il simbolo della più autentica emancipazione:
Ti slegherai le trecce
il sangue nelle vene.
Un suono ti conduce
all’abbandono.
Arianna, la principessa cretese, che ha guidato l’amato Teseo nel Labirinto per uccidere il Minotauro, lasciata sola sull’isola di Nasso, vede la nave dell’ingrato amante allontanarsi. È disperata, ma un più alto destino l’attende. Non già l’abbandono alla sofferenza dell’amore tradito, ma a Dioniso, alla danza perenne nell’immenso cerchio della vita, che la consacra a simbolo eterno dell’Anima. Superando i confini del tempo, il femminile giunge così alla coscienza di chi scrive e di chi legge con tutta la forza delle sue fragilità, delle sue contraddizioni e di quella perenne e faticosa ricerca d’integrazione con il maschile, di cui le storie d’amore d’ispirazione classica divengono espressione.
Difficile sottrarsi alla seduzione di Afrodite, ossimoro vivente di un’estasi amorosa che porta con sé il dolore della ferita originaria:
Nasci dalla ferita, gioia perfetta.
Ma soprattutto difficile l’idea di un amore che si sottragga al bisogno di possesso dell’amato, come nelle storie di Procri e di Clizia, o al bisogno di annullamento e sacrificio, come in Alcesti e in Eco, la quale giunge fino alla rinuncia totale di sé, prigioniera di una parola che può solo rimandare ciò che ascolta, come l’immagine riflessa in uno specchio:
Sei l’altrove inconcludente
il non-possesso
l’aggiunta
che non aggiunge niente.
Amore puro e incondizionato, invece, quello di Demetra; amore materno che, accettando la dolorosa separazione dalla figlia Persefone, si mostra pronta ad accogliere non solo l’Altro, ma l’intero cosmo:
E quel tuo passo indietro
in sottrazione
al Tutto
ha immesso
nell’Eterno le stagioni:
linfa materna
che a noi dà modo e forza
di attraversare il vuoto […].
Nelle pagine di Ti slegherai le trecce, tuttavia, occorre osservare che la presenza costante del mito non esclude un’incessante dialettica con la realtà. L’immanenza di un gesto, di un’emozione, di un volto spesso dà avvio alla poesia e trasferisce il sentire nella fisicità e nella corporeità della parola. Tutto ciò avviene però in uno spazio rarefatto, in cui l’indebolimento dei nessi sintattici, le pause, le cesure, la struttura timbrica e ritmica dei versi trasfigura il dato reale.
Grazie a questa dialettica tra realtà e fantasia, non è difficile per il lettore riconoscersi nelle figure del mito e insieme scoprire punti di vista sempre nuovi, con cui guardare alla propria esperienza di vita. La poesia così si fa cura dell’anima, proprio come la parola gentile e leggera di Iris, la messaggera degli dei, che giunge là dove c’è dolore. A lei è dedicata la lirica che chiude la raccolta, quasi un’invocazione:
Come te
Gentile
giunga la parola
che s’inarca.
Come te
Leggera
si sporga sul dolore
o lo prepari.
[…]
Fatti bella
fatti dolce
ancella
ultima voce.
Ma incontrando Iris, ci si rende conto di avere finalmente incontrato l’autrice delle liriche, colei che, come fa la dea attraversando il cielo, la terra, il mare, il mondo infero e spingendosi in quei luoghi dove non siamo soliti andare, “dove mai nessuno sta di guardia”, ha guidato il lettore in un viaggio alla scoperta delle vertiginose profondità dell’Anima.
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