Superbi e sovversivi. Percezioni del tiranno nella Roma repubblicana

Abstract (italiano)

La memorizzazione di alcune vicende legate a personaggi particolari, accusati di puntare al potere assoluto (Tarquinio il Superbo, Spurio Melio, Tiberio Gracco, Giulio Cesare), consente di ricostruire i contorni della figura del tiranno come elaborata negli ambienti aristocratici romani dell’età tardorepubblicana. La tirannofobia espressa da questi ambienti rielabora alcune suggestioni provenienti dalla politologia ellenica, ma risponde soprattutto a esigenze proprie, di natura sociale e politica, tese a mantenere il controllo di un sistema centrato sulla partecipazione al potere allargata, e al tempo stesso concentrata, nelle mani di poche grandi famiglie. Del resto nella cultura politica popolare romana si può rintracciare, al contrario, una tendenza a bollare come tirannica, in termini di dominatio, l’arroganza di una gestione egoistica del potere da parte dell’aristocrazia o di alcuni dei suoi esponenti.

Abstract (english)

The memorization of some events linked to particular characters, accused of aiming for absolute power (Tarquinius the Proud, Spurius Maelius, Tiberius Gracchus, Julius Caesar), allows us to reconstruct the contours of the figure of the tyrant as elaborated in the aristocratic Roman environments of the late Republican age . The tyrannophobia expressed by these environments re-elaborates some suggestions coming from Hellenic political science, but responds above all to needs of social and political nature, aimed at maintaining control of a system centered on the participation in the enlarged and at the same time concentrated power in the hands of a few large families. On the other hand, in Roman popular political culture one can trace a tendency to brand in terms of tyranny (dominatio) the arrogance of a selfish management of power by the aristocracy or some of its exponents.

               

1.Un tirannicidio modello

In una zona non ben determinata del versante sudorientale del colle capitolino, grossomodo davanti all’attuale Santa Maria della Consolazione, in un tessuto urbanistico allora densamente costruito, ancora nella seconda metà del I sec. a.C. si apriva una piccola area inedificata, utilizzata come mercato per gli animali destinati ai sacrifici. Lo spiazzale era chiamato Aequimelium (letteralmente: “spazio spianato”). Si trattava, secondo la tradizione, dell’area su cui molto, molto tempo prima, sarebbe sorta la domus di Spurio Melio, condannato a morte per aver aspirato alla tirannide. Una volta distruttane la casa, il terreno, consacrato alla comunità, sarebbe stato lasciato per secoli in quelle condizioni a perenne monito e memoria del destino riservato agli aspiranti tiranni1.

La vicenda di Spurio Melio si perdeva nella notte dei tempi: risaliva a una età rispetto alla quale la mancanza di documentazione diretta spesso generava scetticismo già fra i romani dell’epoca di Cesare e Cicerone. Di questa storia esistevano molte varianti, con divergenze anche importanti. Noi la conosciamo fondamentalmente attraverso le narrazioni di due studiosi di età augustea, Tito Livio e Dionigi di Alicarnasso. Costoro attinsero ai resoconti che trovavano negli annalisti di II sec. a.C., i quali avevano ambientato la vicenda alla metà del V sec., e precisamente nel 439, proprio nel periodo in cui infuriava il “conflitto fra gli ordini”, cioè la lotta fra i patrizi (alcuni clan aristocratici che detenevano il monopolio delle magistrature, dei sacerdozi, insomma del potere politico) e i plebei2. Spurio Melio sarebbe stato un plebeo di alto rango, un eques, cioè un cavaliere: secondo alcune versioni addirittura un ricchissimo proprietario di terre. In occasione di una carestia, si sarebbe preoccupato, tramite amici e clienti, di procurare enormi quantità di grano, che avrebbe poi messo a disposizione della popolazione, soprattutto dei più poveri. Naturalmente questa manovra, seguita da altre simili, gli avrebbe procurato una immensa popolarità. Tutto questo d’altro canto avrebbe immediatamente preoccupato i senatori (cioè, a quel tempo, i patrizi). Melio, che essendo un plebeo non avrebbe potuto aspirare neppure alla candidatura al consolato, all’epoca riservato ai patrizi, venne accusato di puntare al potere assoluto. Per questo un senatore, tal Servilio Ahala, si sarebbe presentato armato di coltello nel bel mezzo del foro, dove Melio dava udienza alla sua gente, e lì seduta stante lo avrebbe scannato, di sua iniziativa o per esplicito incarico del senato o su indicazione di Cincinnato, allora supremo magistrato in carica. Probabilmente molti particolari della storia, anche importanti, vennero inseriti nel racconto dagli storici di età graccana, suggestionati dagli eventi a loro contemporanei e intenzionati a suggerire, o glorificare, le modalità repressive messe in atto con successo dalla nobiltà senatoria nei casi di (supposta) incipiente sovversione, come appunto i metodi adottati contro i tribuni Gracchi. Sappiamo comunque che il racconto della vicenda di Spurio Melio, assieme a quello di altre due storie analoghe, quelle di Manlio Capitolino e di Spurio Cassio, terminanti anch’esse con l’esecuzione del sospetto aspirante alla tirannide, era conosciutissimo; e che a Roma rappresentava in qualche modo l’archetipo della narrazione stessa della tirannide, o meglio della eroica lotta contro la tirannide3.

2. Il lessico dell’autocrazia

Tito Livio, riportando nel suo racconto i termini dell’accusa rivolta a Spurio Melio, utilizza il lessico tradizionale della politica romana d’età repubblicana e parla di adfectatio regni: potremmo dire di “aspirazione alla corona”. Dionigi invece traduce il concetto nei termini della politologia ellenica: “aspirazione alla tirannide”. La sovrapposizione di questi due concetti (il regnum romano e la tyrannia greca) richiede qualche approfondimento e suscita qualche riflessione. Il pensiero politico greco, di cui Dionigi era portatore, aveva conosciuto storicamente una forma di governo cui era stato dato il nome di tirannide. Questa forma di governo, nella narrazione che se ne era fatta (non solo letteraria, ma anche, ad esempio, drammaturgica), aveva assunto col tempo dei connotati ben precisi4. La tirannide era uno stile di governo caratterizzato da solitudine, efferatezza, mendacia: il portato di un potere raggiunto con la forza, o l’inganno, o la demagogia, e senza il consenso della parte “migliore” della collettività. Dunque un particolare tipo, diciamo una degenerazione, della formula monarchica, che di per sé non si presentava agli occhi dei greci come necessariamente negativa. Le virtù del buon monarca erano anzi al centro di tutta una trattatistica filosofico-politica circolante almeno dal IV sec. a.C. Del resto quando i romani si confrontarono coi greci, prima in Sicilia e poi direttamente in Oriente, una parte assai considerevole di loro viveva in condizioni di sudditi, abitando in regioni o cittadine integrate nei piccoli o grandi regni ellenistici. La sensibilità dei romani di età repubblicana, sotto questo profilo, era piuttosto diversa. L’idea stessa di monarchia cozzava con la loro visione della politica. La libertas dei cives non prevedeva spazio per un re. Al profondo senso della gerarchia, all’esaltazione della disciplina tipiche del mondo romano non corrispondeva infatti una tendenza all’obbedienza cieca e servile nei confronti del detentore del potere5. Almeno dall’ultima fase dell’età monarchica, è vero, i Romani concepivano il potere come imperium, come processo monocratico di comando: ne apprezzavano e teorizzavano l’assolutezza e soprattutto l’efficacia, tanto più evidente se confrontata alla laboriosa, lenta, instabile opera di mediazione richiesta dalla politica assembleare. Arrivarono addirittura a istituire una magistratura come la dittatura, che riconosceva a un singolo individuo (in caso di guerra o di sommosse) il massimo accentramento possibile del potere, una sorta di dominio assoluto6. Ma al contrario del potere monarchico, vitalizio, e talvolta persino ereditario, l’imperium dei magistrati romani conosceva delle limitazioni fortissime. Anzitutto nel tempo (i magistrati restavano in carica al massimo un anno, i dittatori addirittura non più di sei mesi); poi nella collegialità7. Consoli e pretori infatti non si limitavano a consultarsi col senato e a sondare gli umori popolari nelle contiones, le assemblee informali, ma erano sottoposti all’intercessio dei colleghi e di altre cariche, prime fra tutte quella, particolarissima, del tribuno della plebe, nata proprio per controbilanciare l’abuso di imperium da parte dei patrizi. Un sistema di poteri e contropoteri che veniva letto dagli intellettuali greci in termini di “costituzione mista”8. I Romani dunque (o quantomeno quelli dell’élite aristocratica, quelli cioè del cui pensiero e atteggiamento ci è giunta testimonianza), benché concepissero una idea di potere forte ne detestavano qualsiasi tipo di accentramento monarchico. Il termine tyrannus aveva cominciato a circolare nel vocabolario politico romano nel II sec. a.C., in un periodo in cui l’élite sociale era già impregnata di cultura greca: il vocabolo, che evocava tutti gli aspetti negativi dell’autocrazia monarchica, talvolta sembrerebbe esser stato utilizzato semplicemente per significare il rex iniustus9; il che tuttavia costituiva una sorta di tautologia, in quanto tutti i monarchi, come abbiamo visto, nella logica della grammatica politica romana erano per definizione iniusti. Sarebbe meglio dire che tyrannus era un vocabolo usato per definire e stigmatizzare chi gestisse o dimostrasse di voler gestire l’imperium (o anche la semplice potestas connessa al tribunato), insomma il potere, oltre i limiti consentiti, quindi come un re10. Il termine dunque era utilizzato per gettare discredito sugli avversari, per sottolineare la perniciosità di alcuni aspetti della loro azione politica11. E la caratteristica che più inquietava l’élite romana era il collegamento, sottolineato dagli studiosi greci, fra genesi del potere tirannico e “stasis”, il termine greco utilizzato per indicare lo scontro politico degenerato in guerra civile, in “rivoluzione”. La tirannide cioè, storicamente si presentava, o almeno poteva presentarsi, come l’espressione dello sfrenato potere popolare che fosse riuscito a prevalere nello scontro politico12. Non è un caso se gli esponenti degli ambienti aristocratici romani di II – I sec. a.C. utilizzarono proprio l’addebito di aspirazione alla tirannide come capo d’accusa fondamentale in nome del quale scatenare, in successione, le repressioni contro i “tribuni sovversivi” attivi in età tardorepubblicana. Nella propaganda nobiliare in sostanza si creò un certo accavallamento fra l’immagine del sovversivo, del facinoroso che ricorre alla violenza, e quella del tiranno, bollati dal loro comune sentimento di (supposta) superiorità rispetto ai vincoli imposti dalle leggi. Quando Cicerone insulta e calunnia la memoria del suo avversario Clodio (il tribuno che nel 58 a.C. lo aveva fatto esiliare con l’accusa di aver condannato a morte senza processo i leader catilinari), lo definisce tyrannus proprio per questo, per il suo sfacciato ricorso alla violenza: Clodio infatti praticava una lotta politica fatta di occupazioni, scontri assembleari, intimidazioni di piazza13. La tirannide quindi come connotato di chi non sapesse gestire il potere secondo i limiti e i dettami della tradizione, ma lo esercitasse con tracotanza e alterigia. Questo infischiarsene, questo andare “oltre”, questo sentirsi “al di sopra delle leggi” e degli altri, costituiva per l’appunto la superbia, il sentirsi super.

3. Superbia e violenza

Il Superbo per antonomasia nella memoria storica di Roma è l’ultimo re. Non è qui il caso di affrontare lo spinoso problema della natura della regalità etrusca, che secondo diversi studiosi potrebbe essere catalogata essa stessa come una forma “tirannica” (intendendo come “tirannide” la tipologia di sovranità monocratica diffusa in area campana e medio-italica nel VII-VI sec. a.C., su suggestione greca). Del resto noi non conosciamo bene la vicenda dell’ultimo re di Roma, cui pure le fonti riconoscono meriti di natura militare e anche civica. Il racconto tradizionale risente infatti, pesantemente, di una rielaborazione dell’immagine stessa di Tarquinio, riadattata allo stereotipo tirannico classico di matrice greca. Quel che ci interessa qui è il fatto che il Superbo rappresenta in sé, per la narrazione che se ne faceva, l’essenza della tirannide come la immaginavano gli aristocratici romani d’età repubblicana14. Fra i vari tratti caratteristici ce n’è uno che vale particolarmente la pena sottolineare. È il fatto che a puntellare la sua autorità l’ultimo re sarebbe ricorso, con decisione del tutto inedita, a una guardia del corpo. Del resto secondo il racconto tradizionale Tarquinio stesso, pur teoricamente reclamando i diritti al trono per via di sangue, in quanto figlio di Tarquinio Prisco, di fatto avrebbe scalzato il suo predecessore (e suocero), Servio Tullio, attraverso un putch violento, uno scontro fisico. Affiancato da un gruppo di gente armata, Tarquinio avrebbe malmenato e buttato giù dalle scale della curia il vecchio re; che i suoi uomini avrebbero poi raggiunto e finito lungo la strada che lo riconduceva alla propria abitazione. Quindi la forza, la forza fisica, come fondamento della presa e del mantenimento del potere. Non si tratta di un monopolio teorico della violenza; ma della capacità si sfruttare concretamente una posizione di forza.

La lettura in chiave di tendenza tirannica del ricorso alla violenza, intesa come capacità materiale di mobilitare al proprio fianco squadre di gente armata, aveva risvolti importanti in un mondo come quello della Roma repubblicana, un mondo in cui, occorre ricordarlo, non esisteva una forma strutturata di polizia. Non c’erano ronde o gendarmerie, caserme di vigili. L’ordine pubblico, in pratica, era assicurato dai cittadini stessi. La storia repubblicana, in particolare quella del periodo della “lotta fra gli ordini” e poi quello dell’età graccana e postgraccana, è costellata di baruffe, risse, scazzottate di massa, cariche, pestaggi15. Ma il ricorso alla violenza, per essere giusto e legale, doveva essere evocato esplicitamente dal senato o da qualche magistrato, o giustificato dal compimento di un sacrilegio evidente (come aver messo le mani addosso a un tribuno della plebe, la cui sacrosanctitas ne sanciva proprio inviolabilità fisica). L’esistenza di gruppi armati in qualche modo privati, al soldo o anche semplicemente affiliati attorno a un leader, risultava perciò un fattore imprevisto e inquietante: secondo alcuni, inequivocabile sintomo di aspirazione alla tirannide16.

4.Tirannofobia e tirannoctonia

L’aristocrazia romana si dimostrò risolutamente, anzi persino ferocemente tirannofobica, per tutta la secolare storia di Roma; fino ed oltre all’avvento del principato. Questo per due ordini di motivi. Uno di natura squisitamente politica. Tale atteggiamento discendeva infatti dal fatto che il sistema politico romano era un sistema che prevedeva la partecipazione al potere come elemento selettivo, e quindi costituente, della aristocrazia stessa. Mi spiego. La nobilitas romana di età repubblicana, diversamente da aristocrazie di altre società e di altri periodi, non era una nobiltà di sangue; o meglio: non era semplicemente una nobiltà di sangue. Per essere nobiles bisognava che i membri della propria famiglia (se stessi, o i propri avi diretti) fossero stati scelti dal resto della comunità, tramite votazioni. Scelti per rivestire cariche di potere: la guida dell’esercito, la conduzione dei processi, la gestione delle assemblee. Se l’accesso a queste cariche si fosse in qualunque maniera bloccato, in quanto cumulate nelle mani di un solo individuo, o di un solo clan familiare, il meccanismo si sarebbe inceppato, e l’aristocrazia non si sarebbe potuta rigenerare.

L’altra radice del sentimento antitirannico nutrito dall’aristocrazia romana era di natura più sociale: per il fatto cioè che i “tiranni”, o meglio i personaggi accusati di aspirare alla tirannide, da Spurio Melio a Tiberio Gracco a Giulio Cesare, fondavano il loro potere, o comunque la loro capacità di azione politica, sull’appoggio di un “blocco sociale” diverso da quello che sosteneva il potere aristocratico. Un blocco sociale che non riconosceva più il “focus” dell’autorità nel senato e quindi era disposto a supportare operazioni di ingegneria istituzionale innovative, anche “rivoluzionarie”, incentrate sulla valorizzazione di altri elementi, come le assemblee popolari o l’esercito, al cui interno più facilmente riuscivano a emergere istanze popolari. Un caso classico è quello offerto dal primo di quelli che la tradizione antinobiliare avrebbe classificato come “tribuni martiri”: Tiberio Gracco17. Gracco, che proveniva da una delle più illustri famiglie della nobiltà, come tribuno della plebe propose una serie di interventi destinati a suscitare scandalo nel mondo senatorio. Attraverso una legge agraria requisì una parte dell’agro pubblico illegalmente occupato da ricchi latifondisti per distribuirlo a cittadini poveri, destinò al finanziamento di questa operazione delle risorse provenienti dalle provincie, avocando all’assemblea una competenza tradizionalmente gestita dal senato e per aggirare l’ostacolo costituito dal veto che un suo collega tribuno opponeva alle sue proposte ne mise al voto il ritiro del mandato popolare (una procedura che alla sensibilità dei moderni può apparire profondamente democratica ma che per gli antichi romani era sostanzialmente inusitata e di evidente rottura). Infine, in maniera non illegale ma del tutto inabituale (il che in un mondo segnato dal peso sostanzialmente coattivo del mos maiorum ne sanciva la dubbia liceità) si candidò per la reiterazione del suo mandato tribunizio. Quando si muoveva per la città, sottolineavano i suoi avversari, era sempre contorniato da una frotta di centinaia di sostenitori. Il giorno delle elezioni, tenute in Campidoglio, la tensione si fece altissima. È una delle pagine più note della storia romana. Era l’estate del 133 a.C. Gli storici antichi ricordano che i lavori dei campi avevano trattenuto lontano dalle urne la massa dei piccoli contadini sostenitori di Gracco. I suoi avversari cercarono di impedire lo svolgimento dell’assemblea elettorale; il senato, riunito nel vicino Tempio della Fides, tergiversava nel prendere iniziative, data la contrarietà del console a consentire azioni repressive illegali. Intanto i graccani, aiutandosi con spinte e bastonate, riescono a occupare la piazza. In senato, allora, un gruppo, guidato ma dal pontefice massimo, comincia a urlare di metter su una squadra di armati e caricare il palco. La notizia sarebbe allora arrivata a Gracco, il quale, per avvertire i suoi sostenitori che si trovavano dall’altra parte dello spiazzale del pericolo imminente, avrebbe portato una mano alla testa, per indicare il pericolo che lo sovrastava (evidentemente una gestualità tipica dell’epoca). Ma per i suoi nemici si sarebbe trattato di una indubbia richiesta del diadema regale (da apporre, per l’appunto, sulla fronte). Possiamo dubitare sulla genuinità di questo fraintendimento, ma esso comunque, anche se fittizio, ci esemplifica come nell’ambiente aristocratico la percezione dei comportamenti politici fosse pilotata da uno schema interpretativo, diciamo pure da uno stereotipo, tirannofobico. Montatura o meno, all’urlo di morte al tiranno la banda al servizio degli antigraccani piombò sul Campidoglio e a mazzate e bastonate uccise diverse centinaia di sostenitori del tribuno, più Gracco stesso ovviamente, colpito più volte18. Un episodio, questo, da cui risalta in maniera evidente la particolare forma di tirannicidio fomentata dall’aristocrazia romana. Tiberio Gracco (e come lui, i tribuni sovversivi che lo seguirono e Spurio Melio tanto tempo prima) era stato eliminato infatti preventivamente. Le accuse che avevano portato alla loro eliminazione non erano quasi mai giuridicamente oppugnabili; riguardavano le intenzioni, una “attitudine tirannica” a volte non tradotta in fatti concretamente contestabili. Si colpiva, in un certo senso, chi si dimostrava tiranno “in potenza” 19.

La tirannofobia, come abbiamo visto nei casi di Spurio Melio e Tiberio Gracco, conduceva dritti all’esaltazione della tirannoctonia, l’assassinio del tiranno. Qualche decina d’anni dopo il massacro dei graccani presso il tempio della Fides in Campidoglio, sullo stesso colle venne collocata una copia della statua di Armodio e Aristogitone, i tirannicidi ateniesi. Non sappiamo di preciso quando essa venne installata. Ma il colle ospitava, come detto all’inizio, l’Aequimelium: si trattava dunque d’uno spazio ad alto valore simbolico, cui ben si adattava un’opera statuaria come quella20. La statua dei tirannicidi forse venne eretta accanto a quella che riproduceva con la spada sguainata l’antico Bruto (Lucio Bruto), colui che aveva cacciato il Superbo. Il peso della storia, dei suoi modelli, a Roma si faceva sentire molto. Come noto, il più giovane Bruto (Marco Bruto) fu pressato e indotto a raccogliere la spada dell’avo per compiere quello che nella storia occidentale avrebbe rappresentato il tirannicidio per eccellenza: l’uccisione di Cesare.

5.Ii tiranno fra crudeltà e clemenza

Cesare effettivamente rappresentò un’esperienza cruciale nella coscienza politica della romanità. L’oscillante ambiguità con cui il suo pur breve periodo di potere assoluto venne canonizzato nella memoria ufficiale da Augusto, definitivo affossatore della repubblica, parla chiaro. Cesare, infatti, per quanto riconosciuto capostipite della prima dinastia imperiale (che ne trasformerà l’onomastica personale in nomenclatura ufficiale) e persino divinizzato, e benché avesse notoriamente rifiutato la corona di re, non poteva però costituire un modello istituzionale di riferimento per chi, come Augusto, tentava di stabilizzare un ordinamento fondato sul rispetto formale delle istituzioni tradizionali e basato sulla collaborazione fra principe e senato. Nella narrazione che ce ne hanno lasciato le fonti antiche, soprattutto in quelle caratterizzate da un orientamento ideologico aristocratico, il predominio di Cesare al contrario assunse molti dei classici connotati della tirannide. A cominciare dall’illiceità, o quantomeno irregolarità dei poteri accumulati nelle sue mani, prima durante e dopo la guerra civile. Per non apparire superbo e accomodare formalmente la sua situazione, Cesare all’indomani della vittoria militare, era ricorso a una investitura formalmente “costituzionale”, la dittatura. In questo ispirandosi chiaramente a Silla, l’uomo che poco più di trent’anni prima, al termine della precedente, spaventosa guerra civile che aveva insanguinato l’Italia romana, aveva riesumato questa magistratura, caduta in disuso da generazioni e generazioni, contribuendo a generare nella percezione comune una osmosi fra dittatura e tirannia, nel segno della comune crudeltà21. Al contrario di Silla, che una volta decapitata l’opposizione e ultimate le riforme istituzionali aveva inaspettatamente deposto la carica, Cesare però non diede limiti temporali alla sua carica dittatoriale, prefigurando di fatto un potere monarchico che dal punto di vista dell’aristocrazia non poteva non essere percepito se non in termini di tirannia, tanto più considerandolo l’esito di una guerra civile in cui la pars che aveva sostenuto il vincitore era costituita, per così dire, da un “blocco sociale” alternativo22. Tirannica inoltre appariva la gestione del potere. Nell’ideologia aristocratica le decisioni politiche dovevano maturare in un pubblico dibattito fra senatori. Invece Cesare era palesemente disinteressato al dialogo con i padri coscritti. Questa assenza di confronto, questo voler decidere da solo o (peggio!) sotto la pressione del circolo dei suoi intimi, suonava tirannia. E poi veniva la questione del consenso. Il carattere repressivo e intimidatorio del governo di Cesare, come già decenni prima quelli di Cinna (87-84 a.C.) e Silla (82-79 a.C.), associati nella memoria collettiva al ricordo dell’esperienza drammatica e sanguinaria delle proscrizioni, veniva sottolineato dall’uso del termine dominatio, il vocabolo latino che meglio copre la sfera semantica della parola greca tyrannia23. Ma nel caso di Cesare non si trattava solo di paura. Cesare infatti, per paradosso, sarebbe caduto proprio perché il suo tentativo di recuperare o incrementare il consenso aristocratico lo aveva indotto a una strategia di clementia solo parzialmente repressiva. Clementia che peraltro negli ambienti antitirannici venne percepita come forma subdola di imbavagliamento morale, di avvilente costruzione di una disparità di posizioni che di fatto dissolveva ogni forma di confronto e dibattito in favore del semplice monologo del vincitore24.

6. La tirannia aristocratica

C’è un ultimo aspetto da affrontare. Fin qua abbiamo visto come l’aristocrazia potesse percepire in termini di tirannide (o aspirazione alla tirannide) l’operato politico dei suoi avversari (singoli, ambiziosi membri dell’élite oppure caporioni della plebe). Ma lo spettro della tirannide, per quel che siamo in grado di intuire, agitava anche i sonni degli altri attori sociali della comunità. Anzitutto, i membri delle famiglie di fascia sociale superiore costretti a rimanere al margine del potere politico. Famiglie ricche, capaci di gestire le tante comunità locali che innervavano il tessuto del domino romano, ma snobbate a Roma, dove solo molto raramente qualche homo novus riusciva ad accedere alle posizioni di comando. Questo rancore verso la nobilitas (cioè la ristretta cerchia di quelle famiglie in grado di farsi eleggere alle magistrature) si accentuò nel tempo e indusse settori significativi di questi ambienti ad appoggiare gli oppositori del regime aristocratico. Uno dei filoni della propaganda dei catilinari, ad esempio, batteva proprio su questo argomento. Insomma come per i nobiles il tiranno era un monopolizzatore dell’autorità che non consentiva la partecipazione al potere agli altri aristocratici, così per le migliaia di famiglie ricche di Roma e d’Italia i clan della nobilitas apparivano una oligarchia tirannica, indisposta a condividere il potere25. Non è che uno degli aspetti che mostrano l’inadeguatezza delle strutture politiche della vecchia città-stato con cui si pretendeva di governare con il vecchio ordinamento municipale un territorio e una popolazione superiore, per dimensioni, alla maggior parte degli stati moderni.

Resta poi la prospettiva popolare, almeno per l’idea che riusciamo a farcene. È stato notato che a differenza della ideologia aristocratica, che giustificava e anzi sobillava il tirannicidio decretando la liceità dell’uccisione preventiva dell’aspirante despota, la prassi politica della fazione opposta, quella che genericamente definiamo dei populares, insisteva sulla semplice espulsione del tiranno, sulla sua condanna all’esilio, proprio com’era successo a re Tarquinio26. Ma quel che più conta è che in questo caso nella percezione degli individui l’elemento caratterizzante la trasformazione in senso tirannico del potere non era tanto il suo accentramento nelle mani di un solo uomo; ma la sua gestione in uno stile arrogante e provocatorio, non curante dei diritti e delle esigenze concrete della plebe, ma anzi tendente a eroderne e avvilirne la libertas (intesa come difesa delle libertà materiali). È sintomatico che fosse proprio nei contesti militari, quando cioè il magistrato, il nobilis, aveva il massimo del potere (l’imperium in scenari di guerra diventava quasi inappellabile) che i plebei, i semplici cittadini in armi, pensassero di saper riconoscere l’eventuale natura tirannica del loro governante. I comandanti che avessero tenuto una condotta improntata a una eccessiva durezza, a una arroganza scoperta e a una avidità egoistica, finivano infatti per suscitare l’insofferenza e l’ostilità della truppa. La loro superbia poteva rendere lecito persino disobbedire. Come tuonava uno slogan attribuito da Livio al tribuno Canuleio, nemo dimicaturus pro superbis dominis, «nessuno si renderà disponibile a combattere per comandanti tirannici»27.

1Lexicon Topographicum Urbis Romae, vol. I, s.v. Aequimelium, Roma 1993, pp. 20-21.

2Tito Livio, Storia di Roma dalla fondazione della città, IV.13-16 e Dionigi di Alicarnasso, Antichità romane, XII.1-4.

3Si tratta di episodi sul cui reale svolgimento, nonostante l’ingente mole di studi, rimane la totale incertezza. Sulla tradizione arrivata a Dionigi e Livio poté influire anche l’esperienza del cesaricidio. Cfr. A. Valvo, Le vicende del 44 – 43 a.C. nella tradizione di Livio e di Dionigi su Spurio Melio, in M. Sordi (a cura di), Storiografia e propaganda, Milano, 1975, pp. 157-183; P. Panitschek, Sp. Cassius, Sp. Maelius, M. Manlius als exempla maiorum, «Philologus», n. 133, 1989, pp 231-245; M. Chassignet, La “construction” des aspirants à la tyrannie: Sp. Cassius, Sp. Maelius et Manlius Capitolinus, in M. Coudry – Th. Späth (a cura di), L’invention des grands hommes de la Rome antique. Actes du Colloque du Collegium Beatus Rhenanus, Paris, 2001, pp. 83-96.

4Cfr. ad es. D. Lanza, Il tiranno e il suo pubblico, Torino, 1977. Sulla tirannide greca la bibliografia è molto vasta. Segnalo, anche perché in italiano: C. Catenacci, Il tiranno e l’eroe: storia e mito nella Grecia antica, Roma, 2012; F. Canali De Rossi, La tirannide in Grecia antica – Tiranni, legislatori e giudici nella Grecia arcaica – La fine della tirannide, Roma, 2013; F. Zuolo, È possibile una tirannide stabile? La tirannide come modello politologico nella Grecia Classica, in F. de Luise (a cura di), Legittimazione del potere, autorità della legge: un dibattito antico. Trento, 2016, pp. 261-288.

5Sul concetto di libertas nella Roma repubblicana: Ch. Wirszubski , Libertas: il concetto politico di libertà a Roma tra Repubblica e Impero (con una appendice di A. Momigliano), Bari 1957; V. Arena, Libertas and the practice of politics in the late Roman Republic, Cambridge [UK], New York, 2012.

6Le origini di questa magistratura e la relazione con la omonima carica in uso presso le altre comunità latine rappresentano una questione complessa. È interessante però per il nostro discorso notare la maniera in cui gli storici greci indicavano il dictator😮 semplicemente traslitteravano la parola , oppure (come nel caso di Polibio) lo traducevano con autokrator, vocabolo utilizzato nella loro titolatura ufficiale dai “tiranni” sicelioti che si definivano strategoi autokratoi, “generali plenipotenziari”, e che in seguito costituirà la traduzione ufficiale di imperator; oppure (come fa Dionigi) per riferirsi alla dittatura usavano la parola monarchìa. Del resto il termine dictator venne usato a loro volta dai romani, anche a livello ufficiale, per designare comandanti stranieri ai loro occhi dotati di un potere autocratico: ad esempio alcuni comandanti in capo cartaginesi (non è chiaro se riferendosi ai sufeti, i magistrati annuali punici, o ai “generali”), come nella iscrizione celebrativa della vittoria di Caio Duilio (si tratta di una epigrafe restaurata in età augustea, ma riproducente la forma arcaica del testo: Corpus Inscriptionum Latinarum, vol. I.25). Resta il fatto che la tradizione storiografica aristocratica non ricordava dittatori aspiranti alla tirannide (la memoria plebea aveva un giudizio meno favorevole sulla dittatura, ma in virtù del fatto che questa magistratura era spesso utilizzata per sedare sommosse popolari). Cfr. J. Irmscher, La Dittatura. Tentativo di una storia concettuale, in G. Meloni (a cura di), Dittatura degli antichi e dittatura dei moderni, Editori riuniti, Roma, 1983, pp. 55-75.

7Indicativa dell’attenzione al limite temporale della gestione del potere è la memorizzazione demonizzante della vicenda del decemvirato, il collegio istituito nel 451 a.C. per redigere il primo corpus di leggi scritte e perciò dotato di poteri eccezionali: una storia dai tratti non sempre chiari e il cui resoconto tradizionale non è del tutto attendibile. Si trattò, almeno nel ricordo della storiografia tradizionale (Tito Livio, op. cit., III.31-58 e Dionigi di Alicarnasso, op. cit., XI.1-44), di una esperienza naufragata nella violenza, per il tentativo dei decemviri (in particolare di Appio Claudio, il patrizio arrogante per definizione) di procrastinare la durata della magistratura, con l’immancabile tentativo di stupro finito nel sangue (è la ben nota storia della giovane e bellissima Virginia, uccisa dal padre per sottrarla appunto alle grinfie di Appio Claudio).

8La più celebre e articolata rappresentazione dell’ordinamento istituzionale romano in questi termini è quella svolta da Polibio nel VI libro delle sue Storie.

9Ad es. Cicerone, La repubblica, II.27.49.

10La potestas, in ambito politico, rappresentava l’autorità di cui si era investiti dalla comunità, che solo nel caso di alcune magistrature (consolato, pretura, dittatura) comprendeva l’imperium. I tribuni avevano comunque il potere di convocare le assemblee e presentare proposte di leggi, di intervenire a favore dei singoli cittadini tratti in giudizio e di bloccare con il loro veto le iniziative di qualsiasi altro magistrato.

11J.R. Dunkle, The Greek Tyrant and Roman Political Invective of the Late Republic, «TAPA», n. 98, 1967, pp. 151-171 e Y. Baraz, Discourse of Kingship in Late Republican Invective, in N. Panou, H. Schadee (a cura di), Evil Lords. Theories and Representations of Tyranny from Antiquity to the Reinassance, Oxford, 2018, pp. 43-60.

12Cfr. Cicerone, La repubblica, I.44.68, che riprende Platone.

13Cic. In difesa di Milone, 13.35 e 28.78. I passi ciceroniani relazionati alla tirannia (riguardanti principalmente Catilina, Clodio, Cesare, Marco Antonio) sono stati selezionati da V. Sirago, “Tyrannus. Teoria e prassi antitirannica in Cicerone e suoi contemporanei”, in «Rendiconti della Accademia di Archeologia, Lettere e Belle Arti di Napoli», n.s. 36, 1956, pp. 179-225; con ulteriore analisi svolta da G. Vanotti, N. Rosso, Appunti sull’uso del termine tyrannìs (o suoi sinonimi alternativi) nelle fonti latine del I secolo a.C. (a partire da Cicerone), relazione tenuta al Seminario di studio Il lessico politico di Roma nelle fonti greche. Modalità e forme di comunicazione tenuto il 23 settembre 2019 a Uniroma3. Sulla rappresentazione dell’uccisione di Clodio da parte di Milone come una forma di tirannicidio: M. Varvaro, Legittima difesa, tirannicidio e strategia difensiva nell’orazione di Cicerone a favore di Milone, in «Annali del Seminario Giuridico dell’Università degli Studi di Palermo», n. 56, 2013, pp. 215-255 e M.J. Leorza, “Contra el tirano” y “a favor del tiranicida”. Paideía retórica y acción política en Cicerón, in «De rebus antiquis» 7, 2017, pp. 35-68.

14Su tirannia e monarchia etrusca a Roma: F. Glinister , Kingship and tyranny in archaic Rome, in S. Lewis (a cura di), Ancient tyranny, Edinburgh, 2006, pp. 16-29.

15A.W. Lintott, Violence in republican Rome, Oxford, 1968; W. Nippel, Public order in ancient Rome, Cambridge, 1995.

16È sintomatica la diffusione in età postsillana di una immagine tirannica persino di Romolo, il primo re e fondatore della città, basata proprio sulla sua propensione a circondarsi di una guardia del corpo: M. Ver Eecke, La République et le roi: le mythe de Romulus à la fin de la République romaine. De l’archéologie à l’histoire, Paris, 2008, pp. 101-192.

17F. Pina Polo, The “tyranny” of the Gracchi and the Concordia of the optimates: an ideological construct, in R. Cristofoli, A. Galimberti, F. Rohr Vio (a cura di), Costruire la memoria: uso e abuso della storia fra tarda repubblica e primo principato : Venezia, 14-15 gennaio 2016, Roma, 2017, pp. 5-33.

18Le fonti con i resoconti più dettagliati sono Plutarco, Vita di Tiberio Gracco, 17-19 e Appiano, Storia delle Guerre Civili, I,15-16.

19A. Vigourt, L’intention criminelle et son châtiment: les condamnations des aspirants à la tyrannie, in M. Coudry – Th. Späth (a cura di), op. cit., pp. 271-287.

20Su questa vicenda: F. Coarelli, Le Tyrannoctone du Capitole et la mort de Tiberius Gracchus, «Mélanges d’archéologie et d’histoire», n. 81, 1969, pp. 137-160.

21Sulle questioni relative al consolidamento dell’immagine “tirannica” di Silla (in particolare nella valutazione delle sue proscrizioni, su cui dovette gravare anche il peso delle proscrizioni successive, d’età triumvirale): U. Laffi, Il mito di Silla, «Athenaeum», n. 45, 1967, pp. 177-213; S. Lanciotti, Silla e la tipologia del tiranno nella letteratura latina repubblicana, «QS», n. 6, 1977, pp. 129-153 e n. 8, 1978, pp. 191-225; F. Hinard, La naissance du mythe de Sylla, «REL», n. 62, 1984, pp. 81-97; A. Thein, Sulla the weak tyrant, in S.Lewis (a cura di), Ancient tyranny, Edinburgh, 2006. Sul carattere del suo governo: F. Hurlet, La dictature de Sylla, monarchie ou magistrature républicaine?, Bruxelles-Roma, 1993. Sull’osmosi fra dittatura e tirannia che ne derivò anche nella percezione greca: A. Kalyvas, The Tyranny of Dictatorship. When the Greek Tyrant Met the Roman Dictator, in «Political Theory», n. 35, 2007, pp.412-442.

22La questione delle dittature di Cesare e della loro scadenza temporale è intricata e non completamente risolta, soprattutto riguardo alla titolatura e all’entrata in vigore dell’ultima, quella vitalizia. Su queste problematiche: M. Pucci Ben Zeev, When was the title «Dictator perpetuus» given to Caesar?, «L’Antiquité Classique», n. 65, 1996, pp. 251-253. Sull’immagine tirannica di Cesare: L.Morgan “Levi quidem de re …” Julius Cesar as tyrant and pedant, «Journal of Roman Studies», 87, 1997, pp. 23-40.

23La dominatio si ricollega alla sfera di poteri esercitati dal padrone (dominus) dentro casa sulla sua familia. L’instaurazione di un rapporto di questo tipo, di soggezione servile, allargato a tutta la comunità sconfina in quello che in italiano è definito nella maniera migliore dal termine dispotismo (vocabolo entrato in uso solo dall’età rinascimentale, anche se ricalcato dal greco antico). Cfr. J. Hellegouarc’h, Le vocabulaire latin des relations et des partis politiques sous la République, Paris, 1963, pp. 562-563. Nel lessico greco la parola tyrannia (o tyrannis) si alterna invece facilmente a dynasteia, “dinastia”, che ne sottolinea il carattere familiare-ereditario.

24Sui problemi relativi alla percezione della politica di clementia di Cesare da parte dei contemporanei: D. Konstan, Clemency as a Virtue, «Classical Philology», n. 100, 2005, pp. 337-346.

25Genus aliud tyrannorum è ad esempio definita la factio dei nobili dallo Scipione/Cicerone, La repubblica, II.44.

26F. Pina Polo, The Tyrant must die: Preventive Tyrannicide in Roman Political Thiught, in F. Marco Simón, F. Pina Polo, J. Remesal Rodríguez (a cura di), Repúblicas y ciudadanos: modelos de participación cívica en el mundo antiguo, Barcelona, 2006, pp.71-101.

27Tito Livio, op. cit., IV.5.6.

Rimangono fuori da questo scritto le considerazioni che si potrebbero sviluppare sull’uso anomalo del termine tyrannus nel vocabolario politico e istituzionale romano, attestato ad esempio nell’iscrizione trilingue di File, del 29 a.C., nella quale il governatore romano dell’Egitto, Cornelio Gallo, si vanta di aver posto a capo di uno stato cuscinetto fra la prima e la seconda cateratta, la cosiddetta Triakontaschene, per l’appunto un tyrannus (Corpus Inscriptionum Latinarum vol.III.14147, l.8); oppure dalla successiva evoluzione semantica che avrebbe portato in età tardoantica ad assegnare a questa parola il significato principale di semplice “usurpatore” (cfr. V. Neri, L’usurpatore come tiranno nel lessico politico della tarda antichità, in F. Paschoud, J. Szidat (a cura di), Usurpationen in der Spätantike. Akten des Kolloquiums “Staatsstreich und Staatlichkeit”, Solothurn – Bern 6. – 10. März 1996, Stuttgart, 1997, pp. 71-86).



Dottore di ricerca in Storia del Mondo Antico e cultore della materia all’Università di Roma “La Sapienza”, si occupa preferibilmente di storiografia, di storia romana tardorepubblicana e di attualizzazione dell’antico nella cultura contemporanea. Membro della “AIPH” (“Associazione Italiana di Public History”), ha una passione per la divulgazione storica. Fra i suoi scritti, tiene in particolare all’introduzione e commento alla Descrizione del mondo e delle sue genti, di Anonimo del IV sec., Salerno, Roma, 2005 e a La forza del nome. Identità politica e mobilitazione popolare nella Roma tardorepubblicana, Artemide, Roma, 2017.


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