A circa un anno dall’uscita del suo nuovo libro “Storia linguistica dell’Italia repubblicana” (2014), abbiamo incontrato il professor Tullio De Mauro, insigne linguista ed ex-ministro dell’istruzione, e gli abbiamo chiesto di riflettere insieme a noi su alcuni dei temi che gli sono più cari: l’educazione, la democrazia e, ovviamente, la lingua degli italiani.
L’idea da cui siamo partiti è stata quella di rintracciare, nell’Italia contemporanea, i luoghi della riflessione politica e dell’autocoscienza. Tali funzioni, che nella Grecia classica erano assolte dal teatro (si veda Luoghi della relazione nella Grecia antica, di Cinzia Bearzot, “Leussein” 1-2/2014), si presentano nella democrazia moderna oltremodo problematiche: da un lato vi sono ovvie difficoltà strutturali legate ai numeri della democrazia indiretta, che impediscono una riflessione che coinvolga in maniera attiva tutti i cittadini; dall’altro vi è una difficoltà più drammatica, legata alla maniera in cui lo Stato democratico sceglie di formare i suoi cittadini.
La riflessione di De Mauro si concentra proprio su questo punto e sceglie, come cartina al tornasole, l’analisi delle competenze linguistiche degli italiani. Ne esce un quadro non incoraggiante: nonostante gli strabilianti progressi compiuti dall’unità d’Italia a oggi, le capacità di comprensione dell’italiano scritto e del parlato medio-alto sono drammaticamente basse, come mostrano i dati che risultano dalle analisi internazionali.
I processi di de-alfabetizzazione in età adulta, che molti paesi conoscono, ma che l’Italia non ha saputo fronteggiare, pesano sulla possibilità di esercitare una cittadinanza piena. Tra le cause del persistere di queste larghe sacche di analfabetismo e semianalfabetismo De Mauro indica la povertà del tessuto associativo nel nostro Paese, la scarsezza di sollecitazioni da parte della società a tenersi informati e aggiornati, la mancanza di luoghi di ritrovo e di offerta culturale di alto livello – come biblioteche, teatri, sale da concerto – e infine la disattenzione della classe politica.
Un’analisi puntuale del problema, e delle possibili soluzioni da attuare nell’immediato e nel medio-lungo termine, si potrà trovare nella relazione del team di esperti convocato nel 2013 dall’ex presidente del consiglio Enrico Letta e dai ministri Giovannini e Carrozza e presieduta proprio da De Mauro. La relazione, già pubblicata nella rivista “Osservatorio ISFOL” (III, 34, pp.1909-124), viene riproposta per intero nella sezione “inediti e rari” del presente numero di Leùssein (vedi pagg…?).
La riforma della scuola attuata dal successivo governo invece – la cosiddetta “Buona Scuola” del 2015 – sembra non aver tenuto in conto la necessità della formazione permanente dei cittadini, senza la quale le competenze acquisite negli anni di scuola vengono irrimediabilmente perdute. Questo influisce sulla sua competitività degli italiani nel contesto del mercato del lavoro nazionale e internazionale e dunque sulla mobilità sociale, ma soprattutto determina l’incapacità di una larga parte dei cittadini di partecipare pienamente alla vita politica del nostro paese.
Domanda – Professore, Lei è stato e continua a essere uno degli studiosi italiani più attenti al rapporto tra istruzione e democrazia, e in particolare alla questione della partecipazione dei cittadini alla vita pubblica. L’aspetto più interessante della sua maniera di guardare a questa questione è la lente che Lei usa, che è la lente degli studi di linguistica e sociolinguistica. Per iniziare questa conversazione mi piacerebbe sapere come – a partire dal libro che ha segnato l’inizio di questa riflessione, cioè la Storia linguistica dell’Italia unita – si sono modificati i rapporti tra questi tre termini: lingua, istruzione e democrazia.
Risposta – Non c’è dubbio che, rispetto agli anni Cinquanta, ci siano stati dei cambiamenti. Ne ho parlato analiticamente nella seconda puntata della vecchia Storia e cioè in Storia linguistica dell’Italia repubblicana pubblicata un anno fa da Laterza, Cominciamo dall’istruzione: negli anni Cinquanta l’indice di scolarità, cioè il numero di anni di scuola fatti dal totale della popolazione diviso per numero di abitanti, era di circa tre anni in Italia. Come dire che, mediamente, avevamo fatto i primi due tre anni delle scuole elementari. Questo dipendeva dal fatto che il 60% della popolazione, fosse o no analfabeta, non aveva la licenza elementare e il 40% era composto da un 30% che era aveva conquistato la licenza elementare e un 10% che era andato oltre, verso i livelli superiori di istruzione. Per capire cosa significano questi numeri bisogna ricorrere al confronto con altri paesi: nei paesi sviluppati di quel tempo – Francia, Germania, Inghilterra, Svezia o negli Stati Uniti – l’indice di scolarità era di sei/sette anni. L’indice di scolarità italiano – fra i due e i tre anni – era l’indice dei paesi sottosviluppati. l’Italia dunque, almeno dal punto di vista scolastico e non solo, apparteneva alla schiera dei paesi sottosviluppati. Questo è cambiato, ed è cambiato in modo straordinario.
D. – Cosa è successo in questi cinquant’anni?
R. – Come oggi sappiamo da lavori molto accurati, i paesi sviluppati sono passati a un indice di scolarità di 12/13 anni, i paesi sottosviluppati degli anni Quaranta/Cinquanta sono saliti a 6/7 anni, cioè sono arrivati al livello di scolarità che sessant’anni fa era dei paesi sviluppati. L’Italia e soltanto un altro paese nel mondo, la Corea del Sud, hanno fatto di più: non è salita a 6/7 anni ma è salita a 12, quasi 13 anni, cioè ha fatto un salto di categoria. Questo salto di categoria è un’eccezione nel mondo e deve farci riflettere sul lavoro che la scuola e la popolazione hanno saputo fare. E dico la popolazione, perché norme e provvedimenti governativi sono sempre arrivati un po’ in ritardo rispetto al maturare di una spinta popolare a cercare livelli più alti di istruzione per la generazione giovane, per i ragazzi insomma.
D. Questo è un primo cambiamento. In rapporto stretto con questo c’è il cambiamento delle condizioni linguistiche del paese…
R. – In quel mio vecchio libro ho cercato di ricostruire la situazione linguistica italiana a partire dal momento dell’unificazione. Voglio premettere che ho avuto un po’ di storie per i dati che mi pareva – e continua a parermi – di dover ricostruire per il 1860. Dai dati sulla scolarità dell’epoca e dalle testimonianze, sappiamo che l’italiano era una realtà estranea fuori dalla Toscana e in qualche misura anche di Roma. Questo non valeva solo per l’insieme della popolazione, ma anche per la classe più colta: per Manzoni o per Cavour l’italiano era una lingua che si leggeva o si scriveva ma – come loro stessi ci raccontano – non si poteva parlare, perché parlarlo significava esporsi all’incomprensione, addirittura essere scambiati per stranieri. Lo sappiamo da qualche episodio divertente, ad esempio dai fratelli Visconti Venosta i quali, durante un viaggio per il Mezzogiorno d’Italia, da buoni aristocratici milanesi patriottici, si sforzavano di parlare italiano e la gente li scambiava per inglesi. Insomma: i dati che ho raccolto non fanno piacere a nessuno. Un bravissimo studioso, Arrigo Castellani, e poi altri, hanno cercato di correggere il dato del 2,5% della popolazione in grado di parlare italiano, spostando un po’ il discorso a quanti potevano capire un po’ di italiano. Naturalmente la ricezione è più facile, ma è interessante vedere che anche con questo sforzo e cambiando ottica, passando dal saper parlare attivamente al saper capire il parlato, la percentuale fissata da Castellani era del 7.5- 8% della popolazione. Il salto, come saggiamente disse Giacomo Devoto, non cambiava la sostanza della questione: l’italiano, disse, “si librava in un vuoto oligarchico”, comunque nove italiani su dieci erano estranei alla realtà dell’italiano.
Invece i dati che ho messo insieme per gli anni Cinquanta sono rimasti indiscussi ed è anche difficile metterli in discussione: la documentazione è troppo vasta e molti li hanno vissuti e ne hanno ancora memoria personale. E quindi sappiamo che, ottimizzando i dati relativi alla capacità di parlare, si arriva a poter dire che il 18% della popolazione, inclusi i toscani e romani, era in grado di parlare italiano e lo parlava abitualmente, il 18% era in grado di parlare italiano ma parlava anche uno dei dialetti e il restante 64% parlava soltanto il proprio dialetto nativo e non parlava mai in italiano. Anche questo è cambiato, naturalmente, per impulso della scolarità crescente anzitutto tra le classi giovani, che poi sono diventate man mano le classi anziane: chi aveva dieci o quindici anni negli anni Cinquanta oggi è una persona molto anziana, che si è portata a un livello di scolarità molto più alto che nel passato. Quindi: grande impulso della scolarità e della scuola, soprattutto della scuola post-elementare, che era il luogo dove si maturava una buona e durevole conoscenza e pratica dell’italiano, e poi grandi fenomeni demografici, come l’emigrazione e quindi il rimescolamento di popolazioni di dialetto diverso, e poi, con la seconda metà degli anni Cinquanta, l’ascolto televisivo che è stato importante come fonte di conoscenze di tutti i tipi e, naturalmente di conoscenza dell’italiano.
D. – Dunque la televisione ha avuto un impatto notevole sulle condizioni linguistiche del Paese?
R. – La televisione costituiva un mezzo di comunicazione relativamente a basso costo. Certo: questo poteva dirsi anche della radio, ma la radio non ha mai avuto l’impatto che ha l’ascolto accompagnato dalla visione, dalla scena o dalla persona che parla. Perfino l’annunciatore televisivo – che in fondo è semplicemente una persona che si vede che parla – ha un’influenza molto maggiore dell’annunciatore radiofonico sul nostro modo di parlare, per il bene e per il male. Quindi, spinta anche certamente dalla televisione, il risultato è che, secondo gli ultimi dati dell’Istat, che ha seguito da un certo punto in poi con attenzione questo fenomeno, quasi il 95% della popolazione dichiara di saper parlare italiano.
E insisto su parlare, perché c’è una cosa che non è granché cambiata e cioè il rapporto con la scrittura e la lettura: negli anni Cinquanta era inevitabilmente molto basso, ed è rimasto molto basso. Un indicatore importante è l’indice di acquisto e lettura dei quotidiani: questo indice in Italia era di una copia venduta ogni dieci abitanti; negli altri paesi le copie erano due, tre, quattro addirittura in alcuni, come in Svizzera. Poiché secondo le stime una copia veniva poi letta da tre persone, si poteva stimare al 30% il numero di persone abituate a leggere il giornale in Italia.
Nel tempo è abbastanza impressionante vedere che sono cambiati tutti i fattori che condizionano l’acquisto del giornale. Il reddito, prima di ogni altro: il paese ha conosciuto fasi di grande benessere. Oggi diciamo di stare male, ma restiamo uno dei paesi più ricchi del mondo e comunque il reddito individuale è enormemente cresciuto rispetto agli anni Cinquanta, quindi potremmo permetterci di comprare i giornali e qualche libro, ma non lo facciamo, o perlomeno lo facciamo in una misura non variata rispetto agli anni Cinquanta. Anzi adesso assistiamo a un’altra tendenza. Un po’ il morso della crisi economica, si dice – ma io credo che nello specifico sia irrilevante – un po’ la disaffezione al modo in cui sono fatti i giornali italiani – credo e ho cercato più volte di mostrare che questo stia contando molto di più – un po’ la diffusione di altri mezzi di informazione quotidiana attraverso internet provocano una leggera flessione: non una copia ogni dieci abitanti, ma una copia oramai ogni undici/dodici abitanti. Una flessione che riguarda anche l’acquisto e la lettura di libri, naturalmente. Questo avviene anche in altri paesi, ma in Italia il dato è più significativo, perché la flessione avviene in un paese già sottosviluppato dal punto di vista della diffusione dei quotidiani e della lettura.
In sostanza c’è un cattivo rapporto con i testi scritti. Fino ad alcuni anni fa questo risultava solo dai dati sulla lettura, oggi lo sappiamo attraverso importanti indagini comparative internazionali fatte osservando, attraverso questionari, quali sono le capacità delle persone. Siamo in grado di dire con notevole precisione che il 70% della popolazione adulta italiana, più che quattordicenne, anche se è arrivata ad alti livelli di istruzione, ha difficoltà a leggere e capire un testo scritto. Ci sono delle gradazioni, ovviamente: si va dalla difficoltà e fatica di capire al non capire niente, dal semianalfabetismo all’analfabetismo, tuttavia c’è una massa consistente di persone per cui una pagina scritta è – come si dice? – “arabo” o “cinese”, : è impenetrabile. Inoltre, per i dati che oggi abbiamo sulla scolarità, in questo 70% ci sono persone che hanno preso la licenza liceale, addirittura la laurea! Questo è sconcertante. Soltanto in Spagna abbiamo una situazione del genere, così pesantemente ancorata alla dealfabetizzazione.
D. – Però, almeno riguardo all’italiano parlato, si può dire che la situazione è cambiata in meglio?
R. – Sì, con un grosso ma per quanto riguarda il controllo effettivo della lingua al di là della quotidianità: quando si esce dalla quotidianità anche il parlato ha una sua complessità, come la scrittura. È molto difficile fare una buona indagine sulla comprensione del parlato, perché le condizioni materiali sono diverse rispetto allo scritto e i test sono faticosi da fare e anche malsicuri, almeno per ora. Che io sappia nel mondo soltanto i francesi hanno tentato di fare un sondaggio in questa direzione del grado di comprensione del parlato. Quindi non lo sappiamo con sicurezza, ma è probabile che dobbiamo proiettare il 70% di cattivo rapporto con la lettura anche sul parlato quando questo abbia qualche complessità, come necessariamente ha il parlato dell’informazione culturale, economica, politica, sociale.
E qui andiamo a sbattere contro il problema del rapporto con le leggi e con chi amministra, che – come in Italia è stato da e per tanti secoli – è un rapporto di sudditanza. La difficoltà sta nel fatto che buona parte dell’informazione è scritta, oppure viene affidata a una buona informazione parlata e quindi, per molta parte della popolazione, è difficile da capire tanto quanto lo scritto.
Quindi le cose sono cambiate, ma probabilmente non sono abbastanza cambiate per garantire gli strumenti linguistici e culturali di una piena partecipazione alla vita sociale e politica del Paese come richiederebbe l’articolo 3 comma 2 della Costituzione, cioè non siamo riusciti a [De Mauro cita a memoria, ndr]: «rimuovere gli ostacoli che impediscono il pieno sviluppo della persona e la piena partecipazione alla vita sociale e politica del Paese».
Molti ostacoli li abbiamo rimossi: la bassa scolarità o assente scolarità è stata rimossa, il non sapere niente o poco più che niente della lingua nazionale è stato rimosso, però restano sacche enormi di insufficiente competenza linguistico-culturale.
D. – Mi scusi ma, visto che per la maggioranza della popolazione i dati sulla scolarità sono alti e le competenze continuano a essere basse, non sarebbe legittimo chiedersi: «Ma questi, che hanno fatto a scuola? non hanno studiato?»
R. – Certo che a scuola hanno studiato! Certo che uscendo da scuola e dall’università – per quanto i giovani siano bersagliati continuamente dalla storia che i giovani non sanno parlare e altre sciocchezze del genere – uno si porta dietro un bel po’ di competenze linguistico-culturali, che però hanno il difetto di tutte le competenze intellettuali e in parte anche fisiche: se non si esercitano si perdono per strada, svaniscono. È un fenomeno che conoscono in parte anche altri paesi, noi lo conosciamo in una misura troppo forte, anche perché gli stili di vita che troviamo intorno a noi uscendo dal sistema scolastico non sono tali da favorire la conservazione dei livelli di competenza che abbiamo acquisito e cioè – tradotto in termini meno psicopedagogici – intorno a noi, nelle nostre città nei nostri paesi, al di là di quello che può passare la televisione, che ha avuto effetti positivi, più o meno fino agli anni ottanta, e poi negativi, non troviamo nel tessuto urbano offerte che favoriscano la cultura, l’informazione; e non troviamo neanche motivi o sollecitazioni a tenerci informati e, se lo vogliamo fare, è sempre più difficile.
Tra l’altro quel po’ di crisi che segnalavo, quella diminuzione della vendita di quotidiani e di stampa, sta determinando la chiusura di tante edicole e la difficoltà delle librerie, ma questo avviene già da molto tempo. Un grande esperto di questa materia, Luciano Mauri, una ventina di anni fa diceva che in Italia esistono soltanto trecento vere librerie, cioè librerie aperte tutto il giorno, con un’offerta vasta, le altre sono cartolibrerie. Per carità, meno male che ci sono! Ma non sono librerie con l’offerta culturale che serve. Quelle vere sono trecento su sessanta milioni di persone…
Inoltre non ci sono biblioteche territoriali. Alcuni anni fa l’associazione internazionale bibliotecari fissò uno standard minimo per le città del mondo, dicendo che un abitante deve trovare entro 600 metri da casa sua una biblioteca territoriale, cioè le biblioteche comunali, non le grandi biblioteche di ricerca e conservazione che giustamente sono e devono essere ben più rare..
Ecco, se lei da qui dove io abito o dalla Fondazione Leusso vuole trovare una biblioteca comunale… può andare oltre piazza Ungheria, arrivare fino a via Aldovrandi e lì c’è una via che la collega a viale Bruno Buozzi, via di villa Sacchetti, lì c’è una biblioteca, la biblioteca Baldini che non era nata come comunale… e siamo a circa 3 km…
D. – Però siamo a Roma: una grande città, la capitale…
R. – Questa è una delle differenze strutturali con gli altri paesi, perché anche in Francia non abbiamo dei dati proprio esaltanti per quanto riguarda la capacità di lettura degli adulti, però in ogni paesino, anche il più sperduto, c’è la biblioteca. Questo in Italia succede in alcune zone del Paese: succede in Friuli, succede in Val d’Aosta e anche, ma già molto di meno, tra Veneto e Emila Romagna.
D. – Dunque ci sono delle differenze tra le regioni italiane, ma a cosa è dovuta questa disparità “strutturale”? È possibile che ancora sentiamo l’influsso delle differenze preunitarie? Penso alle zone del Paese storicamente più legate al cattolicesimo e a quelle che invece già da secoli guardavano al Nord Europa, alla cultura protestante, che ha fatto della pratica quotidiana della lettura dei testi sacri uno dei suoi capisaldi…
R.- Certo, naturalmente. Non è curioso che Val d’Aosta e Trentino siano le due regioni in cui, nelle indagini PISA sui livelli di competenza dei quindicenni, i ragazzi e le ragazze hanno livelli europei di prestazione e di risultati. “Sono in Europa”, per così dire.
Ma questo in parte avviene anche in Emilia e in Veneto, ed è interessante perché sono regioni con tradizioni politiche diverse: il Veneto bianco e l’Emilia rossa, o almeno così è stato per tanti anni, adesso le mescolanze sono forti.
Però complessivamente nel Paese questa offerta di biblioteche manca e manca l’offerta di teatri, sale di concerto. Ci sono i grandi concerti di musica rock e post-rock, ma non è questo che fa il tessuto della cultura musicale di un Paese. La capitale è stata fino a 5
pochi anni fa sprovvista di sale da concerto e Santa Cecilia doveva pitoccare al Vaticano una sala. L’offerta musicale è prossima a zero. La RAI aveva tre eccellenti orchestre sue di musica classica e, ormai parecchie anni fa, le ha sciolte, e si può continuare… quindi non abbiamo un’offerta decente.
Qui poi il serpente si morde la coda: non abbiamo un’offerta, ci distacchiamo dal volerci tenere informati e però abbiamo una politica che fa di tutto pur di non tenerci informati della realtà, neanche con discorsi ma con atti comprensibili, che non capiamo bene a cosa mirano. Questo crea un ulteriore distacco: a mio avviso siamo distaccati e siamo spinti un po’ ai margini dal come è organizzata la vita sociale e politica del Paese. QQQuesto per molto tempo è stato mascherato dall’alto indice di partecipazione al voto, che ora è franato e frana sempre di più e quindi abbiamo, io credo, dei problemi.
Come dicevo prima: anche in altri paesi ci sono fenomeni di dealfabetizzazione in età adulta, però altri paesi si sono organizzati da decenni con sistemi di educazione ricorrente pubblici o garantiti dal pubblico, che consentono in età adulta di frequentare corsi formali o anche informali delle più varie materie e sappiamo che la frequenza anche di pochi mesi a un corso funziona per dir così come una iniezione di richiamo d’un vaccino, riattiva tutte le capacità cognitive addormentate…
D.– Però anche in Italia ve ne sono stati: sto pensando ai centri di formazione permanente…
Sì, ma cominciano ora ad avere una minima struttura e un qualche credito, cioè ad essere poi presenti a loro volta sul territorio, ma avremmo bisogno di una rete diffusa. Una soluzione potrebbe essere che in ogni scuola ci fosse un centro di formazione permanente, che la scuola cioè sia aperta tutto il giorno e che funzioni, nella seconda parte della giornata, per ospitare corsi per adulti.
Dall’inizio del 2014 abbiamo avuto un riordino della materia normativa, che era un pasticcio intricatissimo, grazie all’impegno di una brava sottosegretaria all’istruzione, Elena Ugolini. Ora c’è la normativa, ci sono le leggi, ma non c’è la loro realizzazione. Il problema del creare e favorire un sistema strutturato, efficiente, diffuso territorialmente di istruzione degli adulti è un problema che, come dicono i politici, “non è all’ordine del giorno”. E in effetti, senza entrare nel merito del provvedimento detto “buona scuola”, c’è il sospetto che chi ha scritto e legiferato non sia proprio a conoscenza del problema.
D. – Professore, il nostro numero si concentra su una riflessione della grecista Cinzia Bearzot, la quale scrive che nell’antica Grecia: “il teatro era un luogo vitale per l’autocoscienza della comunità stessa: tragedia e commedia davano al popolo l’occasione per interrogarsi sulla realtà politica, ideologica, culturale in cui era immerso.” Stando il quadro di analfabetismo e disattenzione, anche politica, nei confronti della cultura che Lei ha descritto, quali sono al giorno d’oggi i luoghi deputati a tale riflessione?
R. – Escluderei i teatri come luogo dell’autocoscienza della comunità, non fosse altro perché non ce ne sono e i pochi vivono di vita grama. Della radio non saprei, perché non ho dati recenti. Per la televisione… beh, non voglio arrivare alle demonizzazioni a cui ad esempio arriva, con molta acutezza, uno studioso come Chomsky quando dice che la televisione è uno dei fattori che spinge a chiudersi in casa, a isolarsi gli uni dagli altri. Cioè: è chiaro che c’è – o può esserci – un’offerta culturale, ma non la condividiamo neanche col vicino di casa o col signore del piano di sopra, e quindi è un fattore di polverizzazione della vita associata secondo lui. Ma, anche senza arrivare a questi estremi, certamente c’è un rapporto unidirezionale tra chi fa l’offerta e il singolo. E dov’è il luogo in cui ci si ritrova e si discute? Per quello che riusciamo a sapere e a capire neanche in famiglia – nelle famiglie ormai con pochi figli, spesso monoparentali – neanche in questo ambito c’è più conversazione. O almeno: c’è una grande diminuzione delle interazioni verbali e delle interazioni che erano caratteristiche invece della famiglia allargata e “lunga”. Ma che questo fosse un problema drammatico è una cosa che sapevamo almeno dagli anni Settanta…
D. – Questo mi fa tornare in mente un’intervista che Lei ha rilasciato nel 2005 a Francesco Erbani, in cui concludeva la sua lunga riflessione sul rapporto tra istruzione e democrazia dicendo che l’alternativa a un modello in cui a una élite economico-culturale selezionatissima si oppone la massa del “popolo bue” tenuto a bada col vecchio metodo dei panem et circenses, si sarebbe potuta opporre l’alternativa di “un mondo in cui tutte e tutti possono essere, a turno, governanti e governati […] e quindi tutte e tutti abbiano una sufficiente dose di competenze per muoversi liberamente nello spazio delle società e delle culture (alte e basse, tecniche e intellettuali) e per capire la follia dello scannarsi a vicenda tra popoli, culture, credenze. E anche Internet – a condizione di saperlo usare – può aiutare, e molto, su questa strada. Sogno utopico? Io credo che siamo già in molti a sognarlo nel mondo…”. Ecco, a distanza di dieci anni, crede che internet si stia rivelando un luogo adatto a questo tipo di dialogo?
R. – Sì, un pochino. Però c’è anche il bisogno di correggere quella incorporeità, la de-fisicità dei rapporti via internet: un conto è chattare con una persona, come sappiamo, oppure avere informazioni via internet, e un conto è poterne discutere assieme. E questo vale a tutti i livelli. Tra le povertà del nostro Paese rispetto ad altri c’è la mancanza di luoghi di incontro. Certamente non c’è l’Eldorado in Terra, ma in altri paesi esiste un tessuto associativo molto forte. Sono stato la scorsa settimana a Basilea: è impressionante l’offerta che c’è di luoghi di ritrovo di tutti i tipi, per tutti i gusti, per tutti i livelli, oltre che di corsi di formazione, di istruzione, di biblioteche, di musei. Noi abbiamo una povertà di tessuto associativo. I vecchi luoghi sono praticamente scomparsi.
Inoltre i dati sulla lettura che Le davo prima pesano sulla possibilità di sfruttare il potenziale di internet. Ormai moltissime famiglie (80%) hanno il computer in casa: ma a cosa serve? Per giocare, essenzialmente, o per accedere a informazioni minime: orari di treni o cose del genere. La navigazione, il confronto di fonti ecc sono al di là delle capacità possedute da poco più del 30% della popolazione: questa è la percentuale di persone che riescono a lavorare tranquillamente e con intelligenza di fronte a un testo scritto. E internet essenzialmente ci mette davanti a dei testi scritti e – peggio! –: ce li mette davanti in tante lingue. Qui incrociamo l’altro dei grandi deficit nazionali, senza riscontri in Europa se non in Grecia e Spagna, quello della conoscenza o, meglio, ignoranza delle lingue straniere. Tuttavia in Italia ci sono delle differenze rispetto a Grecia e Spagna: questi due paesi – in cui gli indici di conoscenza delle lingue straniere sono bassi – si sono preoccupati di avere una élite diplomatica e amministrativa che conosce perfettamente le lingue europee, come ho potuto io stesso sperimentare. Greci e spagnoli vanno a Bruxelles o vanno a Strasburgo e i loro delegati parlano assai bene tedesco, inglese, francese… anche se dietro c’è una popolazione in condizioni di analfabetismo simili a quelle italiane.
Gli italiani però non hanno saputo produrre una classe dirigente in grado di parlare le lingue europee.
Quelli che lavorano nei settori dell’interpretariato della istituzioni europee possono raccontare le cose pittoresche che avvengono e che hanno un costo economico spaventoso. Se lei l’estate prossima si dedica a fare un giro per città spagnole o per città greche si accorgerà che ci sono dei campus universitari bellissimi, di livello internazionale, e poi vedrà la targa “finanziamento della Unione Europea”. Sono molto più bravi di noi non solo nel recuperare quello che danno di contributo all’Unione Europea, ma nell’incassare molto di più. Noi invece siamo finanziatori, ma non recuperiamo i finanziamenti. Perché? Perché le nostre delegazioni siedono a questi tavoli e non sono in grado di discutere, di contrattare, di presentare progetti in grado di ottenere i finanziamenti…
D. – E perché gli italiani, a differenza degli spagnoli e dei greci, non sono stati in grado di formare una classe diplomatica all’altezza del suo compito?
R. – Perché non si sono dati una scuola in grado di fare questo. Io sono difensore a oltranza della qualità, per quello che poteva fare la nostra scuola e per quello che è riuscita a fare. Quel “salto di categoria” lo si deve a maestre, a maestri, a professori, a questi qui, vilipesi, “umiliati e offesi” che sono tuttora. Ma ci sono cose che richiedevano e richiedono un ragionamento, un impegno specifico: l’insegnamento delle materie scientifiche e l’insegnamento delle lingue straniere Qui bisognava lavorare con progetti specifici, specifici piani nazionali per la formazione di insegnanti adeguati. Tanti anni fa collaboravo con l’Espresso con una pagina in cui parlavo di scuola e una volta – c’era un governo Craxi – avevo scritto un pezzo dicendo: “avremmo bisogno di un piano nazionale per l’uscita dall’analfabetismo in materia di lingue straniere”. Intendevo dire che abbiamo bisogno di formare degli insegnanti, perché non è che dall’oggi al domani la scuola si mette a insegnare bene le lingue: lo fa se c’è uno sforzo coordinato delle università per avere insegnanti di alto livello che siano in grado di insegnare le lingue dalle elementari in su, e questo richiede soldi, ma anche un progetto, la percezione del problema, l’attenzione e la volontà di risolverli. Noi non l’abbiamo avuta e la scuola da sola non può inventarsi qualità che non sono state formate nelle università. Per come è fatta – senza selezione del personale insegnante, in edifici in cui cade il soffitto eccetera – la scuola riesce a fare e ha fatto tante cose: insegnare a parlare, insegnare abbastanza a scrivere e a leggere, non in modo permanente però. Non ce la fa, e forse da sola la scuola non ce la fa in nessun paese, e se ce la fa è perché viene sollecitata e sostenuta dalla vita sociale che va in quella direzione. Ma quando si arriva ad aspetti più specifici, ripeto, materie scientifiche, matematica e lingue straniere, qui bisognerebbe strofinarsi il cervello e capire come fare a avere docenti in grado di portare l’insegnamento matematico e l’insegnamento delle lingue straniere ad un livello alto già a partire dalle scuole elementari, e, soprattutto per quanto riguarda la matematica, nelle scuole medie superiori. Questa progettazione manca.
Quello che è terribile nella ‘Buona Scuola’ è che ritiene di avere risolto i problemi della scuola: do potere ai presidi, regalo 500 euro all’anno agli insegnanti, ne assumo – di 250 mila, quanti sono i precari che saremmo obbligati a assumere per la sentenza del tribunale europeo – ne assumo intanto 50-60 mila, che volete, insomma? sono tanti!… Basta…è questo il progetto di scuola che abbiamo in testa? E tutto il resto? E i contenuti? Dicono “insegneremo storia dell’arte” ma già la insegniamo, che cosa raccontate?
Non c’è un progetto perché non c’è un interesse reale dei gruppi dirigenti in genere, non parlo solo di politici, ma parlo in generale di quella che Mosca chiamava “la classe politica”, o che Gramsci chiamava “gli intellettuali”, cioè tutta la popolazione con un livello alto di competenze e di capacità di intervento e di gestione. Nella classe politica non c’è interesse per i punti del sistema formativo dove ci sono i nodi più specifici, più delicati, e quindi qui ci sono dei vuoti permanenti.
D. – Che ruolo ha avuto l’università in questo quadro?
Forse ebbe un ruolo positivo fino a un certo punto, per quel po’ che poteva fare. Tra gli effetti di questa disattenzione alla dimensione della cultura e della scuola – per cui la scuola è andata avanti ma è andata avanti per fatti suoi e con enormi difficoltà – c’è che noi abbiamo avuto una serie di leggi che prevedono la periodicità a date fisse (ogni due anni per l’università e ogni tre per le scuole) dei concorsi nazionali per l’accesso alla professione dell’insegnante o all’università. I concorsi invece sono un fatto epocale nella nostra tradizione. Quando Luigi Berlinguer ha fatto il suo concorso, o meglio: quando è riuscito a ottenere dal governo e dal ministro del Tesoro che finalmente si facesse un concorso, erano 12 anni che non ce n’erano stati. Poi solo dopo un altro decennio c’è stato un altro concorso che credo non sia ancora finito…
Per l’università la situazione ora è ancora più drammatica, perché si potranno fare concorsi per qualche materia con vincoli quantitativi di tutti i tipi, per cui non è difficile vedere che cosa succederà in questi anni: si può prevedere il peggio. Ci sono norme restrittive, per cui devono andare in pensione cinque professori di ruolo perché io possa bandire un nuovo concorso, ma di quale delle cinque materie che ho chiuso? In ogni caso quattro resteranno scoperte, naturalmente con situazioni assurde.
D. – In una situazione così grave come quella da lei descritta, con il taglio dei finanziamenti e i mezzi sempre più scarsi a disposizione di scuole e università, cosa si potrebbe proporre, in via del tutto utopica e sperimentale?
R. – Bella domanda. Pochi si rendono conto che la situazione linguistica e culturale di cui abbiamo parlato grava pesantemente sulla nostra vita sociale ed economica e sulla realtà della nostra democrazia. Quei pochi vorrebbero poter parlare ai molti che subiscono le conseguenze peggiori della situazione. Ma è proprio questo che è la situazione stessa rende difficile Forse Lei ricorda la poesia di Rodari, la sua Lettera ai bambini;
E’ difficile fare le cose difficili:
parlare al sordo,
mostrare la rosa al cieco.
Bambini, imparate a fare le cose difficili:
dare la mano al cieco,
cantare per il sordo,
liberare gli schiavi
che si credono liberi.
Dobbiamo insistere, non scoraggiarci, Studiare e capire le cose, imparare a raccontarle, cercare, passo dopo passo, di cambiare quelle che nel nostro immediato possiamo e sappiamo cambiare. Troveremo insieme il modo di parlare al sordo, mostrare la rosa al cieco e, alla fine, liberare gli schiavi che si credono liberi.