Il sedicente Stato Islamico ha colpito l’occidente tramite una doppia serie di pratiche e di immagini. È infatti balzato fuori all’improvviso dalla spirale del silenzio in cui i media occidentali avevano avvolto i disastri militari e umanitari – Iraq, Siria e Libia – che sconvolgono da più di un decennio il medio oriente (a causa di responsabilità occidentali preponderanti e diffuse, in particolare degli Usa, della Francia della Gran Bretagna, ma anche dell’Italia) e ha presentato al mondo, con perizia tecnica e uso seduttivo della comunicazione, un’immagine di sé che l’Occidente non si sarebbe mai aspettato. Lontano dalle grotte fra Afghanistan e Pakistan in cui si faceva riprendere Bin Laden, il Califfato si è presentato al mondo attraverso lo spettacolo del supplizio, l’estetizzazione della violenza, la capacità organizzativa del potere statale, la meticolosità ripugnante della pulizia etnica, della riduzione in schiavitù e dello sterminio delle minoranze.
Capacità di manipolazione dei segni e potere di farne circolare il senso hanno così imposto nel panorama mediatico la strategia comunicativa dell’ISIS, lasciando poco spazio ai media informativi occidentali, tanto i prodotti comunicativi che l’ISIS lanciava erano difficili da modificare, coerenti e diffusi. Si è invocato allora il rischio di magnificare gli effetti della comunicazione terroristica rilanciandone i messaggi, e si è così pensato di ricorrere alla censura, segnalando quanto poca capacità di controcomunicazione efficace fosse in realtà a disposizione degli aspiranti censori.
Intanto l’autorappresentazione che l’ISIS proponeva di sé si è diffusa come l’acqua nella terra, inesorabile e inafferrabile, sui social media e su internet, rovesciando lo stereotipo del primitivo e del sottosviluppato che l’occidente ha saputo proiettare sul medio oriente dal colonialismo all’esportazione militare della democrazia. Il combattente islamico ignorante e privo di cultura si è rivelato così essere un blogger, un hacker, un abile impaginatore di immagini e di notizie (il sedicente Stato Islamico ha d’altronde una sua rivista molto curata, impaginata in pdf e facilmente disponibile on line) e l’esercito dell’ISIS ha mostrato di saper giocare strategicamente tanto con la forza militare che con la comunicazione, con un potere di attrazione senza precedenti che ha attirato migliaia di giovani islamici, mediorientali magrebini e occidentali.
Abbiamo scelto di riflettere su questa situazione inedita con il semiologo Paolo Fabbri, che si è a lungo occupato dei rapporti fra terrorismo e comunicazione, con la particolarità di non considerare la comunicazione come un supporto accessorio – nell’accezione della propaganda – della guerra, ma come una delle armi fondamentali attraverso cui essa si combatte. La riflessione di Fabbri si è soffermata negli anni sui rapporti fra terrorismo e comunicazione, ed in particolare sulla produzione delle rappresentazioni dei soggetti della comunicazione con valore performativo e strategico, dallo spionaggio (con particolare attenzione al tema dell’agente doppio) alle pratiche del camouflage, attraverso un parallelismo fra comunicazione animale e conflittuale in cui le opere d’arte sono utilizzate come oggetti capaci di sviluppare riflessione teorica e di esemplificare sintassi strategiche efficaci[1].
Rispondendo alle nostre domande Fabbri si è trattenuto sulle strategie comunicative dell’ISIS svelandone in modo controintuitivo la somiglianza con i mezzi del marketing e la familiarità con gusti e disgusti occidentali, ma anche riflettendo sul senso delle modalità tattiche con cui i combattenti si fronteggiano sul campo per mostrare come sia riduttiva una concezione della comunicazione che la riduca ad una rappresentazione della guerra, mentre si tratti in realtà di uno dei modi insidiosi del conflitto e dello scontro.
D. Iniziamo dalle definizioni: che tipo di comunicazione è la comunicazione “al nero”, e più in generale la comunicazione strategica?
R. Credo sia un tipo di comunicazione in cui è centrale la dimensione del conflitto nella significazione. La significazione vale sulla base delle differenze, se non proprio su delle opposizioni e allora diventa centrale il modo in cui si articolano le differenze.
Noi di solito pensiamo sempre all’enunciato, al messaggio o al massimo ai contenuti della comunicazione, sostenendo che capiamo un certo concetto per differenza con un altro. Ad esempio capiamo che qualcosa è nero perché è opposto ad un certo tipo di bianco, e viceversa. Fin qui, siamo nel campo dell’ovvio. Vorrei però spostare l’accento dall’enunciato, cioè dal messaggio scambiato nella comunicazione, all’enunciazione, cioè al ruolo ed ai simulacri dei soggetti in interazione all’interno dell’enunciato stesso (che possono anche essere occultati, ovviamente). Ora io credo che noi in semiotica pensiamo per differenze e per opposizioni proprio perché la comunicazione non è riducibile al solo messaggio, non si realizza cioè quando qualcuno comunica, organizzando il senso di quello che dice e basta, ma quando qualcuno parla con qualcun’altro e il significato della comunicazione si organizza e si contratta insieme (anche polemicamente), ossia quando c’è dialogismo. L’accento sulle opposizioni e sulle differenze è dunque forse il deposito nell’enunciato – come aveva affermato Greimas – del fatto che ci sono due persone che discutono e che possono essere d’accordo o meno. In qualche modo dunque ogni differenza – che può prendere anche la forma di una opposizione di senso, categoriale, ma non è la stessa cosa – sarebbe traccia della dimensione necessariamente conversazionale e dialogica del linguaggio.
Dal punto di vista strategico dobbiamo inoltre considerare un cambiamento enorme riguardante le tecnologie. Ne consegue il fatto che non c’è mai stato tanto spionaggio quanto adesso, come sostiene un recente articolo del New Yorker. Penso anche all’ultimo libro di Boltanski sullo spionaggio, il concetto di cospirazione – su cui anche Eco ha scritto molto ed in modo interessante – e l’invenzione del concetto di paranoia (che è “nato” nell’ ‘800 e non è una parola greca ma un termine reinventato da un medico tedesco).
Questo pone l’esigenza di interrogarsi attorno al ruolo che hanno nella comunicazione le pratiche di intercettazione, infiltrazione e camouflage, la cui centralità emerge oggi accanto ad altri temi già molto indagati in relazione ai temi della visibilità e del controllo. Da questo punto di vista la visibilità totale è illusoria, non è vero che tutto e è visibile. Ho parlato con un alto dirigente dell’esercito e gli ho detto: “oggi la gente vede tutto”. Ha tranquillamente risposto: “Non è vero perché sottoterra o in fondo al mare non vede nessuno. Nessuno vede i sommergibili atomici o quello che si trova all’interno degli scavi in profondità”.
D. Che ruolo ha nella comunicazione strategica la rappresentazione di sé e degli avversari?
R. Noi semiologi pensiamo ogni forma di conflitto all’interno di un modello generale che è il modello “attanziale” della semiotica, che prevede non degli attori ma dei soggetti d’azione astratti, molto generali, definiti ‘attanti’ (è la traduzione italiana di un termine francese, actant, che deriva dalla parola acte, “atto” in italiano). La dimensione conflittuale esige che si pensi la maniera in cui i programmi d’azione dei diversi attanti possano avere una convergenza: a quel punto tu sei obbligato a utilizzare l’azione dell’altro – che è contro di te – rovesciandola contro di lui. Devi cioè integrare le mosse dell’altro all’interno del tuo programma, sapendo che l’altro fa la stessa cosa.
Io ritengo che uno dei grandi campi di ricerca della semiotica sia proprio la dimensione strategica, a partire dal momento in cui Greimas ha affermato che le relazioni operano fra simulacri, cioè si basano sulla possibilità di presentare l’altro e sé stesso in un certo modo, negati e messi in discussione dall’ “altro” di turno. Secondo me questo è un campo molto ricco di creazione e interazione fra attori che presentano dei simulacri e giochi di simulacri, ed ecco perché il problema del terrorismo è fondamentale, perché non si riesce a definire cosa è un terrorista: per me è un traditore, per te può essere un eroe…
D. Qual è allora il rapporto fra strategie e valori?
R. Oggi di solito si chiamano in causa i grandi problemi: la difesa dell’uomo, della natura, e sulla base di questi grandi valori si elaborano le strategie…. Ho l’impressione che sia il contrario, ossia che i valori vengano stipulati all’interno della strategia, che le strategie siano ricostruzioni sistematiche di soggetti e oggetti di valore, e che disfino e costituiscano sistemi morali. Credo cioè che la morale venga dunque dopo la strategia.
Da questo punto di vista dobbiamo poi pensare il terrorismo come strategia di conflitto diversa dalle altre. Anche per quanto riguarda l’ISIS, pensiamo al fatto di infliggere la sofferenza. Io ho provato a dare una spiegazione, usando la mafia: un gruppo di persone, facendo vedere che è più “duro” degli altri (simulacro) riesce a fare credere di essere talmente tanto più duro che le persone iniziano a riferirsi ad esso e ad assumerlo come termine di paragone.
D. L’ISIS dunque è diventato un modello, una sorta di superlativo della violenza ? Pensiamo all’attentatore di Sidney, che ha subito esposto una bandiera dell’ISIS.
R. Certo, poteva anche essere uno squilibrato, ma si è definito subito attraverso di loro. Ma perché? Perché sono più “duri” degli altri. E se quelli dell’ISIS non fossero così duri e spietati troverebbero risposte di questo tipo? Come nel caso dei clan mafiosi, i membri dell’ISIS sono in competizione con altri gruppi. Sono cioè in concorrenza, ed è veramente nella concorrenza che si gioca la partita.
Questo perché paradossalmente l’ISIS non esiste, sono federazioni di gruppi che si sono uniti a partire dal successo di un gruppo che ha affermato che poteva avere il massimo di crudeltà ed efficacia possibile e a causa di questo gli altri hanno finito per accostarsi a loro. Hanno cioè vinto una concorrenza, perché anche due gruppi di Al Qaeda hanno preso un paio di basi in Siria, e non sono dell’ISIS. Ci sono cioè ancora molti gruppi ancora dispersi di combattenti islamici. Per ferocia, efficacia, capacità di trattare il simbolismo religioso ed ideologico, l’ISIS ha dimostrato di essere un punto di attrazione che vince la concorrenza con gli altri e li federa. Succede anche nel mercato. Da questo deriva il problema della rappresentazione simbolica, che deve essere efficace e soprattutto spietata.
Da questo punto di vista è dunque “naturale” che L’ISIS abbia fatto compiere delle esecuzioni ad un cittadino inglese, non solo perché parlava la lingua dei destinatari della comunicazione, ma perché probabilmente volevano metterlo alla prova. Molti crimini vengono compiuti e fatti compiere per mostrare fedeltà, ma implicano, una volta realizzati, l’impossibilità di tirarsi indietro da parte dei perpetratori. Anche alle reclute delle SS veniva richiesto di praticare la tortura per dimostrare che erano adeguati all’organizzazione, e qui non conta un desiderio individuale ma il carattere iniziatico dell’atto di torturare. Occorre cioè tentare di uscire dal giudizio morale – che è scontato – chiedendoci quali organizzazioni strategiche rendono possibili queste pratiche.
Si tratta infatti di una questione specifica, quella della formazione del gruppo terrorista, di cui sappiamo moltissime cose, più di quante la gente non creda. Per esempio sappiamo che esistono delle forme di iniziazione, che rispondono a un problema generale dei gruppi terroristici: come immettere gli estranei. È il problema serio dell’infiltrazione e degli agenti doppi (anche la mafia ha questa capacità di infiltrazione, di avere degli agenti doppi ecc.). Dato che che ciascun gruppo prova ad infiltrare qualcuno all’interno di un gruppo che a sua volta tenta di infiltrarsi in esso, è necessario rendere molto rigido il proprio gruppo facendo dei controlli per non evitare o scoprire gli infiltrati. Quindi la rigidezza di certi gruppi, come è stato per il Partito comunista in Italia negli anni ’50 del 900 e per le Brigate Rosse, non era solo funzione della loro ideologia (anche se questa componente era comunque presente) ma anche della resistenza alle infiltrazioni, che ci sono sempre state. Per raggiungere questo obiettivo c’è bisogno di mettere in atto delle pratiche di iniziazione e fra i vari tipi di iniziazione c’è anche quello di far commettere alla persone un crimine.
Queste forme di strategie, tutte diverse, sono classificate sotto la macrocategoria del terrorismo, per cui alla fine non si sa come definirlo.
D. Pensiamo anche ai giovani occidentali convertiti o di seconda generazione. Non potremmo pensarli come degli infiltrati “naturali”, dei potenziali agenti doppi, che spiegano quali sono le paure dell’occidente sulle quali giocare?
R. Certo, ed anche su quali disgusti….l’assenza di valori o la presenza di valori non riconosciuti.
Basti pensare alla grande definizione iniziale di Osama Bin Laden, nella sua prima dichiarazione ufficiale. Lui disse: “Voi volete vivere, noi vogliamo morire”. Ma allora come mai molta gente va volontaria per morire? È certo che esistono pazzi e fanatici, ma pensiamo in termini di strategie senza dare una valutazione preliminare altrimenti ci preoccupiamo solo dello spettacolo dei supplizi: da questo punto di vista sarebbe il caso di non dimenticare che in periodi di piena razionalità occidentale si tagliava la testa in pubblico a migliaia di aristocratici davanti alla folla festante. Credo che l’ISIS sia preoccupato più di ogni altra cosa di di federare il mondo islamico e che i suoi membri pensino che combattere sia un modo di federare altrimenti non avremmo avuto questo fenomeno stupefacente dei volontari, che sono migliaia.
D. Infatti nell’ISIS esiste un battaglione degli stranieri….
R. Si, come in Spagna con le Brigate Internazionali. Non ci piacciono ma sono come loro. E infatti trovo assurda la persecuzione contro quelli che vanno volontari. Perché dovrebbero punirli i paesi di provenienza? Li puniranno semmai quelli di arrivo. Inoltre i membri dell’ISIS aggiungono alcune cose molto simboliche, per esempio Roma. È qualcosa che si dice poco per imbarazzo, ma loro dicono molto chiaramente che il loro prossimo obiettivo è Roma.
D. Quindi il centro del potere occidentale per loro è Roma. Da questo punto di vista emerge una notevole differenza con Al Qaeda: tu hai sostenuto che nell’attentato dell’11/9/2001 Al Qaeda ha colpito – o tentato di colpire – i tre centri di potere, economico politico e militare – che hanno strutturato nell’antichità, secondo Dumezil, le società occidentali. Da questo punto di vista l’ISIS è molto diverso…
R. Certo, perché non sono i poteri economici ad essere centrali. In Italia credo nessuno lo dica per ragioni di spavento ma Al Baghdadi dice continuamente che i suoi obiettivi sono Roma ed il Vaticano.
D. Sembra un vecchissimo modello…
R. Forse, ma in questo momento serve strategicamente. Tuttavia secondo me questo non riesce a risolvere comunque il fatto che la creazione dello stato islamico facilita la concentrazione delle forze e quindi facilita la guerra, mentre il gruppo terrorista “disperso” è praticamente incontrollabile.
D. è un’organizzazione rizomatica….
R. E infatti l’idea di Al Baghdadi, che l’ha capito subito, è stata quella di dire: “allora attiviamo il vulcano di tutti quelli che stanno in tutti i paesi, e cioè vogliamo ritrovare il rizoma e non solo lo stato (gerarchizzato). Ha cioè capito bene anche lui che è inutile avanzare altrimenti ci si espone a bombardamenti. I membri dell’ISIS infatti dicono di servirsi di scudi umani, ma in realtà questa affermazione vuol dire semplicemente che sono in città, perché quando sei in città hai automaticamente degli scudi umani. Guarda le difficoltà che ha Israele, che non entra mai nelle città palestinesi e ogni volta che entra succede un disastro. E inoltre possono attaccare solo dove possono vedere ma poi ci sono i tunnel.
D. Possiamo approfondire l’uso esplicativo del concetto di rizoma?
R. Per chiarire questo punto ricordiamo il conflitto fra greci e sciiti descritto ottimamente da Hartog a partire da Erodoto. Hartog mostra l’importanza della relazione che si instaura fra i due eserciti combattenti: il problema del modello greco della falange è che affinché esso funzioni è necessario che l’avversario accetti di combattere nello stesso modo. Pensiamo al modo altamente strutturato e organizzato dello schema di guerra della falange, con più soldati che uniti assieme reggono scudi e lance. Come possono resistere ad un gruppo di cavalieri che li circondano cambiando continuamente posizione e colpendoli con delle frecce? Sono impotenti: possono stare fermi, e non li sconfiggerà nessuno, ma non vinceranno mai. Ora, mi sembra interessante che la falange rappresenti in qualche misura la proiezione dell’organizzazione statale nell’ambito della guerra, che si oppone a dei guerrieri nomadi, e questa dimensione è straordinariamente vicina a quanto sta accadendo adesso. Ricordiamo il famoso episodio raccontato da Erodoto della lepre: gli sciiti sono finalmente fermi davanti alla falange greca, e lo scontro frontale sembra inevitabile, quando all’improvviso passa una lepre e tutti gli sciiti, a cavallo, le corrono dietro. Che ci sta dicendo Erodoto? Che gli sciiti non combattono come i greci ma sono dei nomadi che – basta una lepre – si disperdono ovunque. Ecco apparire dunque – di fronte alla struttura sintagmatica (falange in greco si dice appunto sintagma) – il rizoma, ossia il branco, la muta, lo sciame – il fatto cioè di un’organizzazione senza leader, senza gerarchia e soprattutto senza legami fra i componenti del gruppo: nessuno degli sciiti porta un doppio scudo e non tengono tutti assieme la stessa lancia, ma rappresentano un insieme in movimento, e questo aspetto è veramente fondamentale. Un po’ come nel pacchetto di mischia del rugby dunque quello che conta è la forza dell’insieme: come negli storni che volano in cielo la questione fondamentale è l’arrangiamento collettivo di un sistema di attori miopi che però ottengono nella loro interazione un effetto generale di ordine. Non è infatti un sistema disordinato ma un sistema senza capi, quindi con un modello di potere diverso da quello gerarchico. Se siamo in un modello gerarchico è chiaro che ci vuole un capo, ma chi ha detto che ci debba essere per forza un solo modello che debba funzionare a tutti i livelli della società e non a seconda dei tipi di azioni effettuate e dei momenti in cui vengono svolte?
Nel nostro caso l’aspetto diverso dalla concettualizzazione classica del rizoma – penso chiaramente a Deleuze e Guattari – è che nel caso del terrorismo abbiamo non solo un gruppo in movimento, ma anche un conflitto. E questi temi, al contrario di quanto non sembri, sono fondamentali: pensiamo alla Libia in cui la dimensione nomade è centrale, e per capire questo c’è bisogno di una competenza culturale forte che in certi momenti mi sembra, almeno lievemente, mancare.
D. Mi viene in mente che L’ISIS è stata vincente quando i suoi combattenti sono riusciti ad essere evanescenti: improvvisamente apparivano e si impossessavano di due-tre città, in cui è inoltre facile nascondersi.
R. Chiunque entri in una città con una formazione militare organizzata in modo tradizionale si trova di fronte ad una serie di problemi insormontabili, lo dicevano già i greci antichi “non combattete mai sotto le mura”…. per questo i membri dell’ISIS cercano di andare nelle città. Questo è un altro dei punti essenziali della riflessione: loro sono caduti nella trappola quando hanno adottato una modalità statalista di organizzazione: la volontà di fare uno stato, che era il risultato della loro strategia. Vincevano quando erano un gruppo terrorista, non uno stato che ormai fa delle esecuzioni sul modello degli stati che fanno le esecuzioni. Per questo perdono, perché improvvisamente gli altri si sono messi tutti d’accordo, persino l’Iran opera dei bombardamenti.
Occorre chiedersi: quanto questa forma di aggregazione rientra in realtà in una strategia favorevole agli USA? Tu hai davanti un avversario inafferrabile, non sai cosa fare, può colpirti in tutte le direzioni. Di cosa hai bisogno allora? Che si raggruppino in un posto, in modo che possano iniziare i bombardamenti. La battaglia di Kobane è l’esempio perfetto del fallimento della strategia terrorista perché è un combattimento fra stati, un classico assedio medievale, rinascimentale.
Anche se nessuno lo dice, questo fenomeno diventerà un grande modello di sacrificio, a cui sono accorsi tutti, con un volontariato stupefacente che ci ricorda addirittura il Risorgimento. Non c’erano forse degli ungheresi che andavano a combattere con Garibaldi?
[1] Paolo Fabbri, ha insegnato per molti anni in Francia, partecipando ai lavori del gruppo di ricerca diretto da A. J. Greimas, (e a Parigi ha anche diretto l’Istituto di cultura italiana), oltre che negli Usa e in Italia, tenendo inoltre corsi e conferenze in decine di università in tutto il mondo. Un’ampia serie di articoli su questi temi sono disponibili sul sito www.paolofabbri.it; per i rapporti fra riflessione teorica sui linguaggi e sulla produzione/trasformazione/distruzione del significato nella comunicazione conflittuale rimandiamo a due testi di Fabbri che raccolgono alcune riflessioni particolarmente significative per questi temi: La svolta semiotica (Laterza, 1998) e Elogio di Babele (Meltemi 2003).
'Intervista a Paolo Fabbri La Comunicazione al Nero: terrorismi, spionaggi, strategie.' has no comments
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