Abstract:
Il presente articolo costituisce un’indagine sulla tirannia, condotta in tre movimenti.
Per prima cosa, l’indagine volge sul che cosa è la tirannia, sulla sua essenza, ciò che la distingue da altri fenomeni affini. Il percorso storico ed etimologico, implicato nella domanda (da Aristotele a Bartolo di Sassoferrato, da Machiavelli ad Alfieri), è inteso unicamente a rinvenire il tratto specifico della tirannia.
Il secondo momento riguarda la genesi del fenomeno, vale a dire come la tirannia arriva a costituirsi, a partire dalla cellula originaria del potere senza-misura, lì dove si innesta la lotta mortale tra le autocoscienze, nel senso di Hegel, fino alle estrene conseguenze della violenta ed instabile asimmetria di servo e padrone.
Nel terzo momento, infine, l’indagine, muovendo dal rapporto peculiare tra tirannia e democrazia, prospettato in ambito moderno da Tocqueville, approda sul territorio dell’attualità, prefigurando una tirannia tacita o nascosta, di tipo sistemico, caratterizzata da accelerazione e ricorsività, fungibilità e sostituibilità – e ciò in nome del funzionamento e della stabilizzazione del sistema stesso (Luhmann) – e di stampo capitalistico avanzato, con conseguente vanificazione di ogni dialettica concretamente liberatrice. Proprio la sua forma invisibile della tirannia rende difficile se non impossibile il suo l’abbattimento e nella parte conclusiva, l’articolo tenta di indicare il punto da cui sorge, possibile, il riavvio dialettico della libertà intesa come sforzo, costante, di liberazione.
Abstract. English
The paper is an investigation about tyranny, carried out along three stages.
The inquiry, first, is on what-is tyranny, about its essence, on what distinguishes it from other similar phenomena. The historical itinerary, involved in the question (from Aristotle to Bartolo, from Machiavelli to Alfieri, just to mention some of them) is exclusively to find the specific feature of tyranny, and, at the same time, the concern of the different thinkers that have justified tyrannicide as a right.
The second stage is about the phenomenon’s genesis, that is how tyranny gets its own concrete shape, starting from the first cell of power, where the self-consciousness fight each-others to death, by Hegel, to the final consequences of the violent and unsteady asymmetry between master and servant.
In the third and conclusive stage, the inquiry, with special attention to the relationship between Tyranny and Democracy, as theorized in modern times by Tocqueville, reach our present, in which we can guess a silent or invisible tyranny, that is a systemic tyranny, made of acceleration and recursion, fungibility and substitutability in the name of the functioning and stabilization of the System itself (Luhmann) and, on the other hand, an extreme capitalistic tyranny, with the consequent vanishing of any actually liberating dialectic. For its invisible shape, the tyranny’s overthrow is virtually impossible, but in the final part, the paper tries to show the living point for a potential re-starting dialectic of freedom as a continuing effort of freeing.
1. Che cos’è la «tirannia»
Il termine «tirannia» discende (stando al pur discusso vocabolario etimologico di Otorino Pianegiani1) dalla radice sanscrita o persiana tur (o tvar) che significa dominare, ma anche (come indica il verbo tvarate) affrettarsi da turana fretta: esso delinea uno spingersi veloce, un premere con violenza, un repentino impossessarsi, un impadronirsi con prepotenza: tara secondo la radice persiana indica signore, tura potente, pre-potente mentre trýô e trýcho significano vessare, tormentare, opprimere, angustiare (Bartolo da Sassoferrato: tyro, quoad est angustia).
Aldilà delle dispute filologiche, l’etimologia sopra delineata coglie a mio avviso alcuni segni, ben impressi, se non indelebili, che si sono stratificati nella nozione storico-concettuale del termine (che lo differenziano da altri termini affini come ad esempio regime, dittatura, dispotismo, autoritarismo, totalitarismo2).
Innanzitutto, «tirannia» non sembrerebbe derivare dal greco (minoritaria risulta la tesi secondo la quale esso deriverebbe da tyròs – cacio – e farebbe discendere il tiranno dal capo della cascina ovvero da tèiro che pur conserva il tratto temporale del premere e del pressare), restando anzi parola estranea al vocabolario omerico, probabilmente proveniente, come indicato da alcuni3, dall’Anatolia o comunque dall’area dell’Asia Minore; essa compare nella letteratura greca solo nel VII secolo per descrivere situazioni anomale di potere nelle colonie dell’Asia Minore; e ciò a designare che questa forma degenerata di potere non avesse avuto le radici – neppure logico-concettuali – in Grecia, bensì derivasse da coloro che venivano chiamati «barbari»: questi, come ebbe a sostenere Aristotele, non solo vi sarebbero stati predisposti per natura, ma l’avrebbero anche giustificata e legittimata come forma assoluta e non-elettiva, e ciò a differenza delle tirannidi pure occorse nella Grecia continentale che erano da considerarsi solo degenerazioni intollerabili ed impreviste4.
Ciò significherebbe che, come poi risulterà sempre più chiaro, la tirannia, nell’orizzonte concettuale politico, designa non una forma bensì una deformazione, appunto, vale a dire un effetto involontario, fuori controllo, del potere, interpretabile attraverso le sue patologie e i suoi sintomi.
La «tirannia», inoltre, come ancora suggerisce il suo etimo, a differenza di altri termini affini, ha a che fare con la velocità, la fretta, l’arbitrio, l’avventura del prendere e perdere il potere, il premere, l’opprimere; e con l’ineluttabilità, infine, del suo rovesciamento altrettanto repentino e violento, come indica il coevo termine di «tirannicidio».
Il tratto singolare della tirannia, dunque, sta nell’elevato dinamismo del suo concetto: quale degenerazione, essa è già riflesso di un movimento e ancor più di un mutamento qualitativo; soprattutto, essa connota l’insicurezza del potere, dovuta al fatto che, secondo la nota distinzione di Bartolo da Sassoferrato (il quale sviluppa una distinzione in realtà già aristotelica, ripresa da Tommaso e poi da Ugo de Fleury), esso si è instaurato senza alcun titolo, per usurpazione (ex defectu tituli), ovvero a seguito di un’improvvisa mutazione genetica del suo esercizio, per aver superato i limiti entro i quali poteva ritenersi legittimo, deviando così dalle finalità (il bene comune) per le quali era stato legittimamente affidato (tyrannia ex parte exercitii)5.
Proprio con riferimento alla modalità di esercitare il potere, il termine tirannia sembra indicare, dunque, specie in età moderna, più che una forma di potere in sé considerata, il limite oltre il quale il potere non può essere tollerato (si pensi ad esempio in questo senso a Locke)6, allorquando la finalità per la quale si esercita – che è la fortuna o, perfino, come ebbe ad argomentare Hobbes, la felicità del popolo7 – viene sviata dal bene comune8 riducendosi al fine personale del tiranno (così come ancora enucleato da Bartolo9) ovvero al potere fine a se stesso, allo stesso tempo, inasprendo, nella consapevolezza di non avere il consenso del popolo, la crudeltà del governare. Si tratta cioè di un eccesso di potere (anche in senso stretto così come indica la nozione di diritto amministrativo10) esemplificabile sul piano penale dall’abuso di potere e dai reati a questo affini, genericamente sussumibili, nell’opinione comune, sotto l’ambito della «corruzione».
Il limite di tollerabilità è rappresentato – sul piano formale – dal superamento delle leggi (non solo positive, ma anche, nella tradizione del giusnaturalismo, di quelle naturali), tanto da suggerire che uno dei tratti della tirannia sia quella di essere assoluta nel senso proprio del sovrano legibus solutus11.
Tuttavia, la nozione a mio avviso rileva per il fatto che il tiranno non tanto è svincolato dalle leggi, quanto piuttosto possa giocare liberamente con la loro validità o con la loro efficacia.
Sotto questo aspetto, tra le tante definizioni della tirannide spicca, a mio avviso, anche per eleganza, quella di Alfieri12: “tirannide indistintamente appellare si debbe ogni qualunque governo, in cui chi è preposto alla esecuzione delle leggi, può farle, distruggerle, infrangerle, interpretarle, impedirle, sospenderle; od anche soltanto deluderle, con sicurezza d’impunità. E quindi, o questo infrangi-legge sia ereditario, o sia elettivo; usurpatore, o legittimo; buono, o tristo; uno, o molti; a ogni modo, chiunque ha una forza effettiva, che basti a ciò fare, è tiranno; ogni società, che lo ammette, è tirannide; ogni popolo, che lo sopporta, è schiavo”13
Nel caso della tirannia, in altre parole, non si tratta propriamente del sovrano che è sciolto dal vincolo delle leggi che lui stesso impone (come in Hobbes), né del sovrano che decide sullo stato di eccezione e conduce o riconduce il caos all’ordine individuando nemici interni ed esterni per rafforzare la sua (auto)legittimazione. Nella tirannia, il poter fare e disfare le leggi, acquista un tratto di arbitrarietà, imprevedibilità, impetuosità tale, da lasciar supporre che sotto vi sia un’altra logica ed un altro motore, una sorta di sismicità propria che merita di essere indagata proprio a partire dal limite che essa andrebbe a travalicare (o per certi versi a cavalcare).
Innanzitutto, per la persistente vessazione che, pur di mantenersi, è costretta ad imporre, la tirannia, già al suo sorgere, produce all’orizzonte, come già accennato, la possibilità del suo rovesciamento, ovvero l’ipotesi del tirannicidio (nozione in questo senso inseparabile dal concetto di tirannia) vale a dire la caduta accelerata di ciò che, in modo altrettanto accelerato, si era manifestato. Non stupisce sotto questo aspetto che il tirannicidio, da incidente della storia, sia stato elevato, pur in determinati contesti, a diritto (o, perfino, in taluni casi, a dovere)14.
Come Machiavelli ricorda, in una delle sue rare citazioni di Aristotele, il tiranno, nella dismisura del suo potere, finisce per commettere violenze gratuite che sistematicamente finiscono per ritorcerglisi contro e determinare la propria rovina, come quando – prima tra le cause di rovina del tiranno – si commette violenza sulle donne altrui15. E ciò perché non può poggiare sul consenso del popolo, giacché “a uno principe è necessario avere il populo amico, altrimenti non ha nelle avversità rimedio”16.
Proprio perché non avrebbe mai il consenso del popolo amico, la tirannia gioca sulla velocità del sorgere e dello stesso governare, esercitando scorciatoie che, nella rottura sistematica del tempo comune, producono, a vario titolo, violenza.
Machiavelli utilizza in questo senso locuzioni assai dinamiche per descrivere le vicende della tirannia – dall’afferrare l’occasione17 – all’occupare lo spazio vuoto di potere – all’irruenza (irrispettosa) di conquistarlo, dal tenere con fatica, al perdere in un solo colpo, in modo rovinoso, quanto conquistato, (tracciando così una vera e propria fenomenologia sulla fragilità del potere); soprattutto egli coglie l’elemento del tempo (“il tempo si caccia innanzi ogni cosa e può condurre seco bene come male e male come bene”18) come decisivo sui rapporti di forza, di fortuna e di rovina di questo potere senza-misura19. Da qui, il senso della fretta o dell’affrettarsi nel tentativo estremo di rabberciare un potere altrimenti costantemente sospeso e conteso, sul punto d’andar perduto.
La tirannia è quindi sì potestà assolutaed accentratrice (come per Machiavelli fu il caso di Cesare o di Corso Donati20 che tentarono di concentrare ogni potere sulla propria persona, o, ancora, di Agatocle21) ma ancor più un campo di forze e di forzature che plasma la contingenza – quasi andando controcorrente – in cui il tiranno è destinato ad essere travolto dalla storia nel tentativo di cavalcarla all’impazzata, con impetuosità22, lì dove l’istinto conduce ad agire per necessità (o per disperazione)23.
In questo senso, la tirannia appare tanto forte oltre ogni misura e dunque violenta, quanto debole per via della instabilità congenita di cui sembra composta – sul punto già Savonarola ne aveva sottolineato la mutevolezza e la breve durata24. I greci avevano costantemente sottolineato la debolezza del tiranno ovvero, come intese Platone, la sua infelicità o il suo isolamento (da cui, come mostrò Senofonte era possibile guarire solo superando la propria stessa paura in vista del bene dei sudditi25).
Ed è proprio in virtù della sua fragilità che il tiranno deve suscitare paura – deve anzi poter fondare sulla paura il difetto del consenso che congenitamente accompagna l’esercizio del potere.
Di riflesso però – ed il circolo è chiaramente vizioso – la tirannia è instabile perché fonda la sua possibilità di perpetuarsi proprio sulla paura che, delle passioni, come indicò Spinoza è (assieme alla speranza) la più effimera e la più incostante26, al punto che Cartesio ebbe a dire che non era neppure una passione, quanto semmai, noi diremmo, una emozione fugace27 (e ciò, a differenza del terrore tipico invece per la Arendt del totalitarismo dotato di una strategia e di una durata). E ciò ancor più perché la paura su cui la tirannia si fonda è una paura doppia, ambigua, bilaterale: come sottolineato già da Senofonte, infatti, tanto i sudditi hanno paura dell’imprevedibilità violenta del tiranno, quanto il tiranno teme l’imprevedibilità dei suoi sudditi, poiché sa di non essere amato28.
Da questo punto di vista, la tirannia si connota come il modo più instabile del potere in quanto la sua stessa forza si fonda sull’instabilità, che è una instabilità libera da argini e confini, in cui l’imprevedibilità dell’esercizio arbitrario, frettoloso, è concentrata a mantenersi oltre ogni possibilità di adesione e meno che mai di consenso.
Questo tratto di instabilità è talmente prevalente nel concetto di tirannia da rendere secondaria – o perfino inessenziale – la questione relativa alla forma (di Stato o di governo) da cui essa sorge. Si sbaglierebbe infatti a pensare la tirannia legata alla figura solitaria (arcaica ed archetipica) oltre che autocratica del singolo tiranno, dunque di un monarca degenerato in despota assoluto. È anzi quasi indifferente al concetto di tirannia se i tiranni siano uno, pochi ovvero molti, se cioè l’origine di questa degenerazione sia la monarchia (come per Aristotele), l’aristocrazia (come nel caso dell’oligarchia dei trenta tiranni ad Atene nel 404 a.c. dopo la sconfitta nella guerra del Peloponneso) o la democrazia (come per Platone29 e per Erodoto30). In questo senso, Dante nel sesto canto del Purgatorio (vv. 124-126), come è noto, può ben denunciare “ché le città d’Italia tutte piene son di tiranni e un Marcel diventa ogne villan che parteggiando viene” perché ognuno, indipendentemente dalle qualità che possiede, potrebbe imporre la sua forza di comando31. E così Voltaire, dopo aver definito la tirannia nel suo dizionario filosofico (“si chiama «tiranno» quel sovrano che non conosce altre leggi che il suo capriccio, che ruba gli averi dei suoi sudditi e poi li arruola per andare a rubare quelli dei suoi vicini”); poi così riprendeva: “si distingue la tirannia di uno solo e quella di molti. Questa tirannia di molti sarebbe quella di un corpo che usurpasse i diritti degli altri corpi, e che esercitasse il dispotismo per mezzo delle leggi da lui corrotte”32.
La pluralità dei tiranni nel tessuto sociopolitico non indica tanto una spartizione del comando, bensì connota l’incertezza del potere, teso e conteso da più poli di forza e, al contempo, la dismisura violenta del raggio d’azione che ne scaturisce.
Effetto collaterale della timorosa (e servile) incertezza che si genera nella tirannide, è una sorta di retrocessione ad uno stato vegetativo33 ed una chiusura dell’uomo in sé stesso, in una specie di egoismo indotto dal fatto che l’unica cosa a cui poter aspirare è quella di preservare se stessi poiché tutto il resto è precario – ed è in pericolo. È ancora Alfieri, a mio avviso, ad aver lucidamente espresso tale rilievo, annotando che la tirannia attraverso la paura genera una sorta di egoismo indotto e disperato, un egoismo povero perché non si amano i propri diritti o i propri onori, bensì si ama solo il se stesso ridotto – diremmo con Foucault – alla nuda vita, la sfera base, animale, della sopravvivenza – ed è questo un egoismo che non produce nulla, ma tenta solo di conservare l’ultimo gradino dello stare al mondo34.
Anche in questo senso, gli uomini che non possono poggiare gli uni sugli altri in un sistema solidale, ma sono costretti a bilanciarsi e sbilanciarsi da sé verso se stessi, contribuiscono a conferire instabilità ai tempi in cui la tirannide si manifesta come potere, avvalorando ciò che si muove sotto e sopra di loro senza apparente criterio, se non quello di mantenere lo stato di tirannide, nella sua instabilità, il più a lungo possibile.
Per concludere, dunque, questo primo stadio di indagine, la tirannia sembra connotata nella sua essenza da instabilità, incertezza, paura bilaterale, fretta, arbitrio, dismisura, oltrepassamento degli argini, dei costumi, del comune sentire, dal bene comune, pressione e oppressione di una vita ridotta e tradotta al suo egoismo animale o ad un servilismo vegetale.
Essa quindi non è una forma di governo, ma qualcosa di informe, in quanto rompe la forma stessa – la quale, per essere forma, ha dei contorni che la definisce e la limita – per sconfinare nell’informale capriccio del tiranno o dei tiranni in conflitto tra di loro, spingendo il popolo oppresso e diviso ad un egoismo indotto e disperato, che lo lacera ancor di più, nella speranza che esso non possa rispondere o reagire, destituirlo o ucciderlo.
2. La genesi fenomenologica della tirannia: la lotta mortale per il riconoscimento
Ora però è necessario indagare la genesi del fenomeno appena descritto, la quale, a mio avviso, ben emerge in un celebre passaggio della Fenomenologia dello Spirito di Hegel35. Tale indagine va a mio avviso interpretata come fenomenologica in senso stretto, sia seguendo sul punto la suggestione interpretativa di Kojève, secondo la quale l’intento della fenomenologia di Hegel non sarebbe invero così distante da quella husserliana36, nella misura in cui Hegel avrebbe indagato la manifestazione della cosa in sé carica delle sue contraddizioni (nel manifestarsi la realtà per opposizioni conseguenti) nonché per alcune assonanze hegeliane (di derivazione anche fichtiana) rintracciabili nelle riflessioni di Husserl compiute in particolare, nella celebre Quinta Meditazione Cartesiana e mai abbandonate, come dimostrano anche gli scritti raccolti nel terzo volume dei testi Zur Phänomenologie der Intersubjektivität raccolti nel volume XV della Husserliana.
Tale passaggio, assai celebre ma che merita di essere ripercorso con attenzione, è costituito dalla lotta per il riconoscimento e il suo sconfinamento nella coppia bipolare del servo e del padrone, laddove la paura della morte (da parte del servo) e al contempo l’impulso di condurre la lotta fino al limite di perdere la vita o di uccidere l’altro (da parte del padrone) arrivano a un punto (instabile) di non ritorno.
Siamo, come è noto, nell’ambito dell’autonomia o della non-autonomia (Selbständigkeit oder Unselbeständigkeit) dell’autocoscienza37.
In primo luogo, l’autocoscienza inizia a sorgere per Hegel quando la coscienza si rivolge ad altro da sé, inteso come un oggetto esterno. Lì la coscienza si differenzia dall’oggetto e arriva ad una prima determinazione di sé (uscendo così dall’infinità indeterminata dell’Io=Io).
Tuttavia la coscienza di sé – appunto l’autocoscienza – è qui inizialmente solo una coscienza dell’io e della cosa insieme, indifferenziati, e dunque l’io non si coglie come realmente autonomo proprio per via del fatto che l’oggetto è indistinguibile dal soggetto38.
Nasce pertanto l’impulso di voler distruggere la cosa (distruggere l’autonomia dell’oggetto per conquistare la propria autonomia), vale a dire di possederla, consumarla ed eliminarla attraverso l’appagamento del desiderio. Tuttavia, in questo movimento, l’autocoscienza prende atto che il desiderio (per l’oggetto) era solo un rinvio a un desiderio ulteriore e che questo desiderio si rivela infinito, in quanto è in realtà rivolto non ad altri oggetti, bensì ad un’altra autocoscienza.
Il movimento del desiderio spinge così l’autocoscienza – che sperava di poter tornare in sé dopo essersi appagata con l’oggetto – fuori di sé. Questo fuori-di-sé, come mostra Hegel, ha un doppio significato: da una parte l’autocoscienza, ritrovandosi come altra, ha perso se stessa; tuttavia, essa, allo stesso tempo, ha rimosso l’altro nel quale unicamente si rispecchiava. Ora, dice Hegel, “è necessario che l’autocoscienza rimuova questo suo essere altro” e per farlo deve innanzitutto rimuovere l’altra autocoscienza nel tentativo di trovare la certezza di sé.
Ma questa operazione di rimozione è per forza di cose ambigua. Infatti rimuovendo l’altra essenza, l’autocoscienza rimuove allo stesso tempo se stessa, visto che essa è autocoscienza proprio in virtù del rispecchiamento nell’altro ed anzi sorge – ambiguamente – nella confusione del sé e dell’altro (confusione dell’autonomia imperfetta delle coscienze rispecchiantesi tra di loro): rimuovendo il proprio esser-altro, viene rimosso, allo stesso tempo, l’estraneo essere-sé. Così, scrive Hegel: “questa ambigua rimozione dell’ambiguo essere-altro, è un ritorno anch’esso ambiguo dell’autocoscienza entro se stessa”39
L’autocoscienza si ritrova nella sua duplicazione: come coscienza di sé in quanto altra e coscienza dell’altro-da-sé come propria.
L’unico movimento che potrebbe per così dire liberare le autocoscienze, rivelarle a se stesse come autonome facendole pervenire così anche alla certezza di se stesse, sarebbe costituito dal reciproco riconoscimento dell’una e dell’altra: vale a dire passare per l’altro-da-sé riconoscendo nell’altrui autonomia la stessa autonomia di sé, che l’altro – allo stesso tempo – riconosce; ed è questo già un motivo che si ritrova delineato in Fichte40. Detto altrimenti, l’autocoscienza è autonoma solo in quanto lo è per un’altra autocoscienza, vale a dire solo quando è riconosciuta come tale.
Ora, il riconoscimento è essenziale in quanto l’autocoscienza non è determinata41 e può determinarsi solo convertendo la duplicazione (il fatto che ve ne sia un’altra) in riconoscimento.
Il movimento del riconoscimento è intrecciato, vale a dire, è reciproco tra le due autocoscienze, ma, come è noto, per Hegel, tale reciprocità, invece di risolversi in modo pacifico, conduce ad una lotta mortale. Come scrive egli stesso “la necessità di questa lotta risiede nel fatto che ciascuna autocoscienza deve elevare a verità, nell’altra e in se stessa, la propria certezza di essere per sé”e la lotta è mortalegiacché “l’individuo che non ha messo a rischio la propria vita potrà pure essere riconosciuto come persona, ma non avrà mai raggiunto la verità di questo riconoscimento”. Il passaggio dunque necessario sta nel rischio della propria vita e nel desiderio della morte dell’altro.
Il conflitto delle autocoscienze, produce uno svuotamento del medio (l’autocoscienza nella sua ambiguità, vale a dire nel suo doppio senso di essere sé e altra-da-sé) a favore degli estremi contrapposti ed in lotta tra di loro.
La morte di uno dei due contendenti conduce l’autocoscienza – è evidente – in un vicolo cieco, giacché essa perderebbe definitivamente la possibilità di essere riconosciuta.
Ma anche la sottomissione di una delle due autocoscienze che riconosce (solo per paura della morte) l’altra come vittoriosa, avviando la dialettica del servo e del padrone, conduce ugualmente ad un vicolo cieco perché il riconoscimento del servo, depotenziato della sua libertà di riconoscere e costretto con la forza a dover riconoscere, non restituisce l’autonomia neppure al padrone42.
Il momento rilevante da cui sorge a mio avviso il fenomeno originario della tirannia è determinato, non solo dalla forzatura del limite (essere disposti a perdere la vita e a infliggere la morte) ma, ancor più, dalla paura che il padrone ha dell’assenza verticale della libertà che credeva di aver raggiunto e che invece vede sorgere gradualmente nel servo, che pure sembrava sconfitto.
Il servo infatti nel momento in cui ha paura del padrone, acquisisce il proprio limite ma anche la propria saggezza, giacché si rende disponibile a lavorare, cioè a trasformare l’oggetto non per sé, ma per il padrone. Proprio perché egli perde la disponibilità ed il possesso dell’oggetto lavorato per il signore, egli si affranca dall’alienazione dell’oggetto stesso, avviandosi a recuperare la propria soggettività, pur se dipendente dal signore, attraverso il lavoro (scrive Hegel: “nel lavoro dunque in cui essa sembrava essere solo un senso estraneo, la coscienza ritrova sé mediante se stessa e diviene senso proprio”43). L’essere spogliato dell’oggetto, sotto questo profilo, avvicina il servo alla consapevolezza di sé, mentre il padrone accusa la dipendenza che ha dell’oggetto e dal servo – ridotto anch’esso ad oggetto, a mero strumento – che lo lavora per lui. Certo, il servo ha una forma di libertà ancora confinata dalla sua stessa servitù, mediata dal lavoro, dalla paura, dalla disciplina e dall’obbedienza – per cui, scrive Hegel, la sua libertà è solo ostinazione – ma il padrone, ancor di più, che “si rapporta mediatamente alla cosa attraverso il servo”44 ottiene il riconoscimento da un’autocoscienza ritenuta inessenziale. Il riconoscimento è vale a dire unilaterale e disuguale ed al signore non rimane altro che la potenza assoluta e vuota: la verità dell’autonomia della propria coscienza è l’oggetto che ottiene dal servo; dunque: la verità della propria autonomia è in realtà la coscienza servile che, affrancandosi, ha lavorato l’oggetto.
Ciò produce di per sé una disuguaglianza tale da condurre all’instabilità. La paura del padrone è data proprio dal vuoto del medio, su cui il reciproco si sarebbe innestato, dal fatto cioè di essere costretto e compresso nella propria estremità, tanto più incomunicabile, tanto più lo è la propria autonomia dipendente – in modo inconfessabile – dalla superiore (ancorché insufficiente) autonomia del servo, parzialmente liberato attraverso il lavoro, dall’oggettività in cui egli invece rimane incagliato.
Qui infatti il padrone prende atto che né l’oggetto né il servo possono restituirgli il potere e l’autonomia del proprio sé. La tirannia sta in questo insistere nel vicolo cieco premendo con violenza sull’ostinazione del servo in un cattivo infinito – altamente instabile45 – nell’illusione che, accelerando il momento dialettico (e saltando il passaggio decisivo della reciprocità), si possa essere liberi.
Anche Husserl46 mostra l’interdipendenza fenomenologica profonda di ego e alter-ego. Nel caso di Husserl – che applica un’epoché di secondo grado per arrivare a costituire, a partire dalla corporeità vivente, il fenomeno dell’intersoggettività, al posto del riconoscimento compare la nozione di empatia, l’Einfühlung (rivificata e trasfigurata dalla tradizione di pensiero precedente), vale a dire la reversibilità delle prospettive, l’appaiamento originale, ovvero l’analogia trascendentale dell’io e dell’altro (e potremmo dire: il declinarsi della dialettica in analettica – secondo almeno un grado della costituzione)47. Ma anche in quel caso se l’epoché (che è atto radicale) non viene posta e dunque l’intersoggettività, attraverso il movimento dell’empatia, non si costituisce, ricadendo nell’atteggiamento psicologico-naturale, è chiaro che il senso di auto-estraniamento (che costituisce solo un passaggio preliminare della costituzione) non farebbe altro che scivolare in alienazione e dunque in puro rapporto di forza tra soggetti empirici (e non trascendentali) e dunque cioè, già solo dal punto di vista teoretico, lontani dal poter essere liberi.
Ecco che il cammino verso la libertà singolare-e-plurale (giacché inscindibilmente compromesse) è geneticamente minato dalla possibilità di una rottura che impone il dominio assoluto dell’uno sull’altro, tanto instabile, quanto potente deve apparire la sua forza auto-costitutiva.
La morte (come soluzione finale) è la tendenza e la latenza che muove la lotta per l’estremo limite – sconosciuto e impossibile – della libertà come alterità del desiderio.
Come ha sottolineato Kojève nel suo commentario a Hegel, la lotta, sospinta fino alla morte, non nasce da necessità naturali, dalla fame o dalla sete, cioè da un bisogno animale, ma da una mancanza ben più radicale ed ineffabile, che è lo specifico dell’essere umano, dalla paura di non essere riconosciuto, di non avere prestigio, di vivere-e-morire senza riscontri, senza la prova di essere fine-in-sé (e non un mezzo), di non essere autonomo, libero, di non avere soggettività, di essere un replicante asservito alla natura.
Ecco perché superare la paura della morte (e dunque del tirannicidio) è un passaggio necessario – ancorché non sufficiente – per smuovere la dialettica; ma il superamento della paura della morte è destinato a ribaltarsi nella morte stessa di ciò per cui era stata superata la paura, così ingenerando un terrore perfino più grande, quale è quello che il tiranno è disposto ad infondere ai suoi sudditi nel tentativo estremo di ottenere quello che non si può ottenere, vale a dire la libertà dell’altro al posto della propria, ovvero la propria libertà in quanto sostenuta ed informata da quella dell’altro, vale a dire il medio indisponibile ad ogni potere. Infatti il signore vuole impossessarsi della libertà dell’altro scambiandola per la propria stessa libertà, il che è impossibile perché la libertà, a differenza della proprietà, non è trasferibile e, ancor di più, perché la libertà è un negativo, anzi, per certi versi, il negativo – e la morte oltre la quale il desiderio si è spinto è l’unica manifestazione che ne resta48.
Hegel sottolinea l’aspetto tragico di questo passaggio. Il fatto che il riconoscimento non sia un bisogno essenziale – diremmo noi – e non corrisponda ad una necessità immediata, non fa che acuire la tragicità di tale percorso, anziché attenuarla, in quanto l’autocoscienza trova nell’onore e nel prestigio della propria libertà un motivo di superamento della propria condizione animale (del semplice appetito), ma così facendo si affida al movimento – tutt’altro che pacifico – del proprio desiderio e del desiderio-di-desiderio, il quale, non potendo essere soddisfatto (in quanto posto su un terreno infinito o non-determinato nella sua oggettività: l’altra autocoscienza) impone – a maggior ragione – una accelerazione fino al limite della morte. La tirannia dell’autocoscienza è pertanto doppia, su di sé e sull’altro, in quanto l’autonomia è il prezzo della morte, è il suo equivalente; giacché il servo che accetta di sottomettersi per paura della morte, non fa altro che restituire la morte stessa al posto del desiderio di riconoscimento. Ciò non perché il desiderio di riconoscimento sia arrivato a un punto pacificato, al contrario, in quanto esso è giunto a un punto morto; il riconoscimento è anzi esso stesso un riconoscimento morto, che apoditticamente afferma la certezza dell’autocoscienza, senza in nessun modo costituirla né contribuire a manifestarla49.
A mio avviso, la tirannia, che va a designare l’eccesso che rende instabili e deteriorate le forme di dominio o di governo (siano esse monarchia, aristocrazia o democrazia), ottenuto per semplificazione del metodo di comando e annichilimento del medio (e della mediazione che esso offre come spazio logico/ontologico), nasce dal meccanismo che Hegel per primo, scavando sotto alle paure riflessive di Machiavelli e poi di Hobbes50, ha mostrato fornendo spunti tanto per la teoria politica che per la psicanalisi, laddove ad esempio Lacan – non a caso studente dei seminari di Kojéve su Hegel tenuti dal 1933 al 1939 all’École pratique des Hautes Études – secondo cui tale rapporto di rovesciamento immaginario e simbolico della vita e della morte tra il servo e il padrone, costituisse la cellula protopolitica dell’aggressività e delle sue patologie51.
Vi è un parallelo stretto tra il livello interiore dell’autocoscienza (e della ragione) e quello politico, che si situa nell’impossibilità di ricostruire il medio e allo stesso tempo nell’impossibilità di elevare ad universale quello che resta bilaterale (ambiguo nel significato proprio di doppia lateralità o di doppio senso) pronto a scindersi a sua volta in unilateralità in lotta mortale con altri e con sé allo stesso tempo. La fretta di appropriarsi di una libertà apparentemente a portata di mano, di divenire auto-sussistente (quasi una auto-soggettività o una soggettività auto-poietica o autoponentesi) e assolutamente (nel senso di sciolto dai vincoli) autonomo, conduce direttamente al tentativo di eliminare l’altro ovvero di asservirlo senza ritorno.
Gli estremi formano così una giostra bilateralmente instabile, suscettibile di rompersi alle rotazioni della storia, asservita all’asse (medio) che era stato forzatamente rimosso, con l’autonomia presto rovesciata in anomia, vale a dire in una assolutezza (in un esser-sciolto-dalle-leggi) che equivale ad un’assenza di leggi (leggi assenti o che anche qualora ci fossero sono in ritardo rispetto ai fatti e dalle regole sociali con cui si vanno a confondere). Da qui si comprende ancora di più che il tirannicidio si legittima da sé ed è coessenziale al concetto di tirannia in quanto fa parte della stessa anomia cui la tirannia soggiace (essendone una sua per così dire accelerata manifestazione ed il tiranno un suo audace interprete eversivo).
Ciò significa anche che il tiranno è anche una figura tragica, che si presta – nella sua intemperanza, nella sua esposizione al rischio, nella violenza perpetrata e nel terrore che ne segue – alla tragedia, la quale è anche quella di decidere sullo stato di eccezione, ma ancor più sullo stato di eccezione che lui stesso ha posto e ha rappresentato come tale – imponendolo ad una popolazione asservita.
3. La tirannia nascosta: ovvero dalla tirannide della maggioranza alla tirannia sistemica
Dopo aver interrogato la specificità della tirannia e la sua genesi fenomenologica, occorre a mio avviso indagare qui la sua manifestazione nella nostra attualità, lì dove sembrerebbe apparentemente non sussistere: e, dunque, non nelle avventure totalitarie che pur hanno funestato l’Europa nel secolo scorso, bensì nelle democrazie, lì dove la lotta per il riconoscimento traslata in lotta per il potere, nella spinta ad accentuare la disuguaglianza economica sotto la copertura dell’uguaglianza dei diritti, produce, specialmente nelle forme corrotte, sintomi di oppressione, di paura e asservimento.
Già Platone ne La Repubblica, dopo essersi domandato; “quale è il carattere della tirannide?” aveva risposto: “è pressoché chiaro che risulta da una trasformazione della democrazia”52 (e Polibio, come è noto, utilizzò in seguito la nozione di oclocrazia per delineare la degenerazione tirannica della democrazia53).
Attualmente, a mio avviso, la democrazia ha subito una torsione, per la quale, da una parte la sovranità popolare si è scissa in fazioni configgenti (e, in questo modo, come scrisse Rousseau “il grande Stato si dissolve, e se ne forma un altro dentro a quello, composto soltanto dai membri del governo, che per il resto del popolo non è altro ormai che il suo padrone e il suo tiranno”54) lacerandosi in deroghe ed eccezioni e disperdendosi lungo cortocircuiti procedurali; dall’altra, è divenuta per così dire astratta (ancor più che assoluta) in quanto scissa o separata dal suo elemento costitutivo che di fatto rimane ineffabile, complesso e, per più di un profilo, sommerso.
Già Tocqueville aveva avvertito che con l’avvento della democrazia la questione della tirannia non era affatto risolta, ma andava ridiscussa nelle perturbazioni della maggioranza (che non a caso Rousseau teneva a distinguere dalla volontà generale55), parlando apertamente, come è noto, di tyrannie de la majorité non solo quando la maggioranza, determinando le leggi, costringeva il governo a dare esecuzione alle proprie più o meno fragili opinioni – mosse da passioni altrettanto volubili – ma soprattutto contestando il modo in cui, non la maggioranza in sé, bensì la rappresentazione della maggioranza, gestita e manipolata dell’opinione pubblica, poteva direttamente incidere sul potere concretamente esercitato, servendosi altresì di figure dispotiche paternaliste (come il concetto di patria e la funzione del Presidente). La tirannia, così così da trasfigurata come conformismo (normatività della normalità espressa dall’idea di maggioranza), sottraendo all’individuo ogni desiderio di partecipare attivamente agli affari politici, lo rinchiude egoisticamente nella ristretta cerchia intima, confinando e spegnendo la sua inclinazione alla libertà nella “caccia ai piaceri privati” la quale non fa che allontanarlo ancor di più dalla sfera pubblica56.
In questo senso, a me pare, affiora lo spettro di una democrazia ridotta a una rappresentazione (o simulazione) della volontà generale, attraverso un’opinione pubblica che affiora e si inabissa al ritmo delle sue più o meno manipolate apparizioni, astratta e separata dalla storia dei cives a loro volta manipolati e premuti nel loro egoismo, infine svuotati del loro elemento attivo, della Ich-Aktivität o della Selbst-Tätigkeit, del loro saper iniziare, ovvero della loro forza costitutiva o costituente, dell’urto dialettico e della loro autonomia.
Inoltre, la moltiplicazione dei luoghi del potere, la loro invisibilità, il loro trasversalismo, l’incidenza opaca e le deformazioni della logica procedimentale (e la stessa proceduralizzazione anestetizzante del diritto), fanno sì che l’esercizio del potere non sia facilmente localizzabile, ma sia solo il risultato già di per sé distorto – e deviato rispetto al bene comune – del suo operare. La tirannia allora sarebbe velata e tacita ed altresì difficile da individuare, nei suoi punti nevralgici (descrivibile solo dai suoi sintomi postumi) e meno che mai suscettibile di essere abbattuta.
Sul punto soccorre un’altra distinzione che Bartolo Sassoferrato aveva – pur in diverso ambito – posto: vale a dire, la distinzione tra il tiranno apertus et manifestus e il tiranno velatus et tacitus57, cioè mascherato con un titolo falso o artatamente riduttivo (De Tyranno, quaestio XII; Trattato, cit., 114); ma qui non si tratta tanto e solo di una tirannia esercitata per interposta persona o per vie indirette, quanto di una circolazione di elementi (dai mass media, ai poteri costituiti o istituiti, a quelli operativi, alle indefinite fazioni in lotta) che di fatto dissimula il luogo dal quale la tirannia sorge o prende forma ovvero i percorsi attraverso cui – anonimamente (anomicamente) e almeno in apparenza democraticamente – si realizza58.
Con il tramonto (o il rinvio? ovvero la reductio ad unum?) delle ideologie, l’ultima individuazione, se vogliamo, della tirannia tacita è stata quella del Capitale, la quale operava , quasi come una legge naturale, potremmo dire una metanorma o perfino di una Grundnorm economica, dell’intero assetto politico, sociale e normativo, essendo la legge di natura stessa, come sottolineato da Marx e criticamente ripreso da Adorno, non altro che la mistificazione della legge di accumulazione capitalistica, in modo tale che essa apparisse come inevitabile e immediatamente cogente, dati i rapporti di dominanza, espansione e sfruttamento59.
Anche il Capitale – destinato a compiere rotazione sempre più veloci – e poi a obliarsi in accumulazioni remote, è un tiranno, non solo velato o tacito, ma anche dinamico, ineffabile (svincolato non solo dalle leggi ma per più di un verso dal concetto stesso di sovranità60) e, in apparenza potenzialmente, alla portata di tutti, democratico pur nella disuguaglianza dei punti di partenza, capace di generare pressione e oppressione costante e di mostrarsi – nella conflittuale complessità sistemica – altamente instabile.
L’intuizione di Marx di pensare l’economia capitalistica quale forma di governo effettiva dominante non è superata – quanto semmai si è ulteriormente radicalizzata – laddove questa, in assenza di alternative – e dunque nella rigidità del suo porsi in modo anticiclico ed anelastico rispetto all’alternanza delle forme di governo (nel senso ad esempio di Aristotele o di Polibio) e della loro degenerazione – ha cercato e trovato solo vie di accelerazione e di fuga (come nel caso del capitalismo finanziario e nella volatilizzazione dei capitali off-shore)61.
Certamente la soggettività del Capitale – come tiranno velato ed ineffabile che compie ogni volta il circuito della sua rotazione e della sua accumulazione – costringe il servo ad accumulare di riflesso debiti assumendoli su di sé, nella ostinazione, di volersi ad ogni costo emancipare nel lavoro. Tuttavia, come ha acutamente discusso Finelli, interpretando il vero salto compiuto da Marx in Das Kapital, il capitalismo ha compiuto anche il rovesciamento definitivo del concreto in astratto, essendo il capitale un soggetto che produce astrazione reale (tanto del lavoro che delle condizioni materiali fino alla soggettività stessa, impoverita e chiamata a doversi, sia in senso orizzontale che verticale, ricostituire)62.
La mano invisibile dell’economia capitalista – cui tanto faceva affidamento Adam Smith – è la stessa che accumula, nasconde (rendendo a sua volta invisibile ciò che è più concreto anche la nostra corporeità emotiva) e preme, con forza, in modo accelerato – e dunque opprime, al di qua o al di là, di ogni ipotesi di sovranità63.
Possiamo aggiungere che tale rovesciamento è sempre nel senso di rendere non individuabile la fonte del potere, i suoi percorsi, i suoi procedimenti, e risulta essere stato completato, in una fedele descrizione, dalla logica dapprima dello strutturalismo funzionale di Parsons e poi dalla logica sistemica di Luhmann.
Anche la paura, che, come aveva già avvertito Camus all’indomani del secondo dopoguerra, è ormai diventata una scienza, o quantomeno una tecnica che impedisce ogni forma di riflessione – meno che mai di riflessione collettiva – non fa altro che distogliere e nascondere – senza neppure lasciare individuare la fonte dalla quale essa sorge (e pertanto ingenerando angoscia) – di fatto bloccando ogni anelito di rivolta e così sospendendo il futuro64. Ma dato che, come avvertì ancora Camus, un’umanità senza futuro (che non ha dunque nulla da perdere), a sua volta, fa paura, il potere tende a proteggersi ingenerando paure ancor maggiori65, in modo da ottenere forzosamente il riconoscimento dai suoi sottoposti; ovvero, come accade nella società complessa, esso evapora e diventa funzione – si identifica cioè con il funzionamento stesso del sistema, sostanzialmente avvertendo: se attaccate me attaccate l’idea stessa del funzionamento nel quale siete ricompresi.
Certamente la paura – a vario titolo – dell’alterità (e la conseguente incentivazione della logica immunitaria) opera nel senso di una stasi dell’autocoscienza, nella sua scissione rigida ed infine nella sua regressione a coscienza che desidera l’appagamento dell’oggetto, senza neppure aspirare ad essere riconosciuta. L’asservimento vale a dire opera a livello preventivo edulcorando la lotta, rendendola impalpabile e già conformata nel suo vicolo cieco – o lasciandola esplodere come violenza episodica, isolata e pur nella drammaticità, in senso hegeliano, astratta. Anche la lotta è spesso occultata o sottesa.
Sotto questo aspetto, anche il confronto tra i valori, come ha mostrato lucidamente la metacritica di Schmitt66 è, in realtà, un conflitto che ricalca la lotta mortale per il riconoscimento senza però rivelarla (ogni punto di vista è in realtà un punto di attacco67), ma anzi tenendolo nascosto, così come viene nascosta l’origine di matrice economica del termine (e la deriva della tirannia dei valori che in realtà finiscono per “fomentare ed inasprire l’antica, perdurante lotta delle convinzioni e degli interessi”68).
Detto altrimenti, nelle proporzioni della teoria di Luhmann, il sistema – attraverso la stabilizzazione delle aspettative operata dal diritto69 – non fa altro che tradurre i pericoli in rischi, esorcizzando la paura con l’individuazione di rischi, calcolabili e gestibili attraverso la logica propria del diritto assicurativo70. Ma le aspettative che il diritto deve stabilizzare sono appunto solo quelle del sistema71 (non certo del singolo individuo72 che pur di riflesso, più o meno passivamente, vi partecipa) e sono intese autoreferenzialmente solo ad assicurare il funzionamento del sistema stesso, stabilizzando il futuro ed evitando così la disfunzione che può essere generata dalle aspettative deluse (evitando, in sostanza, evitando l’incontrollabilità della contingenza).
Dalla prospettiva degli individui, invece (e del loro sistema psichico), vi è, per tornare all’elemento del tempo, una accelerazione permanente e ricorsiva, dove l’instabilità stessa (e la precarietà delle condizioni affettive e materiali) è la regola che preforma il dinamismo (elastico, flessibile) sociale (sul modello delle transazioni economico-finanziarie), preforma le comunicazioni, la fretta, l’effimero73, l’arte e gli affetti più profondi, attraverso codici di funzionamento rispetto ai quali ogni deviazione equivale appunto ad una disfunzione.
Le operazioni (non più azioni) si agganciano le une alle altre freneticamente con il suo solo criterio immanente del loro successo, cioè della loro rispondenza alla funzione transitando attraverso gli individui che vi si conformano e ne vengono espulsi. Luhmann sul punto è lapidario: “la libertà di condotta viene limitata in anticipo, se non di fatto, di certo a livello delle aspettative. Sono a priori pregiudicati quelli che – per qualunque motivo personale, situazionale o oggettivo – deciderebbero disattendere le aspettative. Il diritto discrimina. Decide per l’uno e contro l’altro – e questo in previsione di un futuro non ancora determinato in tutti i suoi particolari”74.
Ciò significa che il sistema diritto non può far altro che assecondare e sostenere autoreferenzialmente se stesso e la logica economica del Capitale, lasciando intendere che ogni tentativo di regolamentare controfattualmente tali processi, condurrebbe a sua volta all’espulsione della regola (della sua efficacia) e dunque all’anomia, intesa, quindi, come ho messo in luce altrove richiamandomi alla nozione moderna del termine75, non solo e non tanto, quale assenza di previsioni normative (che vengono anzi moltiplicate) quanto una disarticolazione funzionale tra norme e fatti, tra lenti (e spesso goffi) tentativi di regolamentazione e la velocità delle funzioni economico-sociali76. La mobilità del linguaggio e delle immagini tende a obliterare i rapporti reali, attraverso la moltiplicazione impropria di regole sopra la crescente divaricazione delle condizioni economiche. L’anomia consiste proprio in questa disperata comunicazione di regole sopra l’incomunicabilità tra norme e fatti, tra la pretesa efficacia del diritto e la sfuggente liquidità del mondo.
In questo c’è una normatività logico-linguistica che presiede il preformarsi delle comunicazioni a cui si aggiunge una normatività del sistema giuridico, idoneo a stabilizzare aspettative che, solo per il sistema stesso, è bene che non vadano deluse: tentando così di prenotare il futuro77, oltre ad una colonizzazione dell’agire attraverso l’indiretto controllo tecnologico del capitalismo digitale78.
Da una parte allora abbiamo una accelerazione costante – una instabilità che è diventata regola – e dall’altra una preformazione del futuro – per tradurlo in presente nella ricorsività dei momenti che si susseguono gli uni giustapponendosi freneticamente agli altri.
La tirannia, in questo senso, si presenta come una forzatura (sistemica) del tempo, dettata dal sottofondo della paura: dettatura dell’azione e della comunicazione costantemente indotte, che costituisce una degenerazione del potere in sé diffuso e confuso con il ritmo artatamente accelerato, con l’urgenza permanente e la crisi che impone misure di salvataggio continue – ovvero la stabilizzazione delle aspettative del sistema stesso nella sospensione del futuro, nel suo rinvio, o, che è lo stesso, nella sua riduzione a presente contingente. Si tratta insomma di una forma di instabilità programmata, di crisi semovente, di scenario indotto e sempre – apparentemente – cangiante.
In tale scenario, il potere (così come il capitale) scorre, circola, ruota e si costituisce a velocità tali da impedire una sua visibilità e – in più di un senso – una sua verificabilità. Come avvertì Kojève, “è proprio questa la più grande disgrazia della tirannide: non ce ne si può disfare. Il tiranno ha sempre un’urgenza, affari correnti da sbrigare”79
L’instabilità è diventata regola: ciò significa che il concetto di tirannia è diventato elastico, asettico (ma non avalutativo) nel riuscire a permeare il potere (politico) per il potere (economico) passando attraverso la regolamentazione e deregolamentazione (semi)arbitraria del medio che non media più ma cerca solo di assolvere una funzione compensativa, distributiva e redistributiva nei limiti di ciò che residua dal travalicamento costante del limite stesso assunto quale funzione.
La tirannia qui non si esprime solo come oppressione della libertà, ma per il fatto di riuscire a plasmare (innestandosi sulla sua genesi) la libertà stessa trasfigurandola in libertà passiva (e dunque effimera o apparente), una libertà che si declina nel consumare (distruggere oggetti in serie), nell’essere-spettatore e nel combinare azioni o comunicazioni già preformate, creando quell’effetto di ridondanza della contingenza e quella comunicazione che comunica solo se stessa di cui Luhmann ha insistentemente teorizzato80, un agire comunicativo che è solo comunicazione senza comunità (vale a dire senza, ancor prima, quella comunità con se stessi – Gemeinschaft mit mir – di cui parla Husserl da cui emerge la comunità dei più alti gradi) e di una logica comunitaria sovvertita e sterilizzata dalla logica immunitaria dei sistemi, senza poter più avere accesso dialettico all’autonomia dell’autocoscienza per essere immessi in un circuito di astrazioni (tecnologiche, digitali) che sono il correlato della circolazione impropria del capitale81.
Dunque una libertà sradicata – e meno che mai propria – un fantasma di libertà che si aggira ed appare solo per – legittimare – per compensazione – la degenerazione del potere indicando un modello che si basa unicamente sul successo delle operazioni sistemiche, dunque sulla conformità alla norma non scritta, ma vigente ed efficace, riassumibile nel codice di funzionamento autoalimentantesi della società sistemica (che è a mio avviso dunque solo la pars meccanica e autocratica della società capitalistica, continuamente variata o emendata, in modo elastico, dalla contingenza dei sottosistemi, come il sistema del diritto o quello dell’arte o perfino quello dell’amore – ridotto, o promosso, anch’esso a funzione sociale).
Se vogliamo, la scienza che più si è evoluta è quella di proteggere lo stesso tiranno dagli effetti potenziali di reazione e cioè dall’ipotesi di tirannicidio – non solo attraverso il controllo militarizzato dei territori – ma soprattutto nel nascondersi e mescolarsi, fino a non poter essere più individuato, nascondendo altresì i sintomi della tirannia stessa per camuffarli nella società dello spettacolo, divenuta spettacolo essa stessa, che autopoieticamente ed autoreferenzialmente si evolve nella ripetizione di se stessa.
Pur costituendo pertanto sforzo meritorio, il pensiero non può soffermarsi alle esemplificazioni storiche in cui la tirannia si esprimerebbe con maggiore evidenza per la crudeltà perpetrata, ma deve scavare sugli effetti tirannici di una degenerazione in atto, tanto più tirannica quanto più si scorge solo la possibilità di un suo temperamento, ma non di un suo superamento, imponendo agli individui che abbiano raggiunto una qualche forma di saggezza, come suggerì Strauss nel suo commento al Gerone 82 (in risposta a quello di Kojève83), di ritirarsi nel proprio isolamento, riecheggiando quel monito già di Eraclito di vivere nascosto (pareggiando così i conti con il tiranno a sua volta velato), giacché la comunità è solo la comunicazione sospesa tra i momenti di ripetizione – e autoalimentazione – del potere).
La paura, l’instabilità, la fragilità del consenso (l’accettazione del potere altrui per paura della morte o della non-sopravvivenza), aggiungiamo – quale effetto – l’egoismo povero di cui parlava Alfieri, l’efferatezza del potere stesso che sa di poter contare sulla paura e non sul consenso, la superfetazione degli estremi dialettici al punto da impedire la dialettica stessa e meno che mai la rotazione delle prospettive nel senso profondo dell’analogia husserliana, una sorta di asimmetria bipolare e asintotica tra il dominio assoluto – perché sciolto da impedimenti che ne medierebbero l’esercizio riconfigurando il fine del potere quale bene comune – e la trasfigurazione di una libertà ridotta ad ostinazione comunicativa, che lavora incessantemente alla trasformazione di oggettualità sempre più astratte ed immateriali, nel tentativo disperato di emanciparsi: sono questi i sintomi di una tirannia che opera (in senso nuovo) come stabilità dell’instabilità o forse come sistema dell’instabilità, metodo, tecnica o perfino scienza, di saper accelerare pur nella ripetizione, forzando il tempo comune fino a liquidarlo in una serie di eventi senza storia.
In tutto questo c’è da chiedersi quali forme di resistenza (o di capacità – anche latente – tirannicida) è rimasta al soggetto (o a quel che residua del soggetto in qualunque modo lo si intenda). In primo luogo vi è da chiedersi: esiste un soggetto umano – capace con il suo sforzo – di avere un impatto controfattuale, asistemico (senza essere relegato nella disfunzione della patologia), ovvero libero (nel senso di Kant ma soprattutto di Fichte quale iniziatore di una serie causale e dunque di condizionare la natura oggi inclusa, assorbita e ritradotta anch’essa come società)?
La lezione di Hegel è quella intesa ad essere consapevoli degli esiti tragici dei rapporti di forza che rompendo la reciprocità e scadendo l’universale in bilateralità conflittuale finiscono per vanificare l’ipotesi della vicendevole libertà, costretta invece ad oscillare unicamente tra la condizione del servo e il desiderio di diventar padrone, senza possibilità di uscita e di superamento.
Inoltre, nella radicalizzazione di quell’atteggiamento poetico, come lo definì lo stesso Husserl in una lettera a Rilke, che consiste nella sospensione del giudizio sul mondo che si vorrebbe già pregiudicato e compromesso, scontato e preformato (sospensione di quel giudizio che paralizza e pregiudica ogni intendimento rendendolo ingenuo o addomesticato), per avviare un approccio teoretico-trascendentale costitutivo, proprio a partire dalla costituzione del tempo, come tempo interiore o tempo della coscienza interna, contro-fluente rispetto al tempo imposto, vale a dire al tempo del lavoro astratto che coinvolge tutto, anche il tempo cosiddetto libero84, ed impedisce, tra paura ed asservimento, come avvertì Camus, ogni riflessione e, ancor più, la costituzione di quella intersoggettività – a sua volta costituente – che ha il mondo, il correlato-intenzionale-per-ciascuno fino a diventare Lebenswelt e l’essere una sfera della (continua) ricostruzione comune.
Ma le intuizioni di Husserl vanno proseguite e radicalizzate nel contesto contemporaneo, sfruttando, a mio avviso, anche il sapere che nei secoli ha alimentato lo sforzo (teoretico e pratico insieme) del diritto e di quel pensiero filosofico che ha tentato di riconfigurarlo o perfino di dedurlo (come nel caso di Fichte) come forza di previsione e direzione, senza poter tralasciare la pre-potenza del Capitale, che dall’accumulazione originaria, tende freneticamente ad un’accumulazione destinale sempre più ristretta ed ineffabile assumendo l’off-shore ancor prima che luogo fisico o paradiso fiscale a idea regolativa della propria autoregolamentazione e punto di fuga del proprio volatizzarsi (e non può sottacersi neppure che il sovrappopolarsi ipertrofico del pianeta non fa altro che offrire alla tirannia del capitale, come aveva già osservato Marx, un esercito di riserva ossia un metodo di sfruttamento per sovrabbondanza della forza-lavoro ancor più incontrovertibile85).
Lì appare necessario rinvenire i punti vivi e dunque di per sé dialettici, percorrendo, nella irregolarità degli itinerari, forme attive di liberazione, così sciogliendo i nodi disseminati che, a partire dalla struttura imposta del tempo (del suo ritmo, del suo vuoto), rompono e interrompono ogni inizio, vale a dire, ogni cominciare di continuare86.
1 Il Vocabolario etimologico della lingua italiana di Ottorino Pianigiani, da cui sono tratti gli elementi dell’etimo “tirannia”, fu edito in edizione originale nel 1907 in due volumi (dalla Società editrice Dante Alighieri) e fu seguito nel 1926 da un volume di Aggiunte, correzioni e variazioni (Firenze, Ariani); fu poi ripubblicato insieme con le aggiunte in edizione postuma da Sonzogno nel 1937.
2 Non vi è qui lo spazio per un’analisi comparativa di questi termini; mi limito ad osservare che, l’unico punto comune dei concetti di dittatura, dispotismo, totalitarismo e regime è, a differenza della tirannia, la relativa stabilità della forma (ovvero la tendenza alla durata) a cui tali termini si associano, caratterizzata dalla concentrazione del potere, vale a dire l’organizzazione della forza, della violenza o del terrore in forma stabile e strutturale. Il totalitarismo, nel senso ad esempio delineato dalla Arendt, sarebbe informato da un terrore permanente – e ciò a differenza della dittatura dove il terrore può darsi momento iniziale (ed iniziatico) – perpetrato attraverso il controllo capillare della polizia segreta di tutti gli aspetti della vita associata, oltre che plasmato da una ideologia che al tempo stesso individua il nemico ed il fine che ne giustificherebbe l’esercizio della forza oltre misura; esso è certamente una forma stabile – dotata cioè di una sua organizzazione (teorica e pratica) capace di perdurare presupponendo la massa (non il popolo) come suo sostegno proprio. Il dispotismo, termine legato alla nozione di despota e al concetto del disporre esso appare, specie in età moderna, strettamente correlato alla nozione di sovranità (cfr. successiva nota 55) e alle patologie legate al rapporto tra legge e comando.
3 Come ad esempio si trova ne il Dizionario etimologico della lingua italiana di Coltellazzo e Zolli edito nel 1999 da Zanichelli o nell’Enciclopedia Italiana del 1937 di De Sanctis.
4 Il riferimento è ad Aristotele, Politica, III (I) 14, 1285 a (trad. it., Laterza, Roma-Bari 1995, pp. 102-103) il quale testualmente afferma “oltre a questa, c’è un’altra forma di monarchia, come sono i regni di alcune popolazioni barbariche: hanno tutte quante poteri simili alle tirannidi, ma sono conformi alla legge ed ereditari, giacché avendo per natura i barbari un carattere più servile dei Greci, e gli Asiatici degli Europei, sottostanno al dominio dispotico senza risentimento. Per questo motivo essi sono di natura tirannica ma stabili per essere ereditari e conformi alla legge”. Aristotele, poi, distingue da questa una forma di tirannide invece elettiva che sarebbe stata di scena in Grecia, riferendosi ai cosiddetti “esimneti”(dominare) che era un termine più decoroso di tiranno e, pur forse derivando anch’esso dall’Asia, ha derivazioni dal verbo aìsymnàō
5 cfr. Bartolo da Sassoferrato, Trattato sulla tirannide, Il Formichiere, Foligno 2017, Quaestio V, p. 50ss. e cfr. G. Severini, Alle origini dell’idea di legittimità nel pubblico potere: Bartolo da Sassoferrato e il De Tyranno, Relazione alla giornata di studi: Bartolo e il problema della tirannide, Sassoferrato, 23 settembre 2017, a presentazione dell’edizione sopra citata (estratto), pp.4-8, laddove il magistrato, consigliere di Stato, annota: “la ripartizione può evocare per noi la distinzione tra legittimazione (nell’investitura) e legittimità (nell’esercizio) del potere, definita quasi un secolo fa da Max Weber e Carl Schmitt. Ma più direttamente il giurista di oggi resta sorpreso nel trovarvi i fondamentali del diritto costituzionale e del diritto amministrativo. Per il primo, riguardo all’investitura del potere pubblico; per il secondo, riguardo al suo uso legittimo”; e ancora, a pag. 8, “interessante ancora è – dal punto di vista del diritto amministrativo – il tema della sorte degli atti del ‘tyranno exercitio’. Fermo che i suoi processi contro fuorusciti e ribelli “non valent”, per gli atti da lui compiuti in pendenza di un processo contro lui stesso – evidentemente altrove intentato – per Bartolo occorre far riferimento all’imputazione mossagli: sono senz’altro nulli gli atti posti in essere in caso di imputazione che ipso iure priva del potere, non gli altri. Sono i primi fondamenti della ricordata teorica odierna del funzionario di fatto.Il tema del Tyrannus per Bartolo concerne la civitas ma per analogia egli guarda non solo alla iurisdictio pubblica, bensì anche agli ambiti privati e a quelli ecclesiastici; sicché è tale anche l’abate di un monastero che non vi presieda secondo diritto, vuoi perché ‘intrusus’, vuoi perché ‘tyrannice regit’: difficile non pensare oggi alla preposizione a enti e organismi pubblici. Anche in questo, pur attraverso la mediazione del diritto canonico, si manifesta un filo plurisecolare con l’odierno diritto amministrativo. (…) Su queste riflessioni del grande giurista italiano dell’età di mezzo contro le prevaricazioni da parte di chi non iure principatur nell’exercitium della publica potestas e sulle loro conseguenze sulla validità degli atti pubblici, poggia quanto – nel progredire dei secoli – maturerà lentamente in diritto amministrativo: cioè in una disciplina legale della potestà pubbliche in ragione dell’interesse pubblico e nella possibilità della tutela in giustizia contro sue distorsioni anche velate. In Italia sarà G.D. Romagnosi (1761-1835) nel 1814, al crepuscolo del napoleonico Regno Italico, a enuclearlo come tale e a separarlo dalla scienza dell’amministrazione con le sue Instituzioni di diritto amministrativo, poi Principj fondamentali di diritto amministrativo onde tesserne le istituzioni. Ma senza quel lascito essenziale al mondo del diritto posto secoli prima da Bartolo sul declinare dei liberi comuni, il cammino sarebbe stato più lungo e più difficile”.
6 Locke, sul punto in esame, distingue la tirannia dall’usurpazione: “come l’usurpazione consiste nell’esercizio di un potere al quale altri hanno diritto, così la tirannia è l’esercizio del potere oltre il diritto, al quale nessuno può avere diritto”. L’usurpazione in questo senso può dar luogo a tirannia solo a condizione che il potere usurpato si eserciti oltre il diritto(cfr. J. Locke, Due trattati sul governo, Utet, Torino 2010, § 197 e 199).
7 Da notare, sotto tale profilo, che anche Hobbes, nel De Cive, pur non nominando espressamente la tirannia, afferma che i doveri del sovrano sono tutti riassumibili nella massima: “il bene del popolo è la legge suprema”, laddove, egli precisa, “per bene dei cittadini non si deve intendere soltanto la conservazione, comunque, della vita, ma di una vita per quanto possibile felice” (liberi da guerre e lotte civili) e ciò nonostante, per Hobbes, il sovrano stesso sia legibus solutus, non sia sottoposto cioè alle leggi degli uomini, ma solo alla legge naturale della ragione: cfr. T. Hobbes, Elementi filosofici sul cittadino, in Opere politiche, Utet, Torino 1971 (1959), pp. 249-250.
8 Deviazione dal bonum commune ma anche dallo ius commune verso lo ius singulare [distinzione che viene fatta discendere da Paolo (Iulius Pàulus) nella famosa definizione (ius singulare est quod contra tenorem rationis propter aliquam utilitatem auctoritate constituentium introductum est), sulla cui autenticità, pure, vi sono dispute vivaci], sino al privilegium che, almeno in origine, era uno ius singulare senza alcuna utilità e quindi non consentito; sulla nozione e sulla portata della stessa in ogni caso cfr. F. Calasso, Medioevo del diritto, Giuffré, Milano 1954.
9 Ancora cfr. Bartolo da Sassoferrato, Trattato, cit., quaestio VIII, p. 86: “opera eius non tendunt ad bonum commune, sed proprium ipsius tyranni. Istud enim est non iure principari”.
10 Ancora cfr. G. Severini, op. cit., p. 8 ss. che, con la sua sensibilità di giudice amministrativo ha posto in rapporto la nozione di tirannia ex parte exercitii, così come derivata da Bartolo (laddove “opera eius non tendunt ad bonum commune, sed proprium ipsius tyranni. Istud enim est non iure principari”), con l’eccesso di potere e le sue figure sintomatiche (in particolare lo sviamento di potere) quale profilo di illegittimità dei provvedimenti amministrativi.
11 Sul punto, va detto che per Kelsen anche il despota assoluto, sciolto dal vincolo di dover rispettare le leggi, è pur sempre un organo dello Stato e dunque il suo governo rientra sempre all’interno del diritto: “come si può infatti concepire, in quanto tale, il monarca dispotico, cioè dotato di un dominio assolutamente illimitato, senza quella relazione con l’ordinamento statale, nel momento in cui egli è ‘monarca’ soltanto in relazione all’ordinamento statale?” [il riferimento è all’opera del 1925 Allgemeine Staatslehre nella tradizione italiana H. Kelsen, Dottrina generale dello Stato, Dottrina generale dello Stato, Giuffré, Milano 2013, p. 742], contestando altresì che anche fenomeni di dispotismo autarchico estremo erano stati esercitati pur riconoscendo la validità e l’efficacia dei diritti soggettivi ai sudditi, nonché la validità delle fonti da cui il proprio potere si inquadrava come organo; per cui lo sforzo teorico di Kelsen è inteso a far rientrare nell’esperienza del diritto positivo anche fenomeni di dispotismo assoluto, respingendo le istanze contrarie – che lui valuta generiche, fuorvianti ed astoriche – del diritto naturale. Tuttavia, è indubitabile che, senza arrivare ad opporre le censure di Schmitt, il diritto stesso – l’ordinamento giuridico e la sua dinamica costruzione a gradi – possa essere piegato e assoggettato ad altre logiche, come quella ad esempio dell’economia che si fa politica e determina l’an della validità e soprattutto dell’efficacia dei diritti (che servono da sotto-strutture), l’effettività delle tutele, la capacità controfattuale del diritto, lasciando che l’operatività del sistema giuridico subisca chiaroscuri ed intermittenze in dipendenza della logica di accumulazione del Capitale (nel senso proprio teorizzato da Marx). Kelsen, risponderebbe forse che se è vero che astrattamente il despota non può dirsi un organo dello Stato – e sia eccedente rispetto al Diritto – in quanto eserciterebbe il dominio non nell’interesse dei dominati, bensì in quello dei dominati, è pur vero che in tutte le epoche l’interpretazione sarebbe costantemente quella di definire dispotismo tutti i governi occorsi essendo impossibile rintracciare un criterio non arbitrario in tal senso. Tuttavia, Kelsen omette di fare un’indagine sul concetto di deviazione dal fine, verificando la struttura propria del tessuto socio-economico-politico, il fulcro del lavoro, la soggettività o meno che giustificherebbe la nozione di diritto soggettivo, così smarrendo la possibilità di stabilire un criterio sostanziale sul limite oltre il quale il diritto sconfinerebbe in altro – preoccupandosi unicamente di garantire le condizioni formali di possibilità – dalla Grundnorm in poi – per un diritto valido ed efficace sistemato in ordinamento. Sul punto rimando in parte al mio P.P. Fiorini, Dall’errore logico all’errore fenomenologico. Confronto tra Husserl e Kelsen sulla Normierung, in Riv. della Scuola Superiore di Economia e delle Finanze, 2007.
12 V. Alfieri, Della Tirannide, E-Text, 1998, p. 5 Come si legge nelle note del testo, Della Tirannide fu scritto da Alfieri a Siena nel 1777 all’età di 28 anni e stampato per la prima volta nel 1790 presso Baumarchais a Kehl (Strasburgo) con la falsa data 1809, ma non reso pubblico; pubblicato in realtà nel 1800 all’insaputa e con dispetto dell’autore, per iniziativa di un libraio parigino.
13 V. Alfieri, Della Tirannide, E-Text, 1998, p. 5 Come si legge nelle note del testo, Della Tirannide fu scritto da Alfieri a Siena nel 1777 all’età di 28 anni e stampato per la prima volta nel 1790 presso Baumarchais a Kehl (Strasburgo) con la falsa data 1809, ma non reso pubblico; pubblicato in realtà nel 1800 all’insaputa e con dispetto dell’autore, per iniziativa di un libraio parigino.
14 Come è noto, vi sono stati teorici che hanno sostenuto la legittimità del tirannicidio, spesso nell’ambito della lotta (o della concorrenza) tra papato e impero indicando il papa come controllore del giusto fine del governare, ovvero assicurare il bene comune. Tra questi, citiamo il monaco benedettino Manegoldo di Lautenbach, il quale, ad esempio, nel suo Liber ad Gebehardum (del 1085) affermava che, mentre il potere del papa deriva direttamente da Dio, il potere civile deriva dall’elezione del popolo il quale è legittimato a uccidere i sovrani che gestiscono il potere in modo tirannico, ossia con crudeltà (cfr. Manegoldo di Lautenbach, Liber ad Gebehardum, Firenze, Olschki, 1975).
Ugo de Fleury, nel suo Tractatus de regia potestate et sacerdotali dignitate (scritto nel 1103 circa), oltre a distinguere tra tirannia per usurpazione e tirannia per abuso del potere, afferma che al tiranno spetta una morte repentina e violenta giacché il tiranno non governa secondo la volontà di Dio, è un collettore di vizi morali ed è pertanto contro l’Ecclesia.
Giovanni di Salisbury, nel suo Policratus (completato nel 1159), pur indicando che ogni potere deriva da Dio (e dunque anche quella degenerazione del potere chiamata tirannia), (anche perché afferma, citando un versetto del Libro di Giobbe sono i peccati del popolo a rendere possibile il regno degli ipocriti (Giobbe 34.29‐30), che dunque l’insorgere dei tiranni è colpa dei peccati popolo (Giovanni di Salisbury, Policraticus: l’uomo di governo nel pensiero medievale, a cura di L. Bianchi e P. Feltrin, Jaca Book, Milano 1984, p. 270) ma laddove invece essa superasse i limiti è Dio stesso che verrebbe chiamato al combattimento (cfr. Ibidem p. 239) e in assenza di alternative (quando anche l’adulazione è inutile) ucciderlo sarebbe giusto, onesto perfino buono (cfr. Ibidem pp. 267-268).
Tommaso nel De Regno ad regem Cypri (redatto intorno al 1270 e che come suggerisce il titolo è dedicato al re di Cipro – Ugo di Lusignano – che con difficoltà regnava su quell’isola assai strategica che dopo l’ultima riconquista da parte di Riccardo Cuor di Leone nel 1191 era divenuta regno a sé sotto la dinastia dei Lusignani e indirizzata ad Ugo di Lusignano), pur affermando che conviene sopportare la tirannia (il peggiore dei governi giacché per l’egoismo di uno solo si calpesta il bene comune) laddove essa è moderata e semmai temperare prudentemente l’uso del potere affinché esso non degeneri potere tirannico (delineando per così dire una strategia preventiva) e suggerendo accorgimenti per pervenire quanto meno ad un regime commixtum, cioè a compromessi interni al potere assoluto di uno solo (comunque per lui preferibile a tutti gli altri), cita espressamente quali esempi storici che abbatterono la tirannia il popolo romano che scaccia Tarquinio il Superbo e il senato che decide di far uccidere Domiziano per poi dichiarare l’inefficacia di tutti gli atti di governo (cfr. Tommaso d’Aquino, Opuscoli politici, Edizioni Studio Domenicano, Bologna 1997, pp. 56 e ss.), senza tuttavia arrivare espressamente a giustificare il tirannicidio (anche per la prudente considerazione che l’insurrezione potrebbe fallire) afferma che ogni decisione sul punto spetta al popolo oppresso. Tuttavia, come è stato sottolineato, anche nella Summa theologiae (II-II, q. 42, aa. 2-3) precisa che combattere non sempre è peccato, anzi, talora è giusto e lecito (q. 40, a. 1; q. 41, a. 1), a maggior ragione nel caso di una congiura per abbattere il tiranno, sebbene ciò non possa essere realizzato senza dividere il popolo tra coloro che difendono il tiranno e coloro che intendono rovesciarlo, fatto che, in quanto espressione di discordia, sarebbe contro il bene del popolo (cfr. A. Cesaro, La monarchia come ottima forma di governo nel De regno ad regem Cypridi Tommaso d’Aquino.Una nota sul tema de regimine principum nel pensiero politico del XIII secolo, in «Heliopolis. Culture, Civiltà, Politica», anno XIV, n. 1, 2016, pp.59-79)
Infine, andrebbe certamente citato il teologo gesuita Juan de Mariana. Il quale sostenne, nella sua opera del 1599 De rege et regis institutione, che qualora il legittimo sovrano alterasse le leggi fondamentali dello stato o l’equilibrio del contratto sociale, sarebbe legittimo ucciderlo (opera osteggiata e poi ritirata dopo l’assassinio di Enrico IV del 1610).
15 Scrive Machiavelli: “Aristotile, intra le prime cause che mette della rovina de’ tiranni, è lo avere ingiuriato altrui per conto delle donne, con stuprarle o con violarle o con rompere i matrimoni” (Machiavelli, Discorsi sulla prima deca di Tito Livio, III xxvi 10-11)
16 Machiavelli, Il Principe, IX, 40.
17 L’occasione in Machiavelli come scrive Prinzi non è l’istante isolato, ma, “una densità di durate, una pluralità finalizzata: non il mero contingente, ma la sua organizzazione produttiva – un concetto, o forse un modo, di affermare il primato della relazione delle cose sulla loro intima essenza. Quando nel ventiseiesimo capitolo del Principe, nell’esortazione finale al giovane Lorenzo de’ Medici, Machiavelli riprende gli esempi di Mosè, Romolo, Ciro, Teseo, indica appunto un doppio movimento, in cui la generalità trascina con sé ogni singolarità: Mi pare concorrino tante cose in benefizio di uno principe nuovo che io non so qual mai tempo fussi più atto a questo (Machiavelli, Opere, vol. 1, p. 190, corsivo dell’autore): S. Prinzi, Machiavelli e la tirannide del tempo, in Tirannide e Filosofia, Ed. Ca’ Foscari, Venezia 2015, p. 79.
18 Machiavelli, Il principe, III, 12
19 Prinzi vede, in questo senso, una vera e propria ossessione di Machiavelli per il tempo laddove annota:“se tutto questo è vero, se cioè l’oggetto d’indagine di Machiavelli non sono innanzitutto le forme di governo, «repubbliche e principati che non si sono mai visti né conosciuti essere in vero», ma «la verità effettuale della cosa», da intendere come il campo di forze fra gli uomini e la fortuna, lo spazio della contingenza così discosto «dal come si doverrebbe vivere» della coscienza finita e sistematizzante –, allora dobbiamo rileggere tutto il problema della tirannide e della libertà in Machiavelli subordinandolo a questa temporalità molteplice. Non solo per individuare quelle virtù politiche che ci consentono di stare nel mutamento apparentemente senza senso delle cose, evitando la ruina… Ma soprattutto per cercare – nella nostra porzione di mondo che non ha più confidenza né con Dio né con la Storia – un possesso strategico del tempo, una dimensione di governo della tattica che non sia legittimazione dell’esistente, becero pragmatismo, prova e riprova cieco, culto dell’atto, del fatto, del risultato immediato”. E sul punto Prinzi cita Raimondi, laddove annota che «tutta la meditazione del Machiavelli è dominata dalla consapevolezza quasi ossessiva delle cose che vanno in rovina, dei corpi che si corrompono: e non v’è da stupirsi, perché […] la fine del Quattrocento si portava dietro un senso di catastrofe, un’inquietudine diffusa per un mondo in pericolo di franare. Ma in lui questa sensazione di instabilità non si traduce in compianto, nel vecchio solco della tradizione cristiana, e neppure in sgomento di una ragione sconfitta o delusa» (E. Raimondi,. Politica e commedia, Il Mulino, Bologna 1998, pp. 25-26).
20 Scrive Machiavelli su Corso Donati: “per torgli il favore popolare, il quale per questa via si può facilmente spegnere, disseminorono che si voleva occupare la tirannide: il che era a persuadere facile, perché il suo modo di vivere ogni civile misura trapassava” (N. Machiavelli, Istorie fiorentine, II, XXII, 14).
21 Sul punto, Machiavelli nel Principe, dopo aver distinto nel quarto libro il dispotismo assoluto (“o per uno principe e tutti li altri servi”) dalla monarchia aristocratica, dove l’aristocrazia fa da contrappeso al potere del monarca, si concentra nel libro ottavo sulla figura di Agatocle, tiranno di Siracusa negli anni 317-316 a.c. circa le cui disumane scelleratezze sono gratuite e non informate a nessuna necessità di governo, arbitrarie e dissociate al fine del bene pubblico e della conservazione dello Stato. Aldilà delle inesattezze storiche (Machiavelli non possedeva le fonti storiche successivamente discoperte nel ‘600, risalenti a Polibio ma solo quelle contrarie ad Agatocle (Timeo, Trogo, Giustino), è interessante qui ribadire l’elemento della gratuità dell’oppressione e della violenza, come tratto caratteristico, per Machiavelli, del concetto di tirannide.
22 Impetuosità che Prinzi non a caso configura come virtù machiavellica per eccellenza: “Machiavelli ci sta indicando una particolare virtù senza la quale non si può dare orizzonte all’agire politico. È l’impetuosità, l’irruenza, una certa aggressività – tutto quel complesso di comportamenti che potremmo rubricare sotto la voce impazienza: ‘Io iudico bene questo: che sia meglio essere impetuoso che respettivo perché la fortuna è donna ed è necessario, volendola tenerla sotto, batterla ed urtarla. E si vede che si lascia più vincere da questi che da quegli che freddamente procedono; e però sempre, come donna, amica de’ giovani perché sono meno rispettivi, più feroci e con più audacia la comandano’ [Machiavelli, Opere, vol. 1, p. 189, corsivo dell’autore]. In altri termini – continua Prinzi – chi deve vincere la fortuna, cogliere l’occasione, chi è costretto ad agire in tempi di eccezione, non può essere respettivo, paziente. Non a caso la pazienza era una delle più importanti virtù cristiane: quella che prevedeva l’affidarsi alla volontà di Dio, l’aspettare qualche suo segno o il momento della sua giustizia, il sopportare le difficoltà a cui la Provvidenza sottoponeva gli uomini. Era la virtù di un tempo garantito e riscattato, fosse anche nell’aldilà. Invece, nella grande opera machiavelliana di teorizzazione dell’esperienza e della temporalità moderni, la pazienza – quella pazienza – viene messa sotto accusa. Anche per questo assistiamo a un’esaltazione della gioventù, intesa come momento della vita in cui si hanno più energie e spregiudicatezza, più insoddisfazione e meno remore. Il tempo laico della contingenza e dell’occasione, il tempo della creazione umana, non permettono più di confidare in un intervento divino: ormai apparteniamo all’impazienza”: cfr. S. Prinzi, op. cit., p. 80ss.
23 Come scrive Machiavelli in una lettera a Franco Vettori nel 16 aprile 1527: “e spesso la disperazione truova de’ rimedii che la elezione non ha saputi trovare”. Cfr. sul punto in generale M. Ciliberto, Nicolò Machiavelli, Ragione e Pazzia, Laterza, Roma-Bari 2019, p. 39ss.
24
Il riferimento è al testo di Savonarola, scritto nel 1494 nell’ambito della polemica con Lorenzo de’ Medici, Trattato circa il reggimento e governo della città di Firenze di cui citiamo l’edizione con prefazione di Luigi Firpo, edito da Bottega D’Erasmo, Torino 1963.
25 Cfr. L. Strauss, A. Kojève, Sulla tirannide, Adelphi, Milano 2010, p. 11ss.
26 Cfr. B. Spinoza, Etica, III, XXIX, p. 250. Cfr. il mio P. P. Fiorini, Passione e Evento. Per una fenomenologia dell’atto di aver passione. In Passione. Indagini filosofiche tra ontologia e violenza, (a cura di) P. Gilbert, Cittadella Editrice, Assisi 2007; Cfr. R. Bodei, Geometria delle Passioni. Paura, speranza, felicità. Filosofia e uso politico, Feltrinelli, Milano 2003, p. 83ss.
27 Cfr Cartesio, Le passioni dell’anima, Bompiani, Milano 2003 artt. XXIII-XXV, pp. 151ss. e artt. XLI-XLV, p. 181ss.
28 Cfr. L. Strauss, A. Kojève, op. cit., p. 14ss.; Cfr. L. Strauss, Lo spirito di Sparta o il gusto di Senofonte in Tirannide e Filosofia, cit., pp. 275-304.
29 Cfr. Platone, Repubblica, VIII, 562a-568b. Nella crisi della democrazia, Socrate indica che quando il dèmos tenta di impossessarsi delle risorse della classe abbiente e questa a sua volta tenta di difendersi chiudendosi in oligarchia, sorge il prostates, preludio del tiranno, quale difensore del popolo (demagogo) che, temendo di essere ucciso dai nemici del popolo, si farà autorizzare ad avere una guardia del corpo personale e una sua milizia: questa è l’origine della tirannia, laddove il tiranno, mostrandosi inizialmente condiscendente verso il popolo e individuando un nemico esterno – promuovendo dunque guerre – punterà al potere assoluto.
30 Cfr. Erodoto, Storie, III, 80-82
31 Interpretazione confermata da Bartolo di Sassoferrato che, nel Regime principum, riporta la medesima constatazione: “hodie Italia est nota pleina tyrannis”.
32 Voltaire notava con la sua ironia che, sia nel caso della tirannia di uno solo che della tirannia dei molti: “di tali tiranni, in Europa, non ce ne sono” Voltaire, Dizionario filosofico, voce Tirannia, Newton Compton, Roma 1996.
33 Cfr. V. Alfieri, op. cit., p. 40: “Il vivere senz’anima, è il più breve e il più sicuro compenso per lungamente vivere in sicurezza nella tirannide; ma di questa obbrobriosa morte continua (che io per l’onore della umana specie non chiamerò vita, ma vegetazione) non posso, né voglio insegnare i precetti; ancorché io gli abbia, senza volerli pure imparare, pur troppo bevuti col latte. Ciascuno per sé li ricavi dal proprio timore, dalla propria vita, dalle proprie circostanze più o meno servili e fatali; e in fine, dal tristo e continuo esempio dei più, ciascun li ricavi”
34 Scrive in questo senso Alfieri: “la tirannide è tanto contraria alla nostra natura, ch’ella sconvolge, indebolisce, od annulla nell’uomo presso che tutti gli affetti naturali. Quindi non si ama da noi la patria, perché ella non ci è; non si amano i parenti, la moglie, ed i figli, perché son cose poco nostre e poco sicure; non vi sono veri amici (…) L’effetto necessario, che risulta nel cuor dell’uomo dal non potere amar queste cose su mentovate, si è, di amare smoderatamente se stesso (…) E parmi, che ne sia questa una delle principali ragioni: dal non essere securo, nasce nell’uomo il timore; dal continuo temere, nascono i due contrari eccessi; o un soverchio amore, o una soverchia indifferenza per quella cosa che sta in pericolo: nella tirannide, temendo sempre noi tutti per le cose nostre e per noi, ma amando (perché così vuol natura) prima d’ogni altra cosa noi stessi, ne veniamo a poco a poco a temere sommamente per noi, e ogni dì meno per quelle cose nostre, che non fanno parte immediata di noi. Nelle repubbliche vere, amavano i cittadini prima la patria, poi la famiglia, quindi se stessi: nelle tirannidi all’incontro, sempre si ama la propria esistenza sopra ogni cosa. Perciò l’amor di se stesso nella tirannide non è già l’amore dei propri diritti, né della propria gloria, né del proprio onore; ma è semplicemente l’amor della vita animale. E questa vita, per una non so qual fatalità, nello stesso modo che la vediamo tenersi tanto più cara dai vecchi, i quali oramai l’han perduta, che non dai giovani, a cui tutta rimane; così tanto più riesce cara a chi serve, quanto ella è men sicura, e val meno” (V. Alfieri, op. cit., p. 38).
35 Hegel, Fenomenologia dello Spirito, Bompiani, Milano 2000., p. 270ss.
36 cfr. la parte del commentario alla Fenomenologia dello Spirito contenuta nelle celebri lezioni tenute dal 1933 al 1939, in A. Kojève, La dialettica e l’idea della morte in Hegel. Einaudi, Torino 1973. La questione relativa al rapporto tra Husserl e l’idealismo non è certamente esauribile in questa sede ed esula dalla questione proposta, così come la differenza tra la fenomenologia hegeliana rispetto a quella husserliana (basti pensare ad esempio all’epochè quale negazione metodologica rispetto al negativo della dialettica hegeliana, oltre alla conseguente apertura forse più che rottura del circolo del presupposto-posto). Qui premeva, però, nell’economia del discorso e forse provocatoriamente, cogliere i punti di affinità insiti proprio nella discussione della costituzione della soggettività secondo il profondo intreccio con l’altro (dove l’indipendenza appare geneticamente intrecciata ad una complessa forma di co-dipendenza o inter-dipendenza). Sul punto, merita di essere ricordata l’interpretazione che ha dato della fenomenologia husserliana ad esempio Enzo Paci (cfr. E. Paci, Tempo e verità nella fenomenologia di Husserl, Laterza, Bari 1961 e Fenomenologia e dialettica, Feltrinelli, Milano 1974).
37 Da notare il rimando implicito del termine autonomia (Selbeständigkeit) a quello di autocoscienza (Selbstbewusstsein) ad indicare la (libera) stabilità di quella conoscenza di sé che diventa ‘ragione’.
38 Si ricorda – in quanto utile al discorso – che per Hegel la coscienza segna il passaggio dal sensibile al soprasensibile inteso come interiorità e dunque infinità aperta dall’uguaglianza Io=Io e, quando si rivolge ad altro da sé, a un oggetto in generale, si differenzia, compiendo la differenziazione di ciò che è indifferenziato. L’oggetto diviene il medio con cui l’Io infinito si scinde differenziandosi e così determinandosi, pur rimanendo però indifferenziato nell’essere coscienza di sé e della cosa insieme. Questo inizio dell’autocoscienza, lascia intuire già la forma di dipendenza che sta nella tensione stessa all’indipendenza e ancor più alla libertà, dipendenza che la tirannia stessa, come logica del potere, non fa altro che assicurare in modo bilaterale senza però poterla superare.
39 Cfr. Hegel, op. cit., p. 275.
40 Già nel 1796, Fichte aveva posto le basi per il concetto – potremmo dire “genetico” o “costitutivo” dal punto di vista fenomenologico – di riconoscimento (Anerkennung) quale radice transoggettiva (forse più che intersoggettiva) relazionale ed accumunante del diritto: “Il concetto di individualità è […] un concetto di relazione (…) Esso è possibile, in ogni essere razionale, solo nella misura in cui viene posto come completato da un altro. Esso non è quindi mai mio, ma per mia propria ammissione, e per ammissione dell’altro, mio e suo; suo e mio – un concetto comune, in cui due coscienze vengono riunite in una”: cfr. J.G. Fichte, Fondamento del diritto naturale secondo i principi della dottrina della scienza, Laterza, Roma-Bari, 1994, p. 43.
41 Nel linguaggio hegeliano: è infinitamente, immediatamente, il contrario della determinatezza in cui è posta.
42 L’altro, infatti, ridotto e compresso a cosa, non può più restituire attivamente il senso dell’autonomia, non può cioè più riconoscere (in modo autonomo) l’autonomia (già di per sé dipendente giacché bisognosa di riconoscimento) del signore che si trova preso in un doppio scacco. Cfr. Hegel, Fenomenologia dello spirito, cit., p. 270 ss. cfr. R. Finelli, L’amicizia hegeliana come lasciar essere. Dalla negazione dell’altro all’autodeterminazione, capitolo contenuto in Karl Marx uno e bino, Jaca Book, Milano 2018, pp.67-87. Da notare che per Lacan, interprete di Hegel attraverso Kojéve, il vicolo cieco o come lui la chiama l’impasse, sarebbe costituito dal fatto che in realtà quando si esige di essere riconosciuti, si è riconosciuti solo come oggetto. Tuttavia l’impasse di cui parla Lacan, per i motivi sopra evidenziati, non è certo quella che mostra Hegel. Si può dire infatti che a differenza di Hegel, come nota Vegetti, per Lacan il riconoscimento resta un atto mancato, “perché non solo mi pone dal lato dell’oggetto del desiderio altrui (in uno stato di dipendenza che nega dall’inizio e per sempre l’autonomia del soggetto), ma questo oggetto, se è appunto un oggetto a, rimanda alla sorgente dell’angoscia (la castrazione simbolica), e dunque a ciò che destabilizza più a fondo il soggetto: la Cosa che il soggetto isola come estranea (il Fremde), l’Altro assoluto verso cui tende l’appetizione, l’attesa di desiderio su cui cade l’interdizione che regola la vita dell’inconscio, e di cui l’oggetto a prende il posto. In qualche modo, «Hegel, pur non abbandonando la funzione centrale della coscienza permette di liberarcene»”: M. Vegetti, Il sapere del servo: Desiderio, riconoscimento e comunismo tra Kojève e Lacan, in L’inconscio dopo Lacan. Il problema del soggetto contemporaneo tra psicanalisi e filosofia, L.E.D., Milano 2012, [pp. 259-270], p. 263
43 Cfr. Hegel, Fenomenologia dello Spirito, cit., p. 291.
44 Cfr. Ibidem, p. 285.
45 L’instabilità del rapporto sta nel fatto che mentre il servo si muove dialetticamente, attraverso il lavoro, verso l’emancipazione, superando così anche gradualmente la paura del padrone, il padrone avrà costantemente paura del fatto che il servo possa tentare di ribellarsi vale a dire che non abbia abbandonato il proposito di ucciderlo e di prenderne il posto, e ciò perché – evidentemente – il desiderio di riconoscimento non si è mescolato né articolato in modo tale da raggiungere quella densità reciproca che già di per sé, secondo un circolo non perfetto e non vizioso presuppone già il porsi della libertà.
46 Husserl, come è noto, su questo punto, è stato accusato di idealismo (da lui stesso richiamato ad esempio proprio nelle Meditazioni Cartesiane) anche in considerazione della sua cosiddetta deduzione dell’alter-Ego a partire dell’Ego e del suo ragionare dialettico non così lontano da alcune suggestioni di Fichte e dello stesso Hegel. A parte il fatto che è tutto da dimostrare che l’idealismo sia di per sé un capo di accusa valido o filosoficamente apprezzabile, si potrebbe anche, nel senso di Kojève – e pur con le dovute cautele – rovesciare il discorso: non è Husserl ad essere idealista, quanto Hegel, conformemente ad un significato forse in parte misconosciuto di fenomenologia dello spirito, ad essere fenomenologico, ad aver cioè inteso pervenire alla costitutività della cosa in sé in quanto manifestantesi nella sua aperta contraddittorietà in movimento.
47 Cfr. E. Husserl, Meditazioni Cartesiane, Bompiani, Milano 1995, §§44-51e E. HUSSERL, Zur Phänomenologie der Intersubjektivität, vol. III, inHua XIV, p. 252ss. e 632ss. Cfr. anche il mio P.P. Fiorini, Tempo e multiverso. Indagine fenomenologica sulla struttura originaria del termpo, Stamen, Roma 2008, parte IV, §3.
48 La morte dunque è già in sé il limite infranto del desiderio, a sua volta senza limite ed impossibile, della propria libertà.
49 Infatti, solo l’affermazione del servo (che afferma l’autonomia superiore del signore) è certa, non il suo contenuto. O altrimenti detto, la certezza di questa autonomia non ha verità, questa è solo la verità formale dell’affermazione del servo e della sua obbedienza. Il padrone è invischiato ancora nell’oggettualità, dentro la quale opera laboriosamente il servo, non è autonomo rispetto a questa, né sa elaborarla, trasformarla – per via del lavoro – e non sa così avviarsi ad una vera emancipazione dalla stessa.
50 Sul punto, cfr. anche L. Siep, Der Kampf um Anerkennung. Zu Hegels Auseinandersetzung mit Hobbes in den Jener Schriften, in «Hegel-Studien», Vol. 9, 1974, p. 155ss. per il quale la filosofia jenese di Hegel, in particolare in ordine alla lotta per il riconoscimento, è una forma di riflessione e reazione alle istanze di Hobbes.
51 Per Lacan, Hegel ha avuto il merito di cogliere il senso e la funzione dell’aggressività nell’ontologia umana (il punto è specialmente ripreso nel suo scritto del 1948, L’aggressivitàin psicoanalisi: in J. Lacan, Scritti, Einaudi, Torino 1974) poiché dal conflitto del Padrone e del Servo si deduce tutto il progresso soggettivo e oggettivo della nostra storia, facendo sorgere da queste crisi le sintesi rappresentate dalle forme più elevate dello statuto della persona in Occidente, dallo stoico al cristiano e fino al futuro cittadino dello Stato universale. Sul punto, interessanti sono i lavori di M. Vegetti, Kojève and Lacan, JEP, n. 26-27, 2008, pp. 275-294; ID., La fine della storia, Milano, Jaca Book, 1999. Nell’opera già citata in precedente nota, Vegetti scrive: Il sapere del servo: Desiderio, riconoscimento e comunismo tra Kojève e Lacan, op. cit.,, p. 266: “la differenza fondamentale tra il signore e il servo è che il primo vede la vita nella morte, e il secondo la morte nella vita. In altre parole, il signore gestisce la mancanza attraverso una sorta di rimozione, un non sapere che opera secondo una logica binaria (o io o l’altro), mentre il servo elabora il lutto attraverso il lavoro (il lavoro del simbolo, direbbe Lacan, che nasce appunto sulla morte della «cosa»). Anche in Kojève, in effetti, il lavoro è un modo per mettere a frutto l’angoscia, il nulla simbolico spalancato al centro dell’essere del servo dalla violenza subìta di cui reca il marchio: «non basta aver avuto paura rendendosi conto del fatto che si è avuto paura della morte. Occorre vivere in funzione dell’angoscia. Ora, vivere così significa servire qualcuno che si teme, qualcuno che ispira o incarna l’angoscia; servire un Signore (reale, cioè umano, ovvero il Signore «sublimato», Dio). E servire un Signore è obbedire alle sue leggi. Senza questo servizio, l’angoscia non potrà tra-sformare l’esistenza; e dunque l’esistenza non potrà mai superare il suo stato di angoscia iniziale»12. Letto con lo sguardo di Lacan, in tale passo non è difficile avvertire il fantasma della castrazione organizzare, dietro il piano antropologico frequentato da Kojève, le figure archetipiche della dialettica inconscia. Più che altrove, all’interno della struttura del discorso del padrone Lacan ne recupera il valore protopolitico, ipotizzando che tra la prospettiva sul legame sociale (il rapporto servo-padrone) e quella sulla costituzione soggettiva inconscia si dia un’identità strutturale” (p. 266).
52 L’ironia Socratica esordisce in questo modo sull’argomento: “Ci resta da esaminare la più bella costituzione e il più bel tipo umano, ossia tirannide e tiranno. – Precisamente. – Su, caro amico, quale è il carattere della tirannide? È pressoché chiaro che risulta da una trasformazione della democrazia” (Platone, Rep., VIII, 562a,trad. it. Rizzoli BUR, Milano 1996 [1981] 2 voll. vol. 2., p. 305, cors. mio).
53 L’oclocrazia (da óchlos, insieme, massa) indica una forma degenerata di democrazia, in cui il popolo, corrotto dall’avidità di ricchezze, perde la sua sovranità e viene agevolmente manipolato dal disegno di potere altrui. Il termine compare ad esempio ne Le Storie di Polibio nella sua rilettura della sua teoria ciclica delle forme di governo: “finché sopravvivono cittadini che hanno sperimentato la tracotanza e la violenza – scrive Polibio – […], essi stimano più di ogni altra cosa l’uguaglianza di diritti e la libertà di parola; ma quando subentrano al potere dei giovani e la democrazia viene trasmessa ai figli dei figli di questi, non tenendo più in gran conto, a causa dell’abitudine, l’uguaglianza e la libertà di parola, cercano di prevalere sulla maggioranza; in tale colpa incorrono soprattutto i più ricchi. Desiderosi dunque di preminenza, non potendola ottenere con i propri meriti e le proprie virtù, dilapidano le loro sostanze per accattivarsi la moltitudine, allettandola in tutti i modi. Quando sono riusciti, con la loro stolta avidità di potere, a rendere il popolo corrotto e avido di doni, la democrazia viene abolita e si trasforma in violenta demagogia” (Polibio, Le Storie, 2 voll, Mondadori, Milano1955 vol.II, libro VI, cap. 9, p. 98).
54
J.-J. Rousseau, Du contrat social: ou principes du droit politique trad. it. Il Contratto sociale, Rizzoli, Milano 1996, 3, X, p. 117 e cfr. R. Derathé, Rousseau e la scienza politica del suo tempo, Il Mulino, Bologna 1993, p. 310ss.. Come è noto Rousseau individua la deriva tirannica nella alienazione da parte del popolo della sovranità popolare, la quale – unica, indivisibile, irrappresentabile e inalienabile – appartiene al popolo sia ex titulo che ex parte exercitii– Tuttavia, la differenza che pone Rousseau tra dispotismo e tirannia sta nel fatto che mentre il primo riguarda la sovranità e il tentativo [o la tentazione] di porsi al di là delle leggi, la tirannia riguarda il governo e sta nell’operare, secondo la legge, contro la legge stessa, cioè nel muoversi in modo legale ma non legittimo (il che rende assai più sottile e meno platelale le derive tiranniche rispetto a quelle dispotiche).
55 Cfr. R. Derathé, op. cit., p. 40ss. e 359ss.
56 Il riferimento è soprattutto il primo volume del 1835 della ricerca di Tocqueville sulla democrazia in America, sulla tirannia della maggioranza e i modi per tentare di temperarla. cfr. A. de Tocqueville, La Democrazia in America, 2 voll, Rizzoli, Milano 1996, vol. I, libro 2, cap. VII.
57 Bartolo da Sassoferrato, De Tyranno, quaestio V; op. cit., p. 50
58 Detto altrimenti, i sintomi e le cause della tirannia si sono saldate senza aver bisogno della figura – sovraesposta – del tiranno (o dei tiranni che più o meno occasionalmente occupano la scena senza essere decisivi), assicurando e legittimando la saldatura con l’idea di maggioranza (ma con rottura sistematica del tessuto della sovranità popolare, nel senso di Rousseau). Già Spinoza aveva intuito che, ucciso il tiranno, non erano perciò solo risolte le premesse della tirannia, laddove annotò: “molti cercano di levar di mezzo un tiranno senza essere in grado di eliminare le cause che fanno del principe un tiranno, ma anzi creandone di tanto maggiori quanto maggiori sono i motivi di timore che si prospettano al principe” (B. Spinoza, Tractatus politicus, Fabbri, Milano 1994, p. 85). Nell’epoca contemporanea, potremmo dire che le cause e i sintomi si mescolano nel concetto stesso di funzione sistemica (che lascia coincidere causa ed effetto nel codice di funzionamento).
59 Cfr. in particolare K. Marx, Il Capitale, Vol. I, Editori Riuniti, Roma 1970, III, p. 69, (laddove afferma che “la legge dell’accumulazione capitalistica mistificata in legge di natura esprime dunque in realtà il fatto che la sua natura esclude ogni diminuzione del grado di sfruttamento del lavoro o ogni aumento del prezzo del lavoro che siano tali da esporre a un serio pericolo la costante riproduzione del rapporto capitalistico e la sua riproduzione su scala sempre più allargata”); e cfr. K. Marx, Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica, La nuova Italia, Firenze 1968, p. 136ss.; cfr. T. W. Adorno, Dialettica negativa, Einaudi, Torino 1970, p. 319 ss
60 Ciò significa che, come hanno notato tra gli altri Negri e Hardt, se la trascendenza della sovranità moderna è in contrasto con l’immanenza del capitale, che si è semmai avvalso della sovranità (delle sue strutture giuridiche) per espandersi trovandovi però ostacoli ed infine mediazione, come quella ad esempio della società civile in Hegel, nell’era contemporanea (imperfettamente definita post-moderna) tali mediazioni sono saltate, non essendo la società civile stessa una mediazione efficace tra capitale e sovranità, essendo la società civile stessa per così dire traslata in una società del controllo; “nella società del controllo l’immanenza della produzione della soggettività corrisponde alla logica assiomatica del capitale: le loro somiglianze sono indicative di una nuova e più completa compatibilità tra sovranità e capitale””: M. Hardt, A. Negri, Impero, Rizzoli, Milano 2001, p. 308.
61 Sul punto richiamo il mio P. P. Fiorini, Tanto lavoro per nulla. Brevi linee di filosofia politica sul fenomeno del lavoro, in «Polemos» 2-3/2010, pp. 23-41.
62 Finelli osserva che “è appunto tale farsi astratto, senza risonanze e profondità emotive del nostro vivere, tale sua dimensione monotona e di massa, che io credo ci autorizzi a ritornare sul Capitale di Marx e a forzarne il senso evidenziandone il significato di un’opera che ha come suo oggetto specifico il darsi per la prima volta nella storia umana di un’astrazione che costruisce una intera realtà di relazioni sociali, e per contro mettendone in ombra la dimensione pure presente nella contraddizione dell’antagonismo sociale”: R. Finelli, Marx uno e bino, cit., p. 130.
63 Sul punto, sono certamente di interesse le precise osservazioni di Galli sull’ordo-liberalismo e sul rapporto tra economia e sovranità, contenute nell’intervista presente in questo numero (a cura di G. Sacco) e che traggono spunto dal suo ultimo lavoro: cfr. C. Galli, Sovranità, Il Mulino, Bologna 2019.
64 Scrive Camus in un articolo comparso su Combat nel novembre del 1949: “il solo XVII fu il secolo delle matematiche, il XVIII delle scienze fisiche e il XIX della biologia. Il nostro, il ventesimo, è il secolo della paura. Mi si obietterà che questa non è una scienza. Ma anzitutto anche la scienza c’entra in qualche modo, come è vero che i suoi ultimi progressi teorici l’hanno condotta a negare se stessa mentre le sue applicazioni minacciano la terra intera di distruzione. Inoltre, se la paura in se stessa non può essere considerata alla stregua di una scienza, non c’è dubbio che essa sia tuttavia una tecnica”: A. Camus, Il secolo della paura, articolo comparso su Combat nel novembre di 1949, in Ribellione e morte, Bompiani, Milano 1961, pp. 55-56.
65 Cfr. A. Camus, op. cit., p. 57-58: “infatti ciò che colpisce maggiormente nel mondo in cui viviamo, è che, in generale, la maggior parte degli uomini sia senza futuro (…) Naturalmente, non è la prima volta che l’umanità si trova dinanzi a un futuro materialmente chiuso. Ma di solito furono sufficienti la parola e la protesta. Oggi invece nessuno parla (tranne coloro che si ripetono). (…) Il lungo dialogo degli uomini si è interrotto. E, beninteso, un uomo che non si può persuadere è un uomo che fa paura. Da qui, sostiene Camus, la tecnica di organizzare il terrore, di allestirlo con minacce e violenze su larga scala. Sarebbe necessaria la riflessione, ma, come detto, il terrore impedisce la riflessione.
66 Il riferimento è alla breve relazione tenuta da Schmitt a Ebrach nell’autunno del 1959 in occasione di un seminario organizzato dal suo allievo Ernst Forsthoff e, a seguito di polemiche, pubblicata otto anni dopo nel 1967 con le dovute precisazioni dell’autore e una seconda versione (del 1960). Nel testo Schmitt, polemizzando con la filosofia dei valori e ponendo in dubbio il significato del termine valore nonché la sua legittimità filosofica oltre che giuridica, afferma che esso, con la sua pretesa di oggettività (che però nasconde il percorso valutativo da cui è sorta) rappresenta un punto d’attacco contro tutto ciò che non sarebbe valore o sarebbe gerarchicamente un valore inferiore, generando così – sia all’interno dell’individuo che nella sfera pubblica – la tirannia dei valori (espressione mutuata da Nicolai Hartmann): C. Schmitt, La tirannia dei valori, Adelphi, Milano 2008.
67 Scrive assai efficacemente Schmitt: “l’anelito del valore alla validità è irresistibile, e il conflitto tra valutatori, svalutatori, rivalutatori e valorizzatori è inevitabile” (c. Schmitt, op. cit., p. 59).
68 Cfr. C. Schmitt, op. cit., p. 62.
69 Cfr. N. Luhmann, Ausdifferenzierung des Rechts. Beiträge zur Rechtssoziologie und Rechtstheorie, Suhrkamp, Frankfurt 1981, La differenziazione del diritto, Il Mulino, Bologna 1990, p. 99ss.
70 Cfr. N. Luhmann, Sociologia del rischio, Bruno Mondadori, Milano 1996; e cfr. il mio P.P. Fiorini Il concetto di rischio, tra dismisura e sistema, in Rivista della Scuola Superiore di Economia e delle Finanze, 3, 2005.
71 Cfr. N. Luhmann, Mercato e Diritto, Giappichelli Ed., Torino 2006, p. 136ss.
72 Anche i diritti individuali per Luhmann sono istituzioni in funzione del sistema: cfr. N: Luhmann, Grundrechte als Institution: ein Beitrag zur politischen Soziologie, Duncker & Humblot GmBH, Berlin 1999; trad. it., I diritti fondamentali come istituzione, Ed. Dedalo, Bari 2002,290: “il senso dei diritti fondamentali non dev’essere compreso a partire dagli interessi dell’individuo idealizzato, né da quelli dello stato e meno da un nesso dialettico tra i due (…) La loro funzione deriva, in ultima analisi, da problemi di formazione dei sistemi e di differenziazione della società.”
73 Sul punto, cfr. Z. Baumann, Vite di corsa. Come salvarsi dalla tirannia dell’effimero, Il mulino, Bologna 2009, p. 9: “nella modernità liquida il tempo non è né ciclico né lineare, come normalmente era nelle altre società della storia moderna e premoderna, ma invece ‘puntillistico’, ossia frammentato in una moltitudine di particelle separate, ciascuna ridotta ad un punto”. Viviamo in un perpetuo e trafelato presente, in cui tutto è affidato all’esperienza del momento, e in cui la perdita di senso del tempo si accompagna allo svuotamento dei criteri di rilevanza che fanno distinguere l’essenziale dal superfluo, il durevole dall’effimero. E la nostra identità di persone, ieri faticosamente costruita su un progetto di vita, può essere oggi assemblata e disassemblata in modo intermittente e sempre nuovo, alla stregua di “un pacchetto pay per view”.
74 N. Luhmann, Mercato e Diritto, Giappichelli Ed., Torino 2006, pp. 140-141.
75 Il termine anomia, presente in Platone Leggi, 689 b-c / 693e, ricollegato all’amatia e dunque all’ignoranza, indica, a partire da Durkheim, il passaggio da una società a ‘solidarietà meccanica’ ad una società a ‘solidarietà organica’, cioè una società che tende appunto alla progressiva divisione del lavoro, intesa, quest’ultima, come frammentazione ordinale delle attività produttive. (cfr. E. Durkheim, La divisione del lavoro sociale, cit., p. 266 ss. e Id., Il suicidio, Utet, Torino 1978). La nozione, in senso social-strutturale è poi stata ripresa in particolare da Merton (R. Merton, Social Theory and Social Structure, New York Free Press, 1968, trad. it. a cura di C. Marletti e A. Oppo, Teoria e struttura sociale, Il Mulino, Bologna 1966) il quale pone l’accento sull’anomia come «attenuazione dei controlli sociali» (ivi, p. 252). Cfr. R. McIver, The ramparts we guard, McMillian, New York 1964; M. Orrù. The Ethics of Anomie: Jean Marie Guyau and Émile Durkheim, British Journal of Sociology, Vol. 34, No. 4 (Dec., 1983), pp. 499-518; cfr. R. Dahrendorf, Lebenschancen: Anläufe zur sozialen und politischen Theorie, Frankfurt am Main, Suhrkamp, 1979, trad. it. La libertà che cambia, Laterza, Bari 1981.
76 Per altro verso, cfr. F. Gambino, Regimi giuridici privati e certezza del diritto, in (a cura di) A. Febbrajo e F. Gambino, Il diritto frammentato, Giuffrè Ed., Milano 2013, laddove, a p. 132, osserva: “in questa prospettiva, dove si scorge una tensione verso l’idea trascendente di giustizia, l’incertezza del diritto non è sinonimo, nell’assenza di punti di appoggio, di smarrimento e indecisione, ma esprime la possibilità stessa di contratto e di relazione con gli altri di sistemi sociali, i quali, premendo sul diritto per la loro convalidazione, finiscono per mutarne il senso originario nel segno di una inesorabile decostruzione e della sua interna frammentazione in una pluralità di fonti di produzione (le razionalità differenziate)”.
77 Cfr. N. Luhmann, Mercato e Diritto, cit., p. 141s.
78 Sul punto, cfr, ancora R. Finelli, op. cit., p. 139, laddove annota: “in questa era tecnologica del nuovo capitalismo digitale, vien fatto da pensare che sotto l’apparenza di una celebrata economia della conoscenza e dell’attivazione della mente d’ognuno, la coscienza subisca invece una radicale colonizzazione del suo agire e procedere e che il complesso delle sue funzioni, anziché esercizio di una intelligenza legata al sentire, sia tutto diretto e obbligato a procedere di misurazione in quantificazione, cioè a produrre e ad obbedire a un comune del tutto privo di individuazione”.
79 Cfr. A. Kojève, Il silenzio della tirannide, Adelphi, Milano 2004, p. 13.
80 Cfr. spec. N. Luhmann [1984], Soziale Systeme, (trad. it. di A. Febbrajo) Sistemi sociali. Fondamenti di una teoria generale, Il Mulino, Bologna 1990 e Cfr. N. Luhmann, Die Gesellschaft der Gesellschaft, Suhrkamp, Frankfurt am Main 1997. Cfr. anche B. Romano, Filosofia e diritto dopo Luhmann. Il «Tragico» del moderno. Lezioni 1995-1996, Bulzoni, Roma 1996.
81 Cfr. su quest’ultimo punto ancora R. Finelli, op. cit., p. 25ss. e p. 138ss.
82 La riflessione di Leo Strauss sulla tirannia – sempre sotto il profilo prescelto, pur nelle divergenze interpretative, non fa che esaltare, a mio avviso, questa divaricazione, tra il filosofo chiamato a confrontarsi con le cose non fuggevoli ed instabili e dunque a ricercare saggiamente la felicità (nascondendosi dal tiranno o fuggendo dallo spazio politico) e il tiranno che, rapito dalla furia del progresso, perso nelle lotte di successione per il potere e nel suo governo senza-consenso che sconfina nel terrore. Il fatto che non vi sia sintesi possibile (né conciliabilità) tra pensiero e azione politica – se non per accidentale e fortunosa convergenza – né vi sia progresso possibile (verso il quale Strauss nutriva un prudente pessimismo) indica che la tragedia politica, indipendentemente dalle possibilità utopiche di sintesi storica – è tutt’altro che confinabile alle forme di tirannia storicizzate (ed esemplificate frettolosamente nei totalitarismi di Hitler o Stalin), ma riguarda l’articolazione del potere in sé dell’uomo sull’uomo, nell’impotenza del diritto (quale superamento del fatto che esclude) di mediare e conformare il conflitto, nella distorsione stessa del diritto come funzione della funzione sociale a sua volta funzione dell’economia finanziaria ed impolitica del capitale che fugge e si volatilizza, lasciando affiorare la tirannia lì dove non sembrerebbe aver legittimità di sorgere. Cfr. anche M. Menon, Prigioniero nella città, libero dagli uomini. Leo Strauss e la tirannide, in Tirannide e filosofia, cit. p. 392: “Agli occhi di Strauss il problema sta quindi nell’inevitabile esito del progresso così com’è concepito secondo Kojève, rappresentante estremo della posizione moderna. L’uomo che apparirebbe à la fin de l’histoire, dopo il superamento di ogni contraddizione sociale, di ogni ostacolo al pieno riconoscimento, altro non sarebbe secondo Strauss se non der letzte Mensch di Nietzsche, sazio e ridotto allo stato semibestiale, incapace di sacrificio e serietà, sordo a qualsiasi cosa trascenda il soddisfacimento dei propri bisogni animali, preda della propria vanità, dominato da un dispotismo universale ipertecnologico e violento capace di plagiare le menti degli uomini e di estirparne sul nascere ogni germoglio di pensiero eterodosso”.
83 Della contrapposta lettura di Kojève, in questa sede, rileva a mio avviso solo che il filosofo – a differenza del tiranno perso nella instabile tragicità del suo ruolo – conosca la fine della storia e dunque non sia soggetto alla violenza del tempo e pertanto sia chiamato pur nel dilemma amletico, a governare estendendo il pensiero in utopia concreta fino allo stato universale e omogeneo di impronta comunista: Cfr. A. Kojéve, Il silenzio della tirannide, cit., p. 55ss.
84 Come ho già annotato altrove mio: Tanto lavoro per nulla, cit., p.36: “Da questo punto di vista non sussiste alcuna differenza, in termini qualitativi, tra tempo del lavoro e tempo libero: ciascuno dei prodotti dell’industria culturale non è che «un modello del gigantesco meccanismo che tiene tutti sotto pressione fin dall’inizio, nel lavoro e nel riposo che gli assomiglia» (T.W. Adorno – M. Horkheimer, Dialettica dell’illuminismo, Einaudi, Torino 1976, p. 133s.). La relazione di somiglianza, in altre parole ravvicina proprio il fare e il soddisfare rivelando che entrambi sembrano, appunto, composti della stessa materia. Bloch, aggiungeva che, dato che gli uomini nella società acquisitiva non sono mai un fine, ma sempre un mezzo, il tempo libero non è altro che una forma abbellita della riproduzione e dello sfruttamento (Cfr. E. Bloch, Il principio speranza, Garzanti, Milano 2005, p. 1051).
85 Cfr. K. Marx, Il Capitale, cit., Libro I, sez. VII, cap. 23, laddove Marx alludendo alla massa di disoccupati e alla produzione progressiva di una sovrappopolazione relativa parla, come è noto, di esercito industriale di riserva.
86 Cfr. ancora le conclusioni del mio già citato lavoro Tempo e Multiverso.