Educazione linguistica e partecipazione democratica.
«[…] La scuola mi serve per cercare di trasformare i sudditi in popolo sovrano, gli operai ed i contadini sfruttati in persone consapevoli e capaci di rivendicare i propri diritti»
[Don Lorenzo Milani in Esperienze pastorali]
Il 2017 è stato un annus mirabilis per pedagogisti e insegnanti: la ricorrenza del cinquantenario della morte di Don Milani, con tutte le cerimonie e le iniziative culturali ad essa collegate[1], ha dato nuova linfa a vecchie discussioni sulle politiche educative nel nostro Paese, portando nuovamente alla ribalta la questione dell’educazione come strumento di emancipazione sociale e di formazione del cittadino; tuttavia, allo stesso tempo, si è rivelato annus horribilis: la scomparsa di Tullio De Mauro ci ha privati di una delle più profonde e autorevoli voci nel dibattito sulla lingua in generale e sull’educazione linguistica nel nostro Paese, in particolare. È emblematico che l’opera con cui si è aperta la sua carriera – la Storia linguistica dell’Italia unita (prima ed. 1963) – trovi compimento, a cinquantun’anni di distanza, nella Storia linguistica dell’Italia Repubblicana (2014) e nel postumo L’educazione linguistica democratica (2018). Nel mezzo c’è stata la breve esperienza come Ministro della Pubblica Istruzione (2000-2001) da cui è scaturita una riforma scolastica progettata, ma mai attuata.
È da questi due eventi che ha preso l’avvio una lunga e tortuosa riflessione collettiva sull’educazione linguistica come prerequisito per la l’accesso alla vita culturale, politica e sociale. Non mi propongo, in questo scritto introduttivo, di esaurire un argomento così vasto e sfaccettato, ma di fornire una chiave interpretativa – una delle tante possibili – al lettore che volesse avventurarsi nelle pagine che seguono.
L’avvio più naturale di questo percorso è l’intervista che proprio De Mauro concesse a Leussein – e che la scrivente ebbe il piacere e l’onore di condurre – contenuta ne Il teatro della democrazia (Leussein 2015 VIII:3, pp.149-160). In quell’occasione De Mauro mise in luce alcuni aspetti drammaticamente problematici dell’educazione linguistica degli italiani: la scarsa e disomogenea distribuzione di luoghi e strutture in grado di proporre offerte culturali di alto livello, la fragile e poco diffusa conoscenza delle lingue straniere (che taglia fuori la maggior parte della popolazione, anche giovane, da scambi politici e culturali di livello internazionale) e, in generale, la scarsa attenzione a quelle politiche di educazione permanente che, se attuate, avrebbero permesso di combattere il diffuso analfabetismo funzionale e di ritorno, vera minaccia per l’esercizio dei diritti civili nell’Italia contemporanea. Se questi sono i temi che hanno sollecitato le presenti riflessioni, la maniera di condurle è quella propria di Leussein. Non stupirà allora che il centro attorno a cui gravitano i testi che seguono sia collocato, come è d’uso, nella Grecia antica: l’articolo di Cinzia Bearzot su polis greca e educazione permanente, permette di guardare al problema dell’educazione del cittadino attraverso la lente dell’analisi delle strutture politico-culturali dell’Atene classica. Bearzot descrive infatti le pratiche messe in atto nell’Atene del V secolo e mostra la necessità di un’educazione permanente e trasversale. Tale necessità costituisce il fondamento della possibilità stessa di una democrazia matura, specialmente all’interno delle società contemporanee.
Se prendiamo il caso dell’Italia dalla sua nascita come stato unitario fino ai nostri giorni, vedremo agevolmente come la storia dell’allargarsi della partecipazione politica sia legata a doppio filo con quella delle riforme scolastiche e col tentativo di diffusione di una conoscenza adeguata della lingua nazionale.[2] Sulle ultimissime fasi di questo processo, è parso doveroso sentire l’opinione di un illustre linguista: il professor Luca Serianni, convocato dal governo Gentiloni come consulente del Miur per l’apprendimento dell’italiano. Dalle parole di Serianni (Dal tetto alle fondamento.La scuola come cinghia di trasmissione del diritto di cittadinanza) emerge un progetto preciso: quello di “svecchiare” l’insegnamento/apprendimento della lingua nelle nostre scuole, liberandolo dai “grammaticalismi” a cui è stato da troppo tempo soggetto, spesso a causa di uno sterile ossequio alle strutture delle lingue classiche. L’obiettivo del team coordinato da Serianni era quello di rendere la lingua un utile strumento di apprendimento, anche nello studio delle altre materie. Fece discutere, durante il loro operato, la proposta di dare nuovo risalto agli esercizi di comprensione del testo, tra cui il riassunto, a discapito del classico tema. Serianni spiegava il senso di tale scelta, ricordando che: “non si deve assolutamente dare per scontata la capacità di comprensione di un libro che pure è continuamente nelle mani dell’alunno [il manuale ndr]. Gli esercizi durante l’anno possono benissimo vertere sulla comprensione, per esempio, di testi adottati per altre materie. Questo è un lavoro molto utile che fra l’altro permette, se si tratta di testi scientifici, di creare un’utile interazione tra l’ora di italiano e l’ora di scienze.”
L’intervento di Serianni tentava di arginare un problema che è messo bene in luce da Vittoria Gallina nel suo Alfabeti e analfabeti nel mondo globale: il caso italiano.La situazione descritta dall’articolo – a cui rimando per un’analisi dettagliata dei dati e per la discussione dei parametri cui farò riferimento – è grave: la percentuale di italiani definiti low skilled (individui che presentano capacità molto limitate nell’affrontare prove estremamente semplici, es: lettura di testi brevi, individuazione di informazioni specificamente indicate e che non riescono a fare semplici associazioni o inferenze a partire dal testo) rappresenta il 27,9% dei cittadini tra i 16e i 65 anni. Questo dato sulla diffusione dell’analfabetismo funzionale diventa particolarmente significativo se lo si incrocia con la percentuale di neet (persone non impegnate nello studio, nel lavoro, e nella formazione), condizione che in Italia riguarda un giovane su cinque nella fascia compresa tra i 15 e i 24 anni.
Nell’analizzare queste cifre va posto l’accento su un fatto evidente, eppure spesso lasciato in ombra: la literacy di cui parla Gallina non deve essere intesa come mera alfabetizzazione, ma come “strumento moltiplicatore di effetti che danno potere ai cittadini del mondo e li rendono capaci di contribuire, con consapevolezza e responsabilità, alle società di riferimento.” Si tratta, quindi, di “saper trattare / controllare, produrre e comunicare una mole grande e complessa di informazioni e saper agire e reagire a tutto questo in modo creativo”. La literacy è dunque una maniera di guardare e interpretare il mondo, finalizzata all’azione significativa al suo interno. Io credo inoltre che i dati riportati vadano inquadrati all’interno di una riflessione sull’aumentata complessità e varietà dei testi (intesi nel senso più ampio possibile) a cui l’uomo contemporaneo è costantemente – spesso passivamente – esposto; a complicare il quadro è intervenuto il cedimento delle strutture interpretative tradizionali che offrivano, con la loro pur limitante solidità, un comodo appiglio contro le incertezze. Chiaramente il grado di literacy della popolazione sarà un predittore della sua capacità di inserirsi efficacemente nella vita politica, sociale, economica e culturale del Paese. È qui che la questione pedagogico-linguistica diventa drammaticamente politica: il compito dello Stato democratico contemporaneo, vitale per la sua stessa sopravvivenza, è quello di eliminare le condizioni che rendono possibile il permanere di sacche così larghe di analfabetismo.
La scuola pubblica è – ovviamente – lo strumento principale attraverso cui tale compito va assolto. Dico che è il principale, ma non l’unico. Questo risulta evidente quando si analizza un dato ben noto: quasi tutti gli italiani terminano con successo la scuola dell’obbligo, eppure le percentuali di analfabeti e low-skilled si attestano comunque intorno a quel terribile 30%. Per spiegare tale discrepanza bisogna considerare, ovviamente, quello che De Mauro chiamava l’“analfabetismo di ritorno”, ossia la progressiva perdita delle capacità di lettoscrittura e calcolo che si verifica in quegli individui che, una volta terminato l’obbligo scolastico, non esercitano più le abilità apprese. Emerge allora con forza la necessità di ripensare a delle politiche che costituiscano un reale incentivo all’educazione permanente, che siano cioè in grado di sostenere il cittadino dal momento del suo ingresso a scuola, senza abbandonarlo al momento del suo licenziamento. Come bene ricorda Bearzot, l’educazione permanente non riguarda solo l’educazione formalizzata: non si tratta, cioè, di tornare per forza sui banchi: essa si esercita nelle sale da concerto, nelle biblioteche, nei cinema e nella partecipazione a rituali collettivi e condivisi. Un luogo di esercizio privilegiato di tali pratiche necessarie all’educazione permanente è, ad esempio, il teatro, così come ricorda Enrico di Fabio nel suo articolo su Il laboratorio teatrale per la formazione. Grotowski. Dalla sua analisi emerge la rilevanza pedagogica del teatro nella formazione universale, trasversale e permanente dell’individuo. Questo conferma che la scuola fa tanto, ma non fa tutto e non fa abbastanza. Per quanto possa sembrare difficile e forse anacronistico in un mondo iper-connesso, globalizzato e liquido, il vero sostegno dell’educazione è la ricostruzione un orizzonte di valori condivisi che dettino degli obiettivi chiari, che possano essere proposti come fine realistico e condiviso dello sforzo educativo comune della società civile, affinché la formazione del cittadino – e la sua formazione permanente e trasversale – giunga a un successo stabile.
La definizione di tale orizzonte comune è un processo delicato e complesso, di cui si dovrebbe far carico l’intero corpo sociale, attraverso tutti quelle associazioni di cittadini che si propongono di fare “cultura”. Tra di esse occupa un posto privilegiato quello che per antonomasia costituisce il luogo in cui cultura, progresso e innovazione dovrebbero convergere, moltiplicarsi ed essere ridistribuiti: l’università. Di questo tema si è fatto carico Vladimyr Martelli nel suo testo sull’evoluzione dell’Università dal medioevo all’inizio età moderna. Il ruolo delle università e dei centri di ricerca e del loro rapporto con la società civile, con la politica e con i soggetti privati finanziatori è una questione complessa che meriterebbe una riflessione a parte. Tuttavia era doveroso toccare almeno punto: le condizioni storiche in cui le università sono nate e che hanno concesso loro di svilupparsi come “regno sovrano (realm), di un potere e di un impero della conoscenza e della ricerca che non sono subordinati ma in rapporto dialettico con gli altri poteri, quello religioso e quello politico”. È, in definitiva, il preservarsi di questo rapporto dialettico che rende possibile il progredire della società nella sua interezza.
L’alternativa è uno sfilacciamento del tessuto civile e la degenerazione della comunicazione, ed in particolar modo di quella politica.[3] Trovo che questo aspetto sia messo bene in luce dall’analisi che fa Veronica Bagaglini [Qualunquismo] delle pratiche discorsive nel linguaggio politico “qualunquista”: i frame cognitivi ricorrenti che l’autrice individua nel linguaggio politico dei leader del partito dell’uomo qualunque, della Lega e del Movimento 5 Stelle sono – a mio parere – un buon esempio di come si possa agevolmente costruire un’identità per opposizione (e dunque escludente rispetto a un altro gruppo politico, rispetto al sistema dei partiti, all’UE, agli immigrati o ai “migranti”, ai rom…), facendo leva su alcuni meccanismi discorsivi che – sebbene universalmente presenti nel linguaggio umano – aumentano il loro potere laddove il livello di literacy si abbassa. Questi sono meccanismi di facile individuazione per lo studioso, ma che agiscono sotterraneamente nei destinatari a cui quei discorsi sono rivolti. È qui più che mai evidente il legame tra parola orientata alla persuasione, costruzione della realtà e azione politica:
Si tratta di agire sulle credenze del destinatario, sulla sua conoscenza, modificandone la percezione del mondo e, conseguentemente, apportando cambiamenti alla possibilità di decisione e di giudizio su come agire nella realtà.
Vorrei tuttavia chiarire un aspetto: non affermo che le pratiche individuate dalla discourse analysis – in particolar modo il giudicare la veridicità e la consistenza dei discorsi non in base alla loro effettiva coerenza e al riscontro fattuale, ma in base all’aderenza al frame di riferimento – siano proprie di fantomatici stadi degenerati del parlare e del ragionare umano; ritengo, anzi, che esse siano meccanismi propri della lingua in quanto tale e che abbiano avuto un ruolo fondamentale nella filogenesi del linguaggio umano. Sono, anzi, pratiche costitutive, e pertanto ineliminabili, del parlare ed è per questo che i bravi politici e i bravi comunicatori devono imparare a servirsene per ottenere l’obiettivo che si prefiggono. Tuttavia, quando ci si accosta al delicato problema dell’educazione linguistica e dell’esercizio del diritto di cittadinanza in democrazia, bisogna distinguere con attenzione il livello descrittivo, che è proprio del linguista, da quello prescrittivo, che dev’essere dell’educatore. Ossia: se è naturale che l’essere umano ragioni e parli per frame cognitivi, e se è inevitabile che il politico scaltro cerchi di sfruttare a proprio vantaggio questa tendenza, torcendo i discorsi a favore di una parte o di un’altra, non è salubre che lo Stato non fornisca al cittadino gli strumenti adeguati a riconoscere tali pratiche e per sapersi destreggiare nel pantano di discorsi in cui è immerso. Il rischio è la devoluzione della democrazia stessa.
Farmaco contro tale decadimento è, nuovamente, un’educazione libera e inclusiva.
Sul concetto di inclusività vale la pena di soffermarsi per un momento: tradizionalmente la scuola italiana si è posta – a ragione – il problema degli studenti portatori di handicap. È un merito italiano quello di aver eliminato, in seguito alla relazione della commissione parlamentare guidata da Franca Falcucci, le classi differenziali (L. 517/1977). La scelta veniva dalla considerazione della necessità, per i portatori di handicap, di imparare all’interno di un contesto variegato, simile al mondo che avrebbero incontrato una volta usciti dalla scuola dell’obbligo e non artificialmente costruito; per contro, dal punto di vista degli studenti normodotati, la presenza dei bambini e dei ragazzi portatori di handicap in classe costituisce una prima occasione di incontro e di relazione con la diversità, che non può che arricchire la loro visione del mondo e dell’altro. La gestione di tale delicatissimo aspetto della vita scolastica è normato dalla legge n. 104/1992, sempre ispirata agli stessi principii e orientata alla massima inclusività e integrazione. Tuttavia la categoria dei “portatori di handicap” non esaurisce l’insieme degli “alunni svantaggiati”: con la legge n. 170/2010 nel nostro ordinamento sono state introdotte altre due categorie, quella degli alunni con DSA (disturbi specifici dell’apprendimento) e quella degli alunni con BES (bisogni educativi speciali).
I tre concetti (handicap, DSA e BES) sono spesso sovrapposti e confusi, pertanto vale la pena di spendere qualche parola per chiarirli: gli alunni BES sono tutti quegli alunni che, per un periodo indefinito, ma che può essere limitato nel tempo, presentano dei bisogni educativi speciali. Tali bisogni possono essere originati da una varietà di fattori, sia medici (pensiamo a una depressione) sia socioeconomici. Rientrano, ad esempio, in questa categoria ragazzi e bambini che hanno vissuto esperienze traumatiche, oppure che non sono madrelingua italiani ma si trovano a frequentare le scuole in Italia. È importante sottolineare che la condizione di BES non è permanente: in linea teorica, una volta eliminata la fonte del disagio, il bisogno educativo speciale può cessare. Gli studenti che rientrano nei casi previsti dalla legge 104, invece, hanno un handicap fisico o mentale certificato dal medico e hanno diritto a un insegnante di sostegno che si dedichi a loro. Gli studenti con DSA rientrano in una categoria ancora a parte: essi sono affetti da uno o più disturbi specifici dell’apprendimento (dislessia, discalculia, disortografia e disgrafia), ma più spesso da una serie di essi. La categoria dei DSA è stata solo recentemente introdotta nella legislazione italiana e, di conseguenza, la scuola è attualmente nel pieno del suo sforzo di adeguamento alle nuove norme. Ai DSA, ed in particolare alla dislessia, è dedicato l’articolo di Mara Trenta (Quanto può essere faticoso leggere per un bambino? La dislessia evolutiva) a cui rimando per ulteriori chiarimenti. Ciò che qui mi interessa è sottolineare l’entità dello sforzo in cui l’Italia si sta profondendo per includere due categorie di alunni svantaggiati che, fino a una ventina di anni fa, sarebbero stati semplicemente “lasciati indietro” e, dunque, plausibilmente condannati a un destino di marginalità socio-economica. I racconti degli alunni e degli ex-alunni affetti da DSA sono pieni di maestre/i e professori/esse che li apostrofano come “disordinati”, “pigri”, “asini” incapaci di apprendere l’ortografia o di effettuare correttamente operazioni matematiche anche molto semplici. Fino a vent’anni fa infatti si ignorava (e purtroppo in alcuni casi si continua a ignorare ancora adesso) che il cervello di un alunno DSA non riesce a rendere automatiche alcune operazioni mentali (lettura, scrittura, calcolo, disegno, organizzazione dello spazio sul foglio) che per la maggioranza dei bambini diventano, dopo qualche mese di esercizi, automatiche. Tuttavia, adattando i metodi di insegnamento alle loro difficoltà, si riescono a raggiungere degli obiettivi di apprendimento identici a quelli degli altri. Ovviamente per raggiungere tali obiettivi si deve andare incontro a un drastico cambiamento del paradigma educativo. In questo senso il quadro descritto dal team coordinato da Clotilde Pontecorvo nell’articolo leggere in ebraico a cinque anni può essere utile a dissipare qualche dubbio, non tanto perché agli alunni DSA debba applicarsi il metodo di apprendimento della lingua ivi descritto, ma per una questione di metodo: ripartire dall’osservazione del processo di apprendimento creativo, libero, sperimentale del bambino può aiutare l’adulto a comprendere che l’acquisizione dell’abilità di lettoscrittura è un processo che può – e in alcuni casi deve – seguire vie non necessariamente canoniche e giungere, attraverso quelle, a risultati stupefacenti.
Di uguale importanza è il discorso circa l’ultima categoria individuata: quella dei BES. Un Paese che – nonostante le resistenze – si avvia ad essere sempre più multiculturale, non può ignorare lo svantaggio linguistico, o socio-economico, soprattutto non può permettersi di farlo all’interno di un luogo – come la scuola – che è deputato a costruire l’identità linguistico-culturale dei suoi futuri cittadini e a fornire loro gli strumenti necessari per esercitare attivamente e consapevolmente i loro diritti. Su questo punto ritengo che l’articolo di Isabella Chiari sull’educazione formale e non formale e identità linguistica dei profughi siriani in Turchia sia illuminante: attraverso lo specchio della questione dell’insegnamento nei campi profughi turchi, Chiari pone un problema che è anche italiano, perché è universale in un mondo globalizzato: ossia la necessità di fornire un’educazione che tenga conto del nesso che sussiste tra politica, lingua e identità culturale e che non si ponga come obiettivo quello di uniformare le identità, schiacciandole sotto il peso del modello nazionalistico ottocentesco, che puntava tutto sull’identificazione di lingua/stato/nazione. È invece più saggio valorizzare la multiculturalità e la multilinguisticità affinché già dai banchi di scuola si inizino a costruire le basi di un’integrazione solida e duratura. Come lei stessa scrive: “La negazione dell’identità linguistica e culturale infatti è fonte di conflitto e rivendicazione. Rallenta o impedisce in molti casi il processo di accettazione
[da parte siriana]
dell’integrazione, vissuta come una neutralizzazione, una cancellazione identitaria e linguistica a favore della comunità dominante. (…) Per il futuro sviluppo anche economico e culturale delle aree di confine è necessario infatti pensare a un percorso di istruzione formale e non formale che punti sulla multiculturalità, al bilinguismo e alla condivisione di obiettivi di convivenza e integrazione”.
Ritengo che
queste parole possano applicarsi, con le dovute distinzioni, a ogni società ed
anche alla nostra: in un momento storico in cui – sollecitata dalle sfide che
le impone il mondo globale – l’Italia sembra affidarsi a una visione politica
nazionalistica e anti-inclusivista, dovrebbe essere nostra cura ricordare
sempre che l’obiettivo di ogni democrazia solida è quello di garantire che un
numero sempre maggiore di uomini e donne possano giungere a una sempre più
larga e consapevole partecipazione ai diritti civili e alla vita politica.
[1] Vedi le recensioni di Vladimyr Martelli in questo numero di Leussein.
[2] La questione della lingua nell’Italia pre e post-unitaria è argomento ben noto. Per un piccolo contributo sul dibattito circa il metodo d’insegnamento della lingua nazionale nei primi decenni dopo l’unità d’Italia, si veda la mia introduzione al testo di G.I. Ascoli nella sez. Inediti e Rari del presente volume.
[3] Il tema è sfiorato anche nell’intervista a Serianni, nell’accenno al passaggio, nella comunicazione politica, dal paradigma della superiorità a quello del rispecchiamento.