Prendete la parola riformismo. Si tratta di un termine che negli ultimi decenni, in Italia, ha avuto una gran fortuna al punto che, oramai, tutti i partiti più moderati, sia di destra che di sinistra, fanno a gara per definirsi riformisti. Socialisti, socialdemocratici, cattolici, liberali, radicali, persino conservatori, almeno una volta si sono definiti riformisti. Tanto per fare un esempio, utile ad avere un quadro della popolarità di questo termine nel nostro dibattito pubblico, facendo una ricerca testuale nell’archivio della rassegna stampa della Camera dei deputati, dall’inizio del 2002 a oggi, il termine “riformisti” compare in oltre 19.000 articoli, il termine “riformismo” in quasi 15.000, e, addirittura, il termine “riformista” in più di 47.000 articoli. Insomma, a giudicare dall’attenzione data al tema, l’Italia sembrerebbe proprio il paese del riformismo. Ma è davvero così?
Prima di rispondere a questa domanda, è opportuno cercare di capire che cosa si intende quando si parla di riformismo e che origini storiche ha questo termine. Come ricorda il dizionario storico Treccani, consultabile anche online, «è significativo che il termine «riforma» e l’aggettivo «riformista» siano stati introdotti nel vocabolario politico in occasione della campagna condotta in Inghilterra, tra la fine del sec. 18° e l’inizio del sec. 19°, per l’allargamento del suffragio elettorale, culminata nel Great reform bill (1832)». Ciò, infatti, lega in maniera molto forte il riformismo con il parlamentarismo, o meglio con l’aumento dell’inclusività della democrazia rappresentativa. Infatti, il riformismo, in termini generali, indica appunto un «metodo d’azione politica che, respingendo sia i sistemi rivoluzionari sia il conservatorismo, riconosce la possibilità di modificare l’ordinamento politico sociale esistente solo attraverso l’attuazione di riforme organiche ma graduali». In sostanza, «il riformismo è legato all’affermazione del sistema parlamentare e alla convinzione che sia possibile realizzare una trasformazione sociale attraverso lo strumento legislativo»,
La contrapposizione tra riforma e rivoluzione, e quindi tra riformisti e rivoluzionari, diventa più forte nel campo del marxismo, soprattutto per merito di Lenin che criticò aspramente il riformismo ritenendolo un tradimento della rivoluzione, un trucco della borghesia per far spegnere sul nascere i movimenti rivoluzionari e una scorciatoia opportunistica per i leader socialisti che si dichiaravano riformisti.
Un articolo del 1913, scritto da Lenin, mette bene in evidenza questa antitesi. Per il rivoluzionario russo, «il riformismo è l’inganno borghese degli operai che, nonostante i parziali miglioramenti, restano sempre schiavi salariati finché esiste il dominio del capitale». Ancora, prosegue Lenin, «la borghesia liberale, porgendo con una mano le riforme, con l’altra mano le ritira sempre, le riduce a nulla, se ne serve per asservire gli operai, per dividerli in gruppi isolati, per perpetuare la schiavitù salariata dei lavoratori. Il riformismo, perfino quando è del tutto sincero, si trasforma quindi di fatto in uno strumento di corruzione borghese e di indebolimento degli operai. L’esperienza di tutti i paesi dimostra che prestando fede ai riformisti gli operai hanno sempre finito con l’essere gabbati». In quest’ottica, i riformisti sono degli avversari subdoli che «cercano, mediante elemosine, di dividere e ingannare gli operai, di distoglierli dalla lotta di classe». In sintesi, «quanto più forte è l’influenza dei riformisti sugli operai, tanto più impotenti questi sono, tanto più dipendono dalla borghesia, tanto più per questa è facile ridurre a nulla, con diversi sotterfugi, le riforme». Una situazione che, secondo Lenin, valeva sia per la Russia che per l’Europa dove «riformismo significa di fatto rinuncia al marxismo e sua sostituzione con la “politica sociale” borghese».
L’eredità della critica leninista al riformismo e la sua influenza sono state molto forti in Italia e, non a caso, quando finì il Partito comunista, gran parte dei giovani dirigenti postcomunisti rispolverarono questo termine utilizzandolo come patente di moderato per sperare di poter concorrere con più chance al governo del paese. Il primo iniziale boom del termine riformismo risale proprio ad allora.
Col tempo, però, la parola è stata snaturata rispetto alla sua accezione. “Riformismo” è diventato un termine ombrello, molto ideologico, con il quale sono state coperte politiche tutt’altro che riformiste, almeno nel senso di sinistra. Sotto quest’etichetta, sono finite privatizzazioni, liberalizzazioni, riduzione dei diritti del lavoro, diminuzione del welfare, eccetera. Più che «politiche sociali», come le chiamava Lenin, il riformismo in Italia è stato un insieme di politiche anti-sociali, o meglio liberiste, che hanno ridotto lo spazio del pubblico e accresciuto quello del privato. Per questa ragione, oggi in Italia, le culture politiche principali tendono a definirsi tutte riformiste: perché non oppongono resistenza a queste politiche anti-sociali che, recentemente, trovano espressione nel rigore economico e nell’austerity imposte dall’Europa e, ancor più, dalla Germania.
L’Italia è, perciò, il paese del riformismo nella misura in cui con esso ci si riferisce a tutt’altro.
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