Primarie Parole schiave

Prendete la parola primarie. Il dibattito pubblico le usa indicare per cose molto diverse. Eppure, a ben vedere, con essa ci si riferisce a un fenomeno abbastanza definito. Per capirlo bene, mai come in questo caso, è opportuno partire dal significato letterale del termine: primaria, che viene prima. Prima in una successione che può essere, ad esempio, temporale. Un’elezione primaria, perciò, viene prima di un’altra elezione che è secondaria, ossia l’elezione vera e propria. Essa, però, si distingue per molte cose da un’elezione normale. In primo luogo si tratta di un’elezione intrapartitica e, talvolta, intracoalizionale. La scelta, dunque, non avviene tra partiti, ma dentro lo stesso partito (o coalizione). In secondo luogo è un’elezione fortemente personalizzata dove non mancano i contenuti, ma nella quale la narrazione prevalente è focalizzata sulle persone. In terzo luogo, essa è una selezione per una candidatura a un ruolo istituzionale; si tratta di una puntualizzazione che in Italia è stata dimenticata portando a qualche confusione.

Le primarie, com’è noto, sono nate negli Stati Uniti d’America più di un secolo fa e a spingere per la loro introduzione fu il Partito Democratico. Esse vennero introdotte con l’idea di indebolire gli apparati di partito e le modalità con le quali gestivano il  consenso. Era opinione assai diffusa, infatti, che le “macchine politiche” di partito, grazie alla spregiudicatezza dei boss del consenso, avessero armai inquinato la democrazia grazie alle forme di patronage o, se si preferisce, di clientelismo, e di spoils system.  Questo sistema di degenerazione impediva, secondo l’interpretazione che iniziò a prevalere negli ambienti progressisti, che i migliori, cioè le personalità politiche estranee a pratiche opache e più capaci politicamente, potessero emergere nei partiti. E così si pensò di cercare un metodo che rendesse più trasparente la selezione del ceto politico che fu trovato nelle elezioni primarie.

Sul paradosso che si è verificato nel corso del tempo tra gli effetti sperati e quelli registrati si potrebbe scrivere molto. Certo tutta questa grande apertura ai migliori e tutta questa grande trasparenza democratica non c’è stata, basti pensare che sono diventati presidenti due Bush, padre e i figlio, e che una moglie di un ex presidente, Clinton, dispone di una poderosa macchina personale con la quale ha conteso la candidatura a Barack Obama e che potrebbe diventare la futura candidata dei Democratici.

In Italia, le primarie hanno avuto una storia particolare e con tante incomprensioni. Di esse si cominciò già a parlare nei primi anni Ottanta. Proprio allora, durante i lavori della Commissione Bozzi, alcuni suoi membri avanzarono l’ipotesi di introdurre e regolamentare per legge le elezioni primarie per selezionare i candidati. Poi, la loro storia ebbe un percorso carsico ma senza uno sbocco fino al 2004 quando i mass media diedero molta attenzione alle primarie del partito Democratico americano. Molti politici e commentatori europei seguivano con attenzione quella contesa perché speravano che il candidato vittorioso potesse poi sconfiggere il presidente uscente George W. Bush. In tanti, infatti, avevano criticato le scelte di politica estera americana dopo l’11 settembre, specialmente la guerra all’Iraq e per questo i loro obiettivi erano puntati sulla possibile alternativa. Alternativa che non si concretizzò.

Nello stesso periodo in cui andavano in scena le elezioni primarie americane, che da noi ebbero ancora più attenzione, in Italia fu stipulato un accordo politico tra Rifondazione Comunista e gli altri partiti del centrosinistra per le elezioni regionali del 2005 e in vista delle politica del 2006. Per alcune settimane, tra la fine dell’estate e l’autunno del 2004, i giornali si riempirono di un termine dal suono ruvido: Gad, che non era il nome del famoso giornalista Lerner, ma stava per Grande Alleanza Democratica, in seguito, e per fortuna, ribattezzata Unione. Insomma, poiché Romano Prodi voleva diventarne leader, ma non aveva un partito dietro, pensò di utilizzare le primarie per legittimarsi come capo della coalizione. L’anno successivo, a ottobre, si fecero per la prima volta le primarie nazionali del centrosinistra, dopo che a gennaio c’era stata un’anteprima in Puglia nella quale fu scelto Vendola, nelle quali vinse Prodi.

L’esperienza del governo Prodi durò poco. Nel mentre era nato un nuovo partito, quello Democratico, che assunse le primarie, da statuto, come mito fondativo, a cominciare dall’elezione del proprio segretario. Si chiamò, però, primaria una cosa che primaria non era. Infatti, la scelta di una candidatura è una cosa diversa dalla scelta di un segretario. Soprattutto, si incorporò un’idea non costituzionale secondo la quale esisteva “il candidato premier”, dimenticando che in Italia non esiste il premier e, soprattutto, non esiste le sua elezione da parte dei cittadini. Qualunque primaria per “il candidato premier” è, dunque, dal punto di vista costituzionale, priva di ogni senso.

In Italia, di recente, sono state introdotte nuove elezioni che non sono né primarie né secondaria e che potremmo definire “doparie”, sia perché vengono dopo e sia perché dopano il risultato elettorale. Le “doparie” sono quelle che hanno portato Matteo Renzi a Palazzo Chigi. Prima, infatti, ci sono state le primarie della coalizione Italia Bene Comune dove c’era anche Sel e che hanno scelto Bersani come “candidato premier”. Poi ci sono state le elezioni secondarie, cioè quelle vere, nelle quali per un soffio la coalizione di centrosinistra ha ottenuto la maggioranza solo alla Camera. Infine c’è stata l’elezione diretta del segretario del Pd, cioè le “doparie”, dove è prevalso Matteo Renzi che, in virtù di questo risultato, è diventato presidente del Consiglio.

Le “doparie” si sono rivelate le meno partecipate, ma di gran lunga le più importanti, infatti, grazie a esse, non solo è stato rovesciato il risultato delle primarie del 2012 (quando Bersani sconfisse Renzi), ma è stato possibile che il parere di poco più di un milione di persone fosse più importante, per le sorti politiche del nostro Paese, del voto di oltre 35 milioni di elettori.



Ha conseguito il Dottorato di ricerca in Sociologia Politica nella facoltà di Scienze Politiche”Cesare Alfieri dell’Università di Firenze. Svolge attività di ricerca nel Dipartimento di Comunicazione e Ricerca Sociale della Sapienza dov’è tra i coordinatori dell’Osservatorio Mediamonitor Politica. Scrive per riviste e quotidiani. Tra i suoi libri: Giovanni Goria. Il rigore e lo slancio di un politico innovatore, (con P. Giaccone, Marsilio, 2014), No Logos. Il Movimento No Global nella Stampa italiana (Aracne, 2013) e Walter Veltroni. Una biografia sociologica (Ediesse 2012)"


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