Sommario
Nel corso del 2020 si profila una lunga emergenza globale che mette a nudo, tra le altre cose, i molti nodi irrisolti negli affari internazionali. La crisi economica che investe molti Paesi (specie nell’Eurozona), per esempio con la ristrutturazione del mondo del lavoro, ne è la più vistosa e immediata conseguenza. Ma la vera novità sembra costituita dal prevalere dell’opzione della tecnica come approccio integrale ai problemi che vanno sorgendo. Tale crisi, di per sé non inaspettata, e tali opzioni innovative, si sovrappongono al permanere degli approcci strategici ereditati dagli assetti internazionali. Una mescolanza rischiosa che può amplificare in modo improvviso le ragioni di una sorta di “guerra civile” globale, magari derivante dalla proiezione generalizzata di frizioni locali. Occorre dunque ripensare gli attuali criteri dei rapporti tra gli attori globali, tenendo presente che la gestione tecnica di per sé non fornisce soluzioni o princìpi effettivi per decidere, ma rischia al contrario di portare le questioni più delicate o urgenti a un punto di stallo. Lo strumento di una vera mediazione possibile sembra essere ancora una volta quanto oggi resta della politica, postulando una rinnovata consapevolezza della responsabilità degli attori mondiali verso il bene di tutti.
Abstract
The year 2020 is faced with a long lasting global emergency, which (among other things) is exposing most of the very issues unsolved in international affairs. The economic crisis that currently plagues most countries (particularly in the Eurozone), e.g. restructuring the working world, appears to be its immediate and largest result. But the real novelty seems to be the prevalence of the choiche of technology view as an integral approach to the challenges that are arising. This crisis, not really surprising in itself, and these innovative options, are overlapping the heritage of strategic approaches, which remains in foreign affairs. This creates a dangerous mix, which could unexpectedly amplify the reasons for a sort of global “civil war”, perhaps resulting from a generalized impact of some local contrast. It seems necessary, thereofore, to rethink the actual standards in global relations, remembering in particular that technical/technological management does not provide, by itself, any suitable solution or principle in order to take a decision. But on the contrary, it runs the risk of leading the most delicate or sensitive issues to a dead end. Ultimately, policy (at least what is left) of the global actors appears once more to serve as the very instument for mediation, expecially establishing the principle of a renewed awareness of their responsibility for the good of all.
Lo scenario di un’emergenza globale permanente, quale si è venuto profilando e approfondendo nel corso dell’ultimo anno, rischia di far venire in risalto in una volta sola le troppe questioni internazionali ancora aperte ed enfatizza l’urgenza delle ragioni potenziali, più o meno latenti o espresse, di un conflitto che può diventare globale. A ben vedere non si tratta di uno scenario del tutto nuovo o inatteso. Per lo meno su un piano teorico infatti, negli ultimi decenni sono stati innumerevoli i contributi, di ispirazione quantomai diversificata, volti a indagare e approfondire simili eventualità. Per citarne uno di ampio respiro, si ricorderà come fin dal 1986 Ulrich Beck abbia teorizzato una società del rischio globale, approfondendo in modo estremamente interessante i problemi legati alla prefigurazione del rischio nell’immaginario collettivo e nelle classi dirigenti. Anche Habermas (1986) riprendendo il tema da un’altra angolazione, nota come le contraddizioni emergenti tra gli attori di un circuito comunicativo sempre più asimmetrico, in mancanza di una solida base di principi condivisi, mettano a repentaglio la pacifica convivenza sociale.
Sul piano delle contingenze va tuttavia considerato che la crisi presente ingloba, nella sua evidente complessità, un variegato numero di crisi specifiche afferenti a settori diversissimi per importanza e vocazione sociale. Se nelle crisi cicliche del Novecento si ponevano in risalto particolare i temi legati all’economia, tale rilievo costituisce un aspetto certamente non minoritario anche del caso presente. D’altra parte, questa crisi assume un taglio e una portata tutte particolari, essendone investito a vario titolo ciascun ambito della vita associata, dalla didattica alla sanità, dalla tutela previdenziale alle attività culturali, dalle attività amministrative alle forme della giurisdizione. In tale scenario sembra dunque che la causa immediata di rottura di un certo sistema, l’emergenza sanitaria, possa tendere in tempi relativamente brevi a passare in secondo piano sull’agenda delle questioni globali, mentre altri aspetti specie internazionali, già presenti sottotraccia da tempo, possano prendere il sopravvento in maniera inedita, per un motivo o per l’altro. L’impressione generale è dunque che la crisi del 2020 acceleri in modo imprevedibile l’evoluzione di rapporti internazionali già da tempo strutturalemnte in crisi, o perché in posizione di stallo cronicizzato (come le questioni turca, ucraina e medio orientale), o perché ancora eccessivamente volubili (come i rapporti Usa-Cina).
Sul piano interno generale non si mancherà poi di notare come fin dal principio del decennio scorso, con l’emergenza terroristica internazionale e l’ininterrotta stagione di guerre che ne è seguita, gli studiosi più attenti osservassero che “[…] «in nome dell’Occidente» si sia avviato un meccanismo di grave delegittimazione dei suoi principi e innanzitutto della idea moderna di diritto” (Preterossi 2004, p.X). Ma se il termine “Occidente”, preso nell’accezione neocon allora prevalente, oggi sembra in parte aver ceduto il passo ad altri tentativi di categorizzazione politico culturale più sfumati e morbidi, resta pur vero che quest’ampio processo di delegittimazione di autorità e principi non solo non ha conosciuto un significativo rallentamento ma sembra incrementarsi, in forme variegate, proprio in tempi recenti. Con l’erosione prolungata del consenso sociale l’autorità non ha altra alternativa ai giri di vite, se vuole sopravvivere, e nel contempo è costretta a mettersi sempre più in mostra come “spettacolo” (Débord 1967) per evitare ulteriori cali di legittimazione. Ma in tal modo si espone al rischio di imporsi all’opinione pubblica più come una moda che come un modo di essere, contribuendo a togliersi dell’altro terreno di sotto ai piedi e condannando anche tutta la dirigenza pubblica futura, nel migliore dei casi, all’irrilevanza. È in fondo il problema più antico del potere, declinato secondo i tempi attuali.
Se si considera invece il piano giuridico interno, si nota per esempio che le misure di contenimento del fenomeno epidemico, adottate in modo simile in molti Paesi (ognuno con ordinamenti e tradizioni culturali lontane e diverse), tra gli ultimissimi giorni del 2019 e i primi mesi del 2020, pur nella loro perentoria giustificazione non mancano di suscitare gravi perplessità in letteratura sotto il profilo della legittimità costituzionale, anche per il rischioso precedente che pongono (per il caso italiano si vedano ad esempio Cassese 2020, Prospero id.). Allargando lo sguardo al punto di vista sociale, sembra lecito chiedersi inoltre se gli effetti maggiori non siano destinati a emergere nel medio periodo, in particolare sotto il profilo psicologico, nelle masse che temono di vedere definitivamente compromessa la prospettiva di un’esistenza dignitosa soprattutto a causa dell’ondata di disoccupazione, del mancato profitto per un tempo prolungato e di un paventato rialzo dei prezzi. In una pubblicazione che ha fatto discutere, Henry-Lévi si domanda per esempio in maniera non banale se il contenuto recondito dell’epidemia planetaria non sia in definitiva che la follia generalizzata. Tutti elementi questi che in molti casi, anche se fossero più attenuati, giustificherebbero per lo meno una qualche perplessità sulla tenuta del patto sociale democratico.
Ma anche tali questioni, con i loro connessi, non rappresentano una di quelle novità assolute capaci di configurare una faglia, diacronica e soprattutto concettuale, tra un “prima” e un “dopo”. Al di là di certe frettolose semplificazioni infatti, se si prende ad esempio il caso italiano è facile constatare quanto i motivi del malcontento diffuso, dalla sfiducia pubblica alla polarizzazione economica e culturale, fossero tutti abbondantemente presenti da anni. Si nota insomma, più che un fenomeno inedito, un’accelerazione della lunga crisi che con alterne vicende ha investito il paese almeno dal 2008 in avanti, portando a un relativo livello di maturazione i vari problemi. Volendo essere ancora più obbiettivi, non si può fare a meno di notare come la celebre formula della “transizione infinita” coniata da De Rosa a proposito della politica italiana degli anni Novanta, rimanga una chiave di lettura valida fino a oggi senza sostanziali discontinuità.
Ma anche allargando lo sguardo alla situazione europea, anche a quella statunitense, risultano abbastanza chiari questi tre fenomeni molto generali, diversi e concomitanti che si presentano in maniera analoga in vaste platee e in soggetti variegati; fenomeni che si vanno incrementando in maniera sempre più evidente, soprattutto nei Paesi occidentalizzati, dopo la dissoluzione del Patto di Varsavia (si badi però che le variazioni concomitanti non sempre sono correlate). Si tratta appunto dell’involuzione culturale, della delegittimazione dell’autorità e dell’erosione del ceto medio.
Ciò che invece sembra piuttosto nuovo, e che viene portato all’attenzione generale nel corso di quest’anno, è la drastica perdita di credibilità della visione del mercato globale come meccanismo omeostatico complesso, che tende cioè ad autoregolarsi verso una situazione generale di equilibrio. Si osserva in tal caso l’interazione tra fattori diversi. La crescente asimmetria degli attori presenti sul mercato e il tentativo di un rilancio in grande stile dell’intervento pubblico proprio in occasione della crisi presente, si combinano in modo inedito con l’esplosione dell’economia immateriale, delle piattaforme di gestione di ingenti flussi informativi (come i vari social media) e del lavoro a distanza. A pagare dazio sono soprattutto l’economia di prossimità e il lavoro artigiano (incluse le tradizionali attività della cultura), che un po’ dappertutto vedono revocata in dubbio la stessa possibilità di continuare a esistere. E resta il problema delle zone franche globali, sovente impostate su base territoriale, che sono legate sia a scelte di politica del lavoro (si tende a investire nelle aree che offrono costi minori), sia a scelte di politica fiscale, talora favorite da Paesi in cerca di rilancio, dove è facile che si sviluppino fenomeni di corruzione di vasta portata.
Dal punto di vista politico sociale d’altra parte, nel corso di quest’anno i principali governi occidentali (quale più, quale meno) sembrano aver accumulato un ulteriore deficit di credibilità. Salvo eccezioni infatti, sia la politica dell’intransigenza con le chiusure a oltranza, sia l’approccio più morbido adottato in forme diverse da Paesi come la Svezia, gli Stati Uniti o il Brasile, si scontrano evidentemente con un’opinione pubblica quantomai inquieta e volubile. Prova ne sia per esempio la tormentosa vicenda elettorale statunitense. Se si considera insomma la taglia nazionale, sembra evidente che le varie strategie di risposta a questo spettro, dove talora si è creduta incarnarsi la paura stessa, rispecchiano una volta di più il divorzio tra governanti e governati dove si revoca in dubbio lo stesso meccanismo della rappresentanza politica. Anche per questo motivo, almeno nei Paesi dell’area Euro, la possibilità di un finanziamento per la ripresa da parte dell’Unione suscita una certa aspettativa. Ma proprio l’Europa, che ha fatto dell’integrazione monetaria ed economica la sua bandiera, in mancanza di una vera integrazione politica interna e di un’azione diplomatica unificata rischia di risultare alla fin fine l’anello debole della catena. Non appare singolare, ad esempio, che nell’ambito di un’istituzione sovranazionale come l’Unione i rapporti tra singoli Stati membri siano regolati da criteri, peraltro fumosi ed eterogenei, che stanno ancora a metà tra l’attività diplomatica e il livello intergovernativo? Ci si aspetterebbe per lo meno la schietta, leale e corretta cooperazione tra governi, su un piano di parità tra le funzioni dicasteriali corrispondenti.
Nell’ambito dei rapporti strategici globali poi gli ottimisti a breve scadenza, quelli che Stanislav Lec prendeva di mira nei suoi aforismi, traggono motivo di conforto proprio dall’interconnessione di affari e interessi propria del mondo odierno. Tale interconnessione disinnescherebbe i rischi di un conflitto di vasta portata perché renderebbe tutti dipendenti da tutti. Eppure è un fatto che nei decenni l’escalation di conflitti strategici locali e di guerre commerciali più ampie si accompagnano a tale crescente integrazione planetaria, fin dai tempi della guerra fredda. Semplificando al massimo, si può dire insomma che finora la conflittualità media sembra andare di pari passo con l’integrazione globale anziché venirne disinnescata. Anche se i conflitti a bassa intensità rappresentano per un verso delle tristi valvole di sfogo, la cosa d’altra parte non esclude di per sé la possibilità di conflitti maggiori, che ne rappresentino magari la proiezione incontrollata su vasta scala.
Inoltre, con un occhio alla storia vale ancora la pena di ricordare quanto costò agli assetti europei (in termini socioeconomici, politico militari e umani) la guerra dei Trent’anni, flagello “mondiale” della prima metà del Seicento (sia pure su scala continentale, visto con le misure attuali). Una pagina lunga, atroce e politicamente sterile che si intreccia variamente alle vicende di una grande epidemia di peste (quella di manzoniana memoria) e alla crisi finale del mercantilismo spagnolo. Una questione che secondo le misure odierne potrebbe venire tranquillamente derubricata a problema regionale, tutto sommato di gravità contenuta. Eppure, facendo le debite proporzioni molti degli elementi di un simile scenario paiono ripetersi. E si ricordi che la guerra ineluttabile come ultima disperata risorsa nel tempo di crisi è un classico della stupidità dei “prìncipi”, mai passato di moda purtroppo.
Oggi poi la crescente disparità di peso degli attori coinvolti, siano essi pubblici o privati, con la crescente asimmetria che ne deriva, si combinano in modo inedito con il persistente operare di temi e interessi caratteristici della vecchia politica di potenza. Enormi concentrazioni di poteri, interessi e risorse strategiche, aumentando i punti di contatto reciproco aumentano per conseguenza i punti di frizione che possono diventare cause di ulteriori conflitti. Bisogna ricordare infatti che un’integrazione mondiale non può avvenire solo in senso orizzontale, per esempio eliminando o ammorbidendo i dazi commerciali, ma anche e soprattutto in senso verticale, partendo dalla politica delle nazioni e ancora prima coinvolgendo le singole comunità in programmi che dischiudano quelle possibilità di lavoro, dignità, diritti e partecipazione cui legittimamente aspirano tutti i popoli, non solo quelli privilegiati dal benessere o dal clima.
Insistendo sulla via percorsa fin qui si rischia non solo di acuire le frizioni locali già esistenti, ma di instaurarne eventualmente di nuove con esiti difficilmente prevedibili. Le ricadute in tal caso sono inevitabili in tutte le macroaree strategiche: geopolitica, degli scambi reali e dei servizi, delle attività produttive, dell’informazione. L’incremento della conflittualità può certo venire tamponato, per qualche tempo, con le clausole di partenariato economico e commerciale (ad esempio nello sviluppo congiunto delle attività spaziali da un lato, e una rete dell’artigianato dall’altro), con i programmi di scambio interculturale nella ricerca, o più banalmente con i trattati. Ma il problema resta pur sempre, a questo stadio, escogitare quel modus commune vivendi che mostri a tutti i benefici dell’approccio globale e non lasci sacche troppo consistenti di malcontento e rivendicazioni inappagate. Un obbiettivo immenso, certamente, per il quale la prudenza consiglierebbe una ponderata riconsiderazione di molti dei meccanismi militari, informativi e infrastrutturali apprestati finora. A tal proposito si può ricordare quanto andava scrivendo Severino in tempi ormai lontani: “Ma se ci si propone di disporre del tutto e di controllarlo, ogni decisione resta differita all’infinito. È la paralisi. Le soluzioni «globali», la pretesa di una trasformazione radicale della società, impediscono di affrontare i problemi immediati, particolari, concreti; impediscono di «decidere” (Severino 1979, p.283). E proprio il tema del “decidere”, del separare un “prima” da un “dopo”, una classe di priorità da un insieme di sfondo, sembra particolarmente sollecitato nel momento attuale.
Lo scenario che si va profilando in tal modo, lungi dal presumere a una felice integrazione dei popoli, va piuttosto assomigliando a un bellum omnium contra omnes, sorta di guerra civile planetaria. Tra i più vistosi elementi di rischio si può ricordare ad esempio il tentativo di attrazione dell’Ucraina nell’orbita della Nato in atto ormai da tempo, favorito da motivi economici interni, certo, ma rischioso nella deliberata intenzione di mettere sotto pressione la frontiera russa (Mcconnell 2015, Gabellini 2016). Senza considerare lo strumento di difesa spaziale nell’est europeo e le conseguenti provocazioni russe con test balistici nell’area, unitamente alla più recente corsa all’accaparramento dell’Artico. Dinamiche alle quali probabilmente non è estraneo l’incidente, grave in sé, ma potenzialmente disastroso, occorso al battello Losharik nel Mare di Barents il 2 luglio 2019. A fare da sponda a questa frizione c’è poi la questione iraniana che rimane un tassello fisso della politica occidentale nell’area e che d’altra parte rappresenta un diretto motivo di scontro sempre con la Russia (Huntington 1996, Mcconnell cit.) Appare inoltre quasi superfluo, purtroppo, ricordare ancora quanto i gineprai dell’Irak, della Siria e del Libano contribuiscano a menomare sempre più ogni speranza di pacificazione del Medio Oriente (alimentando peraltro malviventi e terroristi), laddove ogni sforzo veramente responsabile andrebbe convogliato per la tutela dello Stato israeliano e congiuntamente di quello palestinese. O infine le questioni legate alla politica cinese, sia nella proiezione territoriale in Hong Kong e nel Mar Cinese Meridionale, sia nella gestione delle reti di comunicazione.
Ma tali questioni indubbiamente problematiche non vengono colte appieno se non inquadrandole in un contesto che, di per sé, esula dagli ambiti peculiari dell’economia, della strategia e delle relazioni internazionali. Il 2020 segna con tutta evidenza una tappa di “presa” della tecnica sul mondo; “tecnica” sia in quanto strumento, sia come forma di organizzazione. Basti pensare alla rivoluzione del mondo del lavoro o della ricerca, all’incremento delle transazioni informatiche e dei servizi di consegna a domicilio, alla drastica rimodulazione della mobilità e della circolazione delle persone. A parte gli effetti immediati di incremento delle asimmetrie, di cui di è detto prima in sintesi, questa serie di eventi pone all’attenzione generale un tema in sé non affatto nuovo, ma che sembra fare il suo definitivo ingresso nella storia in concomitanza con i tentativi di contrasto al fenomeno epidemico. Questo tema riguarda la destrutturazione dell’economia come forma guida della società, o meglio la sua ristrutturazione in un senso nuovo, che diventa subordinato e strumentale rispetto alla tecnica.
Anche a questo capitolo dello sviluppo dell’età industriale sono dedicate innumerevoli analisi, trattazioni e prefigurazioni almeno nell’ultimo secolo e mezzo: da Marx a Nietzsche, da Husserl a Heidegger, da Foucault a Severino. Per non parlare delle celebri distopie letterarie o cinematografiche, tanto spesso citate negli ultimi mesi. Se si vuol prendere ad esempio proprio Severino, che ha dedicato al tema una parte notevole della sua attività, in Tramonto della politica egli nota che “è già in atto il processo in cui l’economia sta a sua volta cedendo alla tecnica la guida della società. […] Lo scopo […] tende a non esser più l’incremento indefinito del profitto privato, ma l’incremento indefinito della potenza prodotta dalla tecno-scienza. Un processo che si lascia alle spalle ogni nostalgia del marxismo, della politica, della tradizione morale-religiosa” (Severino 2017, p.39). La tesi, riproposta più volte, è che “Il capitalismo si serve di un servo (la tecnica) che lavora per lo spodestamento del padrone” (ivi, p.81). Lungi dall’essere un fatto puramente ingegneristico o scientifico (che ne costituisce semmai la manifestazione concreta più vistosa), la tecnica viene qui intesa come capacità indefinita di generare scopi, ossia la volontà di potenza nietzschana che, tradotta in atto e resasi manifesta anche per mezzo degli apparati tecnologici, aspira a perpetuare se stessa legittimandosi come forma guida del mondo.
Una prospettiva che si può cogliere ancora meglio se si considera l’aspetto oggi più pregnante di questo “movimento” della tecnica, quello dove la genetica si incontra con l’informatica e con quanto rimane della politica. Il termine “biopolitica” pare adatto al caso, sebbene da Foucaut in avanti assuma connotazioni variegate; ad ogni modo la questione di base rimane il rapporto tra mezzi e fini, tra persona e strumento. Come si afferma, “Non solo la «scienza» può oggi proporsi di costruire l’uomo, ma può proporsi di togliere all’uomo ogni limitazione e di costruire addirittura Dio, che in altri tempi veniva inteso come oggetto proprio della contemplazione.” Una politica che si ponesse perciò stesso come teurgia, meta finale della società della produzione industriale, pone immediatamente il problema di chi, o che cosa sia il mezzo, e quale invece il fine: “La tecnica è oggi la radicalizzazione del «produrre» […], un movimento che culmina nel dominio della «produzione-distruzione» della totalità dell’essere.” Come viene precisato infatti, “«Dio» e «tecnica» sono i due modi fondamentali con cui la civiltà occidentale ha affermato la produzione delle cose. Cioè – si aggiunge – sono i due modi fondamentali del nichilismo.” (Severino 1982, pp.135-40, c.vo nell’originale). E la questione di mezzi e dei fini si ricollega ancora una volta al problema della tecnica come inveramento del nichilismo, ossia come produzione sistematica, industriale e organizzata della morte. È dato cogliervi, per contrasto, la ben nota fobia della morte delle società del dopoguerra, un tema che appare quantomai attuale in tempi di epidemia planetaria: “Quando l’interesse per la macchina sostituisce l’interesse per la vita […] si realizza l’essenza della necrofilia. Nella civiltà della tecnica l’uomo […] ha una tale fobia dei cadaveri […]” (Severino 1979, p.279). Dietro a questo discorso è facile scorgere il problema immediatamente connesso: la violenza “necessaria”, “pura” (nel senso di Benjamin) e illimtata che si accompagna a un’altrettanto “puro” e illimitato dominio della tecnica.
La trasformazione profonda che sembra manifestarsi ora, quella che rende quantomai rischioso il persistere delle questioni internazionali irrisolte e la possibilità dell’opzione militare come strumento di “decisione” ultima nelle mani del “più forte” (figura che nella mutually assured destruction è semplicemente assente), non riguarda in primo luogo una possibile ristrutturazione dell’economia, ma la ristrutturazione dei moduli operativi del decidere, anche in seno alla comunità internazionale. Tanto per fare un esempio, uno spazio sempre più consistente dedicato all’automazione (si pensi al trattamento dei flussi informativi di interesse strategico, ai dati biometrici, alla programmazione delle scorte e degli accaparramenti) erode progressivamente lo spazio della trattativa e della mediazione, i tradizionali strumenti di composizione delle controversie.
Una società della tecnica globale infatti non apre solo il varco alla distopia del controllo totale sulle persone, ma anche alla distopia di una permanente “guerra civile” mondiale dove in effetti nessuno è più in grado di gestire le opzioni perché il potere di scelta si riduce progressivamente a zero (interessanti osservazioni si trovano in Agamben 2020). Il problema però è un altro. Se alle auspicate soluzioni tecnico scientifiche si demanda quanto la politica corrente non vuole o non sa proporre, quel tanto di umanità che rimane, sempre, nell’interazione politica (la quale è un fenomeno propriamente umano), la si vede scomparire. Al suo posto si troverà magari il vago messianismo degli imbonitori che talora può imporsi con la forza di un mito, il mito platonico della caverna. Scompare però l’innervatura del princìpio critico secondo il quale la dignità umana è inerente alle persone rendendole sempre dei fini e mai dei mezzi. E la degradazione terminale della persona a mezzo per un fine che le si rivela radicalmente estraneo e contrario è prospettata, tra l’altro, sotto forma di olocausto nucleare.
A quanto detto si potrebbe obbiettare che una tecnica così follemente anarchica da rivoltarsi totalmente contro il suo artefice sia essa stessa suicida, ma tale è appunto la posizione di quanti vi leggono, come Severino, la manifestazione compiuta del nichilismo. Si tratta peraltro di uno scenario, forse non irreale, ma già ampiamente prospettato in letteratura. Un’osservazione forse più consistente può venire invece dalla lettura di Husserl. Nella Krisis (1936) egli avverte che la radicale artificialità delle scienze, ossia il loro progressivo e totale distacco dal mondo dell’ “immediatezza” della vita (Lebenswelt) comporta un richiudersi delle scienze in loro stesse, con l’esito di un definitivo estraniamento rispetto al mondo dei fini. In effetti, l’artificialità radicale di qualcosa può essere vista in tal senso come la radicale alienazione rispetto al suo fine quale che sia, che viene smarrito nelle spire di un circolo vizioso tutto interno alla “cosa” stessa. Come è noto, al pensatore austriaco è presente in modo particolare il problema dell’oggettività e della sua dissoluzione a opera del soggettivismo nelle scienze: tale dissoluzione segna insieme la nascita e a mano a mano la crisi della scienza moderna e contemporanea.
Quella che lui chiama “crisi” della scienza moderna va di pari passo con l’esplosione della tecno scienza: quanto più si conseguono risultati tecnicamente impressionanti, tanto più i fondamenti epistemologici sono revocati in dubbio. Ed è appunto questa sorta di soggettivismo matematizzante, che aliena da sé ogni possibile versione di un mondo dei fini ultimi, a costituire il prototipo di quanto oggi si intende per “tecnica”. Tuttavia, si può notare come una siffatta versione della tecnica abbia un fine autoreferenziale, nasca cioè incapace di adottare la “decisione”. Se tale questione si leghi più o meno profondamente al tema dell’intenzionalità, non mette conto dirlo qui. È invece interessante vedere come il decidere tecnico, in questo caso, diventa un decidere impossibile, paralizzato. E sulla scorta di Schmitt, Agamben (2003) fa notare appunto quanto l’atto del decidere pesi nella costituzione e nella soluzione dello stato d’eccezione: il decidere è ciò che separa la riacquistata normalità dall’eccezione. L’eccezione permanente come possibilità concreta, l’anomia generalizzata e durevole, sono infatti destinate a sfociare o nella violenza pura di cui parla Benjamin, o nella ristrutturazione spontanea di un ordine alternativo, quale che sia. Considerazioni che in fondo paiono attagliarsi al caso presente.
Per Husserl, che guarda soprattutto al problema della scienza come forma della cultura, la riscoperta dell’oggettivazione sarà ancora nel cogito cartesiano. Per quanto interessa qui, non si può fare a meno di notare come la forma oggi plausibile del cogito, declinata secondo coordinate politiche, stia nell’assunzione della responsabilità e nella posizione esplicita della domanda.
La domanda da porre esplicitamente riguarda l’opzione di base: pace o guerra? Essa assume pertanto il valore di una scelta definitoria, nel senso che definisce un tipo di mondo, prospettandolo. Assume tale valore non solo perché impone alle coscienze un’opzione chiara, né unicamente perché la specie umana vi contempla lo spettro dell’autodissoluzione. È anche una scelta che pretende con insistenza l’assunzione di responsabilità da parte di tutti coloro cui compete. Sarebbe fin troppo facile a questo punto cadere nella tentazione di invocare il ritorno alla visione politica, alla cultura di un dialogo tra le nazioni finalmente serio, al di là e fuori dalla quale si fa più forte la tentazione di scivolare nel baratro.
Ma proprio dal senso di responsabilità cui richiama con insistenza la prospettiva, purtroppo, di operare una scelta simile, sembra venire enfatizzata la preziosità di disporre ancora di un consesso internazionale (sia pure con tutti i suoi limiti). Anzi, proprio con un occhio al senso di responsabilità comune, risalta più netta la necessità di coinvolgere tutti i soggetti di buona volontà nel compito di infondere nuova credibilità all’ordinamento internazionale, magari in base a meccanismi di legittimazione più corali e aggiornati sulla base del riconoscimento effettivo della pari dignità storica, giuridica e culturale tra tutte le nazioni.
Internazionalizzare le questioni aperte che riguardano veramente tutti, al di là degli ordini di grandezza (spesso soltanto apparenti) può costituire una risorsa preziosa di intelligenze e di confronti, ma solo se vi si applica la buona volontà comune e si rinuncia al puerile e dannoso proposito di demonizzare l’interlocutore quasi fosse un avversario programmatico.
D’altra parte gli eventi stessi pongono davanti a tutti, con altrettanta chiarezza, i criteri e i limiti dell’approccio internazionale e multiculturale ai pochi problemi veramente comuni. Direzioni che sembrano oggi le più adatte per incamminarsi verso la formazione di un indispensabile modus commune vivendi. Vale a dire verso la formazione di un catalogo di norme irrinunciabili e valide nella generalità delle prassi concrete, senza obliterare le specificità culturali dei popoli (il principale difetto di un certo universalismo giuridico e forse la causa principale del suo fallimento), ma ponendo tutti insieme nella realtà delle domande più urgenti: pace e convivenza basate sul reciproco riconoscimento in un regime di parità morale tra le nazioni.
Un cammino in salita, certo. Forse l’unico che valga la pena di prendere sul serio nel cerchio di anni inquieti ma interessanti, per dirla con Hobsbawm, come questi. Ricco infine di possibilità e, fino a prova contraria, ancora di speranza.
Riferimenti
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