Ospitalità e ostilità: un dilemma antico ancora attuale

Abstract:

L’universo dell’ospitalità viene ricondotto a due narrazioni principali: quella indoeuropea e quella abramitica. Benché diverse, queste due tradizioni offrono un’indicazione congiunta: in Europa e non solo, le concezioni e le pratiche dell’ospitalità si sono intersecate non di rado con concezioni e pratiche ostili. Come vedremo, all’abbraccio di pace più forte può seguire il rifiuto più radicale.

The universe of hospitality is traced back to two main narratives: the Indo-European one and the Abrahamic one. Although different, these two traditions offer a joint indication: in Europe and beyond, the concepts and practices of hospitality have often intersected with hostile concepts and practices. As we will see, the strongest embrace of peace can be followed by the most radical rejection.

Non avrei mai capito quel posto fino in fondo,

non avrei mai capito le regole di Speziale né i suoi abitanti,

la loro oscillazione costante fra l’odio e la misericordia,

i modi rabbiosi e poi quelle premure altrettanto brusche.

Paolo Giordano

Quando parliamo di ospitalità, da dove prendiamo le mosse? Esistono risorse culturali e religiose che, più di altre, hanno plasmato queste esperienze? Se esistono, quali sono in Europa le tradizioni che hanno influenzato di più le nostre concezioni e le nostre pratiche di ospitalità? L’universo dell’ospitalità può essere ricondotto a due narrazioni principali: quella indoeuropea e quella abramitica. Benché diverse, queste due tradizioni offrono un’indicazione congiunta: in Europa e non solo, le concezioni e le pratiche dell’ospitalità si sono intersecate non di rado con concezioni e pratiche ostili. L’ospitalità è un’esperienza sempre in bilico, sempre sul punto di trasformarsi in altro da sé, di far posto all’ostilità come se quest’ultima fosse la sua ombra. In questo senso, l’accoglienza di un estraneo rappresenta sempre un incontro complesso, dà origine ad una sorta di campo di lotta. Quello tra ospitalità e ostilità rappresenta un dilemma che viene dal passato ma che, se si osservano le aree di conflitto e le crisi legate ai flussi migratori, si ripropone anche oggi.

  1. Il dono dell’ospitalità. L’ospitalità come dono

Con l’espressione ospitalità si intendono pratiche diverse tra loro per tempi, luoghi e soggetti in questione, pratiche come i riti connessi all’arrivo degli stranieri nelle società arcaiche, oppure il patto di ospitalità che i greci sancivano con gli stranieri. Nella Roma antica, l’ospitalità è nata con un carattere interfamiliare e ha svolto rapporti d’accoglienza privata laddove lo stato non tutelava ancora lo straniero. Nell’età moderna, è stata coniugata da Kant come diritto ospitale. Oggi si torna a pensare all’ospitalità e al suo bagaglio di idee ed esperienze per affrontare una delle sfide più complesse della storia contemporanea: i flussi migratori. Esistono poi forme di ospitalità ancora tutte da indagare come l’affido, un istituto che permette ad un bambino in difficoltà di essere ospitato temporaneamente da una famiglia. Si tratta solo di alcuni esempi, sufficienti per comprendere quanto le esperienze di ospitalità siano diverse le une dalle altre.

Ma tutte queste esperienze – caratterizzate da geometrie variabili – hanno qualcosa in comune? Esistono delle costanti, dei tratti salienti dell’ospitalità?

L’ospitalità si svolge come un incontro, ma di cosa è fatto l’incontro ospitale? Secondo Jacques T. Godbout, l’ospitalità è una relazione che si stabilisce attraverso un particolare operatore simbolico: il dono. Colui che riceve parla con l’invitato il linguaggio del dono.1 Per questa ragione, se sulla porta della casa ospitante comparisse l’insegna Bed and Breakfast, l’ospite resterebbe un po’ confuso. Già Rousseau d’altra parte lamentava come solo in Europa si esercitasse l’ospitalità a pagamento2 e ancora non era in grado di osservare, come più tardi farà Max Weber, che nel sistema economico moderno l’economia domestica non fornisce più il modello di tutte le relazioni economiche perché quel modello ha lasciato il posto al mercato. Benché l’ospitalità a pagamento (il turismo) sia divenuta oggi uno dei business planetari più floridi, ciò non toglie che l’ospitalità-dono resti un’esperienza perfettamente praticabile e realmente praticata. Si tratta però di un’esperienza esigente. Colui che riceve infatti assume su di sé il rischio di effettuare una prestazione senza garanzia, il rischio di dare senza contropartita, come spiega Godbout. Quell’agire generoso manifesta una costante dell’ospitalità-dono: la gratuità.

Ospitare significa rischiare non solo nel senso che l’ospite potrebbe essere un profittatore (viene per prendere, sfruttare, rubare), ma anche nel senso che potrebbe rivelarsi un distruttore (viene per devastare, saccheggiare, uccidere) della propria casa e/o della società di accoglienza. L’ospitalità-dono assume su di sé questo pericolo e si svolge come una scommessa senza condizioni, un “fidarsi interamente” come scrive Marcel Mauss nelle Conclusioni di sociologia generale e di morale.

In tutte le società che ci hanno immediatamente preceduto e che ancora ci circondano, ed anche in numerose usanze connesse con la nostra morale popolare, non esiste via di mezzo: fidarsi interamente o diffidare interamente; deporre le armi e rinunciare alla magia, o dare tutto: dalla ospitalità fugace alle figlie e ai beni. E’ in uno stato del genere che l’uomo ha rinunciato a restare sulle sue e si è impegnato a dare e a ricambiare. 3

Cosa pensare di questa concezione iperbolica del donare e dell’ospitare? Quel “dare tutto” aprendo la porta all’estraneo, offrendo i propri beni e perfino le proprie figlie non è sintomo di estremismo? Un estremismo della gratuità, della bontà, della santità? Tutt’altro: dare fiducia, anzi scommettere sulla fiducia non è sintomo di cecità ma di lucidità, non è testimonianza di pace ma volontà di uscire dall’ostilità e dalla guerra, continua Mauss:

Il fatto è che non aveva scelta. Due gruppi di uomini che si incontrano non possono fare altro che: o allontanarsi – e – se si dimostrano una diffidenza reciproca o si lanciano una sfida, battersi – oppure venire a patti.4

Allontanarsi/battersi oppure venire a patti: “non esiste via di mezzo”. Il tutore di fiducia scommette che l’estraneo, il nemico possa diventare un alleato, un socio e scommette incondizionatamente. Il dono e l’ospitalità-dono diventano così operatori di fiducia e manifestazioni di fiducia, allo stesso tempo. In essi e con essi si ha l’epifania di un ordine incondizionale senza del quale non solo non si può dare ospitalità ma neppure alcuna alleanza umana perché ogni alleanza, che non sia mero contratto, nasce (e si alimenta) soltanto su una scommessa incondizionale:

[…] non vi è alleanza umana che possa funzionare altro che nel registro di una certa incondizionalità. Essa è alimento specifico della socialità e della fiducia. […] Senza un minimo di speranza plausibile nella possibilità che l’altro, gli altri sapranno dare quel che è necessario in caso di bisogno o di richiesta – dare una mano, denaro, sostegno, amicizia, calore, amore -, nessuna unione può formarsi né reggere un solo istante.5

Proprio perché incondizionale, l’impegno a “fidarsi interamente” si interrompe quando il tutore di fiducia si accorge che l’ospite, ora alleato, non fa altrettanto. Proprio perché esagerato, quel fondamento incondizionale del legame può spezzarsi quando ne viene infranto il valore morale, sociale e politico. Detto altrimenti: non si può continuare a giocare il gioco della fiducia e dell’alleanza con colui/coloro che barano.

Solo dopo che ci si è nutriti di fiducia senza condizioni, solo quando si è aperta la prospettiva dell’essere l’uno con l’altro, si possono discutere le condizioni morali, sociali e politiche dell’alleanza sancita. All’interno dell’ordine dell’incondizionalità, si procederà a disporre il dare e l’avere di ciascuno, si dispiegherà l’ordine della contrattualità, un ordine che deve restare subordinato al primo. Anche l’ospitalità-dono con il suo sigillo di incondizionalità dovrà declinare le sue condizioni morali, sociali e politiche, condizioni che si devono misurare con le situazioni storiche più diverse e che potrebbero portare, in casi determinati, anche al rifiuto dell’ospitalità.

  1. Ospite e/o nemico?

Ogni volta che un estraneo bussa alla porta si ripropone la questione dell’ospitalità: che fare? Nella storia europea e non solo, il ventaglio delle risposte si è condensato attorno a due estremi: accoglierlo come un ospite, stringere un’alleanza, oppure restare indifferenti o respingerlo come un usurpatore. Ospitalità e/o ostilità? All’interno di questi due estremi esistono un’infinità di situazioni intermedie di cui questo articolo non può dare conto.

  1. La tradizione indoeuropea

Ne Il vocabolario delle istituzioni indoeuropee [1969]6, Emile Benveniste dedica un capitolo all’ospitalità, un’indagine che è stata fonte di ispirazione per questo lavoro. Interpretando il termine hostis nei contesti che gli sono propri, Benveniste distingue due significati diversi, entrambi incastonati nella radice di questo termine. Nei termini comuni al vocabolario preistorico delle lingue europee, hostis (con il suo corrispondente gotico gasts e slavo gospodi) assume il significato di ospite: colui che compensa la mia prestazione con una contro-prestazione, che risponde al mio dono con un contro-dono. Questo implica che l’ospite condivida un certo grado di uguaglianza con l’ospite-ospitante, un fatto che permette una relazione di reciprocità cementata dalla fiducia.

Essa [ospitalità] si basa sull’idea che un uomo è legato a un altro (hostis ha sempre un valore reciproco) dall’obbligo di compensare una certa prestazione di cui è stato beneficiario.7

Benveniste considera questa relazione una forma attenuata di quel particolare scambio di doni discusso da Mauss nel suo Saggio sul dono, il potlac. Praticato presso alcune popolazioni indiane della costa Nord-occidentale dell’America, il potlac era caratterizzato da forme estreme di circolazione dei beni, nelle quali bisognava ricambiare sempre più, forme che prevedevano una prodigalità che poteva spingersi fino alla distruzione dei beni stessi. In questo sistema di scambi di beni e di ricchezze, la posta in gioco non era solo lo scambio, ma anche la volontà di sancire alleanze, di mettere in atto procedure pubbliche di reciproco riconoscimento.8 Con questi rituali dispendiosi, il gruppo mirava ad andare oltre la propria famiglia, il proprio clan,9 un orientamento gravido di pericoli ma anche di opportunità.10 Anche il mondo greco presenta la stessa istituzione che, in questo caso, si chiama xenos e indica lo scambio di doni – così cari a Zeus Xénios – tra contraenti che dichiarano di voler legare in quella relazione anche i loro discendenti. Mentre nel mondo romano tale istituzione aveva subito un declino, nella Tracia più arcaica conservava ancora una grande forza.11

A quel declino è legato il secondo significato di hostis, significato attestato nel latino classico: nemico. Tale mutazione riflette un cambiamento avvenuto all’interno delle istituzioni romane nella direzione di un progressivo venir meno dei legami tra persone e persone, tra clan e clan. Con questa trasformazione dell’antica società in nazione – prosegue Benveniste – “sussiste solo la distinzione tra ciò che è interno o esterno alla civitas”.12 E’ in questa nuova fase storica, causata da processi che secondo Benveniste non conosciamo ancora pienamente, che hostis acquista sempre più il significato di ostile, un’attribuzione che si applica evidentemente a chi si considera nemico.

Non più connotata dal termine hostis, l’istituzione dell’ospitalità viene espressa da un altro termine composto hospes o hospites (hostis + pot(i)s).13 Ancora una volta, l’analisi di Benveniste permette di scoprire una fondamentale ambivalenza nascosta in questo composto. Il secondo elemento, pot (da cui anche potestas), significa maestro, un elemento che forma assieme al primo il significato di ospite-maestro. L’ospite-maestro è colui che, nelle occorrenze di diverse lingue indoeuropee, è maestro della casa, del clan, della discendenza e, in quanto tale, è colui che ha il potere di accogliere o respingere l’estraneo. Nel cuore delle nuove istituzioni dell’ospitalità troviamo una nuova figura che ha il potere di includere o di escludere dalla civitas.

Gli sviluppi delle società e delle lingue indoeuropee ci parlano, nel caso dell’ospitalità, di un’istituzione in bilico tra ospitalità e ostilità e viceversa. Grazie a Benveniste, abbiamo scoperto che la radice hostis ha dato origine sia al termine che designa l’ospitalità che a quello che designa l’ostilità, una radice comune che è facilmente riconoscibile nella lingua italiana. L’ospitalità dunque non è qualcosa di dato, di acquisito una volta per tutte, ma rappresenta una scommessa, una scelta ineludibile come sostiene Mauss.

  1. La tradizione abramitica

“Si vada a prender un po’ d’acqua, lavatevi i piedi e accomodatevi sotto l’albero. Andrò a prendere un boccone di pane e ristoratevi; dopo potrete proseguire […]”.14 Con queste parole, il libro del Genesi racconta il gesto di ospitalità che Abramo e Sara offrono a tre sconosciuti che sbucano fuori dal nulla nei pressi delle querce di Mamre. Abramo non sa nulla di loro, delle loro intenzioni e non chiede nulla. Egli conosce la vita del viandante perché è la sua stessa vita, il suo stesso destino. Nella tradizione ebraica, Abramo rappresenta l’esempio paradigmatico dello straniero nomade. Benché la narrazione di questo gesto di accoglienza presenta le parole e gli ingredienti di tante altre storie simili a questa, i tre sconosciuti ricambiano quell’ospitalità disarmata con un dono ‘impossibile’: promettono a Sara, molto avanzata nell’età, che avrà un figlio. Attraverso il loro comportamento, la loro promessa, i tre sconosciuti rivelano la loro divinità, sono il volto di Dio che è venuto a visitarli, a portare consolazione, ad aprire le porte del futuro. Non è solo la consapevolezza di essere stati stranieri in terra d’Egitto, come ricorda il libro dell’Esodo, 15 a motivare l’apertura verso l’estraneo – l’attenzione della Bibbia a questo tema è continua e meriterebbe una discussione a parte, impossibile in questo articolo – ma c’è dell’altro: nella Bibbia più volte il nome del forestiero viene associato al nome di Dio. In numerosi passi biblici poi il forestiero compare accanto all’orfano e alla vedova: si tratta in tutti questi casi di persone in difficoltà, persone vulnerabili e, dunque, bisognose di aiuto. L’arrivo dello straniero poi mette in campo una domanda di giustizia che forza le convenzioni adottate in materia di sicurezza, proprio per favorire l’accoglienza. La Bibbia esprime a più riprese la preghiera, ma anche il comando di accogliere i forestieri, per impedire atti di ostilità nei loro confronti. Forse si potrebbe dire che la risposta da dare all’estraneo è uno degli l’orizzonti tematici dell’intera Bibbia. Questa prescrizione reiterata manifesta, da una parte, la consapevolezza della paura diffusa nei confronti dell’estraneo. Il richiamo ad accogliere il forestiero, d’altra parte, è volto ad attivare quella dinamica fondamentale senza la quale né l’individuo né la società potrebbero generarsi e rigenerarsi, come ci insegna tra l’altro la legge dell’esogamia. Considerato il contesto biblico poi: come favorire l’apertura verso l’Altro irriducibile senza l’apertura all’altro umano? La divinità infatti manifesta sé stessa nell’umano e attraverso l’umano.

Ma torniamo alla storia di Abramo. Quell’atmosfera di ospitalità sacra viene deturpata quando lo stesso Abramo caccia la serva Agar e Ismaele, il figlio che Abramo ha avuto da lei. Rifiutati, la donna e il bambino se ne andranno vagando per il deserto, saranno presi dalla disperazione e riusciranno a sopravvivere solo grazie all’intervento di Dio.16 Così Abramo che si era distinto per la sua grande ospitalità, dimostra nel trattamento riservato ad Agar e Ismaele di essere capace anche di grande ostilità.

Anche l’Islam ospita al suo interno concezioni e pratiche dell’ospitalità che danno origine ad abbracci di pace, ma anche a chiusure inaudite. L’importanza che la generosità e l’ospitalità hanno avuto e continuano ad avere nelle società islamiche si radica probabilmente nella cultura preislamica:

La generosità è stata riconosciuta come una delle principali virtù degli Arabi prima dell’avvento dell’Islam, una generosità che si esprimeva tra loro soprattutto come ospitalità e che resterà nell’Islam un costume molto diffuso nei confronti degli ospiri.17

Nelle diverse forme di ospitalità non mancano anzi dimostrazioni eccessive quando venivano perpetrate, per esempio, vere e proprie stragi di cammelli con la macellazione di un numero di animali che andava ben al di là del fabbisogno. Ci chiediamo se pratiche di questo tipo non siano anch’esse, tra l’altro, marcatori di rango come nel caso del potlach.18 Queste forme eccessive di prodigalità furono reinterpretate alla luce della definizione aristotelica di generosità che deve coniugarsi con la moderazione. Rispetto alla tradizione islamica e classica, l’avvento dell’Islam imprime una trasformazione che avviene soprattutto nella direzione di un’estensione, verso il basso, dello spettro dei beneficiari della generosità: i poveri – solo quelli musulmani?19 – diventano i primi della lista. Se all’inizio la generosità si sviluppa all’interno di un reticolo di iniziative di aiuto spontaneo, la sadaqa, a partire dal periodo medinese, essa si istituzionalizza e diventa obbligatoria: la zakat serve allo scopo. Si tratta di una tassa religiosa obbligatoria che si applica ai redditi che superano una certa soglia. Non possiamo soffermarci sulla lista di tutti i beneficiari – sono otto – di questo istituto di diritto musulmano anche se, in questo contesto, è opportuno sapere che i poveri e i bisognosi occupano il primo posto. Nel contesto di questo lavoro, è invece indispensabile discutere degli ultimi della lista: i viaggiatori. A questa categoria appartengono persone in viaggio sia povere che ricche, persone che, per il solo fatto di essere lontane dal loro luogo d’origine, possono aver bisogno di aiuto – nel passato ancora di più che nel presente. In questa categoria erano compresi anche mercanti, migranti, pellegrini, sufi e, oggi, alcuni aggiungono nuovi sottogruppi come i rifugiati. Con quest’ultima categoria di persone si ha un completamento dello spettro di obblighi religiosi sui quali il Corano richiama l’attenzione dei credenti. Stabilire otto beneficiari significa sancire otto obblighi nei confronti di altrettante categorie di persone, alle quali si riconoscere il diritto ad aver parte dei guadagni di chi ha più del necessario. Incontriamo qui quella che si potrebbe definire la funzione sociale della zakat: la redistribuzione della ricchezza all’interno della comunità. Diversamente da altre forme di solidarietà, qui si tratta di otto obblighi collettivi, di forme ben definite di responsabilità verso la comunità dei credenti. All’interno di questa concezione del prendersi cura come virtù comunitaria – concezione vicina all’Ebraismo20 – l’inclusione dei viaggiatori potrebbe essere interpretata come un bisogno di allargare lo spettro dei beneficiari. Con la zakat l’Islam ha costruito un modo originale di organizzare la solidarietà obbligando chi ha più del necessario ad essere solidali.21 E tutto lascerebbe pensare ad una ideazione mirata a sostenere coloro che sono più prossimi: la categoria dei viaggiatori sembra introdurre una distonia. In questo contesto, ci pare importante ricordare che l’Islam nasce da un’esperienza di estraneazione, incorporata e tramandata dalle prime generazioni di musulmani. Per seguire l’unico Dio, Muhammad e i suoi compagni non solo avevano dovuto lasciare i propri beni, ma erano stati costretti a recidere i legami di sangue con le proprie tribù per poter stringere una nuova alleanza. Nato da una migrazione, l’Islam sembra capace fin dall’inizio – anche sul piano ideale – di ridurre le distanze verso sconosciuti ed estranei. All’interno di questo nuovo paradigma elaborato con l’esperienza dell’Egira,22 colui che viene da lontano è riconosciuto come il prossimo da accogliere non solo nella forma spontanea della sadaqa, ma anche in quella organizzata della zakat. Esposto ai pericoli più diversi, il viaggiatore diventa bisognoso di protezione: con l’obbligo dell’ospitalità – così si potrebbe riformulare questa prescrizione coranica – l’Islam sente, recepisce e risponde a quel bisogno. Nel corso dei secoli, questa accoglienza si è estesa anche a viaggiatori non musulmani: episodi intercorsi tra cristiani e musulmani sono documentati dalla ricerca storica.23

Non sono solo le fonti dell’Islam – il Corano, ma soprattutto la Sunna – a fare dell’ospitalità una pratica rilevante per la fede islamica, ma è soprattutto la vita delle società islamiche a documentarne l’importanza, una documentazione di cui questo articolo non potrà dar conto.24 Riconducibili a diverse forme di sadaqa, sia le opere più strutturate di accoglienza che i gesti più semplici di ospitalità hanno come comune denominatore un dare senza calcolo a persone conosciute e sconosciute, a musulmani e non musulmani. Diversamente dalla zakat, la sadaqa è destinata a tutti senza condizioni, un’apertura non priva di tensioni e contrasti, già rilevabili nell’Islam delle origini.

Una delle storie più controverse di ospitalità risale proprio all’Islam delle origini e concerne un episodio di ospitalità intercorso tra un gruppo di persone della tribù di Ukl convertite all’Islam e lo stesso Muhammad, nel periodo medinese. Si tratta di un episodio narrato in un hadith. Una storia di grande ospitalità da parte del Profeta e della comunità medinese, alla quale gli ospiti rispondono con l’omicidio e la rapina. La reazione del Profeta è brutale:

Anas racconta: «Alcune persone della tribù di ‘Ukl raggiunse il Profeta e abbracciò l’Islam. Il clima di Medina non era adatto a loro, così il Profeta ordinò di ricorrere ai cammelli destinati ai bisognosi (la mandria da latte) e di bere il latte e l’urina dei cammelli (come medicina). Così fecero e dopo che si furono ripresi dalla malattia (guarirono), rinnegarono la fede (lasciarono l’Islam), uccisero il pastore dei cammelli e portarono via i cammelli. Il profeta inviò alcune persone al loro inseguimento e così furono catturati e condotti [dal Profeta]. Questi ordinò che venissero tagliati loro mani e piedi e che i loro occhi fossero bruciati con pezzi di ferro arroventati e che non fosse bloccato il sanguinamento dei loro arti fino alla morte».25

Anche altre fonti dell’Islam prevedono pene severe per il brigantaggio, per l’omicidio, ma per coloro che combattono Allah e il suo Profeta non c’è pietà ed è questo il crimine più grave che viene imputato agli ospiti della tribù di ‘Ukl, i quali, profittando dell’ospitalità, hanno cercato di rubare i cammelli togliendo di mezzo il guardiano, ma soprattutto si sono rivoltati contro l’inviato di Allah e meritano, per questo, una pena esemplare.26

  1. Il fatto è che non [c’è altra] scelta”

La tradizione indoeuropea ci consegna, in materia di ospitalità, un’istituzione sempre in bilico tra concezioni e pratiche ospitali che si trasformano in concezioni e pratiche ostili e viceversa. Trasformazioni storiche che hanno influenzato i concetti di ospitalità e di ostilità.

La seconda grande tradizione che ha plasmato gran parte dell’umanità è, come abbiamo visto, quella abramitica. Le grandi narrazioni abramitiche documentano il paradosso profondo che caratterizza Ebraismo, Cristianesimo e Islam su questo tema: l’abbraccio di pace più forte può sussistere con il rifiuto più radicale. Ogni incontro tra l’uomo e la divinità sembra abitato da questo paradosso, ogni incontro infatti diventa un evento nel quale si gioca la possibilità di accogliere o di rifiutare. La divinità infatti manifesta sé stessa nell’umano e attraverso l’umano. Il monoteismo è la storia di questo incontro drammatico e delle sue conseguenze, conseguenze non ti poco conto se si pensa all’influenza che queste religioni hanno avuto sulle idee e sui comportamenti di una larga parte dell’umanità. Queste radici paradossali chiariscono l’atteggiamento di quei critici appartenenti al vecchio e nuovo ateismo che individuano nelle tre religioni abramitiche una ricca documentazione del monoteismo come fonte di intolleranza, di conflitti e di violenza. Quel paradosso tuttavia spiega anche perché altri vedono invece nella tradizione abramitica una forte spinta verso un vissuto ospitale e interpretano la prescrizione ad accogliere l’estraneo come ingresso al sacro, come fonte di liberazione.

La storia mondiale documenta conflitti tragici tra individui, popoli e religioni, conflitti che hanno saputo trovare talvolta la via della riconciliazione come in Sud Africa, oppure restano ancora una ferita aperta come il conflitto arabo-israeliano. Per individui, popoli e religioni si ripropone anche oggi l’antico dilemma: accogliere o rifiutare, “Il fatto è che non [c’è altra]scelta”.27

1 J. T. Godbout, “Recevoir c’est donner”, in: Communications (1997), Nr. 65, pp. 35-47.

2 Comparando l’Europa con l’Asia, Rousseau si lamentava dei nuovi costumi europei : “J’ai remarqué qu’il n’y a que l’Europe seule où l’on vende l’hospitalité. Dans toute l’Asie on vous loge gratuitement. Je comprends qu’on n’y trouve pas si bien toutes ses aises. Mais n’est-ce rien que de se dire, je suis homme & reçu chez des humains ? C’est l’humanité pure qui me donne le couvert. Les petites privations s’endurent sans peine, quand le cœur est mieux traité que le corps.”; Vf. Les Rêveries du promeneur solitaire, Paris 1964, pp. 1096-1097.

3 Si tratta delle ultime pagine del saggio sul dono. Cfr. M. Mauss, Saggio sul dono. Forma e motivo dello scambio nelle società arcaiche, Introduzione di M. Aime, tr.it. di F. Zannino, Torino, Einaudi 2002, pp. 133-140.

4 Ibid., p. 138.

5 Alain Caillé, Il terzo paradigma. Antropologia filosofica del dono, Bollati Boringhieri, Torino 1998, p. 124. In questa pagine, l’Autore espone alcune linee di una teoria della incondizionalità condizionale di ispirazione maussiana.

6 Emile Benveniste, Il vocabolario delle istituzioni indoeuropee, Ed it. a cura di Mariantonia Liborio, Vol. I, Einaudi, Torino 2001.

7 Ibid., p. 69.

8 Marcel Hénaff, Antropologia del dono e riconoscimento sociale, in Cosa significa donare?, a cura di D. Falcioni, Guida, Napoli 2012, pp. 36-39.

9 Sulla distinzione tra dono agli estranei e dono agli sconosciuti, cfr. il denso articolo di Enrico Sarnelli, In Cosa significa…PP. 71-77.

10 E’ un peccato che Benveniste non abbia colto nel potlac uno scambio di doni rivolto a degli estranei come scrive esplicitamente Mauss nel suo Saggio (p. 68). Questo riconoscimento avrebbe rinforzato il parallelismo che Benveniste costruisce tra la relazione positiva con l’ospite (hostis) nel mondo romano e lo scambio di doni nel potlac. Il primo significato di hostis, ospite, indica un certo tipo di straniero con il quale intercorrono prestazioni reciproche in un’atmosfera di reciproco riconoscimento.

11 Sul tema dell’ospitalità nella Grecia contemporanea, cfr. Michael Herzfeld, “As in Your Own House”, in D. D. Gilmore (a cura di), Honor and Shame and the Unity of the Mediterranean, (Special Pubblication Nr. 22), Washington 1987, p. 77

12 Benveniste, p. 70. Questo opposizione antica tra dentro/fuori si ripropone nel concetto moderno di sovranità assoluta dello stato. L’appartenenza al proprio stato viene così sancita rispetto, anzi contro coloro che per nascita non fanno parte di quello stato, definito sulla base di quattro elementi fondamentali di inclusione: territorio, lingua, ordinamento giuridico e religione/confessione. Questa strategia politica di inclusione/esclusione ha dato origine al conflitto tra Ariani e Ebrei nel secolo scorso, ma anche a quello ancora insoluto tra Ebrei e Palestinesi.

13 Benveniste, p. 70.

14 Genesi 18, 4-5.

15 Esodo 23, 9. “Non opprimerai il forestiero: anche voi conoscete la vita del forestiero, perché siete stati forestieri in terra d’Egitto”.

16 Genesi 21, 8-21.

17 F. Rosenthal, “Hiba” in: Encyclopédie de l’Islam2, vol. III, p. 353b.

18 M. Bonner, Poverty and charity in the Rise of Islam, in Poverty and Charity in Middle Eastern Contexts, a cura di M. Bonner, M. Ener e A. Singer, Albany (Stati Uniti d’America) 2003, pp. 16-20.

19 Si tratta di una questione che ha generato un ampio dibattito, cfr. D. Falcioni, “Conceptions et pratiques du don en Islam”, in: Revue du MAUSS semestrielle, (2012), nr. 39, p. 351.

20 Sull’obbligo di mostrare solidarietà verso i membri della propria comunità nell’Ebraismo, cfr. P. Brown Povertà e leadership nel tardo impero romano, 2003, p. 26.

21 J. Benthall sostiene che l’Islam, prima degli stati europei, sia stato capace di concepire un sistema di previdenza sociale. Di questo Autore cfr. Organized Charity in the Arabic-Islamic WorldA view from the NGOs, in H. Donan (a cura di), Interpreting Islam, London 2001, p. 159.

22 Sul significato decisivo della migrazione di Muhammad e dei suoi seguaci, un evento paradigmatico “di ricchezza straordinaria”, cfr. M. Arkoun, M. Borrmans, L’Islam, religion et société, Paris 1982, p. 76.

23 A. Singer, Charity in Islamic Societies, Cambridge 2008, p. 57.

24 Per un’illustrazione più ampia, cfr. D. Falcioni, Verteile und schenke und suche nicht, die Gabe zu verrechnen”: Grosszuegig handeln im Islam, in: Die Gabe. Zum Srtand der interdisziplinaeren Diskussion, a cura di V. Hoffmann, U. Link-Wieczorek, C. Mandry, Alber, Freiburg 2016, pp.179-197.

25 L’hadith si trova nella raccolta di Al-Bukhari, Libro 86, N. 32 (https://sunnah.com/bukhari/86).

26 Corano 5, 33.

27 Cfr. supra, nota 4.



Insegna Filosofia sociale presso l’Università della Calabria. Sul dono e sulla cura ha pubblicato, tra l’altro, “To Receive, That Is, to Give” (The Maternal Roots of the Gift Economy, Toronto 2019); Cosa significa donare? (a cura di), Napoli 2018; “Conceptions et pratiques du don en Islam” (Revue du MAUSS 2012); “Das Band und die Bindekraft der Gabe” (Memoria und Mimesis. Paul Ricoeur zum 100. Geburtstag, Dresden 2013).


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