Cinema e politica. Intervista a Mariuccia Ciotta e Roberto Silvestri "L'idea era quella di liberare lo sguardo". Da "il manifesto" a "Pagina99"

Prima di natale avevo inviato ai due noti ex critici de il manifesto, Mariuccia Ciotta[1] e Roberto Silvestri[2], un gruppo di domande sul rapporto diretto, oggettivo, quasi ontico tra teatro e cinema: volevo sapere quanto di autenticamente tragico e comico ci fosse nella settima arte, quanta e quale vocazione educativa, umanista e democratica si nascondesse dietro i migliori film del grande schermo. Le prime riguardavano la drammaturgia  di Ėjzenštejn ne La corazzata Potemkin, il rapporto tra il teatro arabo di strada del XII secolo e le comiche americane, il filo rosso che unisce Roosevelt ad Orson Welles e il Group theatre, etc. Erano più di una ventina e ripercorrevano in pratica la storia del cinema mondiale con tali implicazioni estetico-politiche che a rispondervi non sarebbero bastati sei mesi: “Molto interessanti e molto impegnative. Rispondere sarebbe come scrivere un libro…” mi scirve poco dopo Mariuccia Ciotta. Come darle torto? “Poi”, aggiunge, “non vorrei deluderti ma il rapporto tra cinema e teatro è un argomento che conosco solo dalla parte del cinema”. Concreta e sincera tanto quanto io ero stato teorico e totalizzante. Nulla da eccepire. Ma non demordo. Mi torna così in mente che in origine, subito dopo la lettura del loro ultimo libro, avevo concordato un’intervista ben diversa. Scritto insieme a Rossana Rossanda, Il film del secolo, oltre ad essere una riflessione a tre voci sul complesso rapporto tra visione filmica e lungimiranza politica, rivela uno scontro generazionale proprio sul ruolo del cinema nel mondo. La questione di fondo è ancora l’eredità del ’68, a cui l’esperienza dell’Estate Romana voluta da Renato Nicolini (e in particolare la rassegna di film al Massenzio) restava fedele concependo il cinema come luogo di fruizione collettiva, ricreativa e liberatoria in netto contrasto con il pesante clima che si respirava all’epoca, nei cosiddetti anni di piombo. Era una rassegna di film che restituiva la città ai suoi cittadini, alimentandone l’immaginario senza evadere del tutto.  Infatti, per Ciotta e Silvestri, il cinema se vuole essere veramente democratico deve separarsi dalla politica senza estraniarsi, ritrovandosi invece come  “pratica politica alternativa”. Questa visione ‘altra’ sul mondo porterà i nostri a difendere Clint Eastwood e la saga di Guerre stellari contro i critici marxisti ortodossi del manifesto; ad esaltare Celentano e Walt Disney criticando invece senza timore il cinema autoriale più legittimato e riconosciuto. Insomma l‘intuizione iniziale era quella giusta: oggetto dell’intervista doveva essere proprio la loro esperienza di critici militanti eterodossi, il loro sforzo di farci leggere un cinema diverso e direi quasi antico, ponendo in risalto la sua natura, la funzione catartica e solo indirettamente politica. Così cancello tutto, mi impongo una sintesi drastica e riscrivo interamente una decina domande ripercorrendo la loro storia di critici, le strade intraprese, i successi e gli abbandoni, le profezie azzeccate e quelle sballate.

“L’idea era quella di liberare lo sguardo, vedere risorse potenti e immaginifiche di cambiamento”, non con la sola ragion pura, ma “con molti più organi insieme”, già da queste prime risposte si può evincere quanto il loro sguardo sia ampiamente nell’orizzonte ‘visivo’ di Leussein che non a caso significa “vedere con sentimento”. Con questo approccio corporeo e visionario, i due critici negli anni ’70 si sono gettati nella mischia cinematografica, e sono ancora lì, comunisti, autonomi e libertari.

Domanda  – Quando avete iniziato a collaborare con il manifesto, il giornale non aveva una rubrica dedicata al cinema. Dopo alcune recensioni di Rossana Rossanda nei primi anni ’70 (che si trovano in calce a I film del secolo) nasce una vostra rubrica dedicata alle visioni cinematografiche. Qual è stato dall’inizio il vostro sguardo politico sul cinema?

Mariuccia Ciotta  – L’idea era quella di liberare lo sguardo, vedere risorse potenti e immaginifiche di cambiamento, di sensibilità condivisa, di “rivoluzioni possibili”, come dice Alain Badiou, là dove non si cercavano. Là dove i Cahiers du cinema avevano già trovato. Il cinema americano in Italia invece era visto con sospetto, considerato “commerciale” e quindi liquidato dalla critica, mentre noi eravamo interessati alla New Hollywood e al suo gruppo di cineasti creativi, Francis Ford Coppola, George Lucas, Steve Spielberg che avevano messo a soqquadro il potere degli Studios con i loro film politici di genere, con le loro follie “disubbidienti” e scapestrate in stile Blues Brothers, con l’ammucchiata di auto della polizia e l’odio “per i nazisti dell’Illinois”. Questo era lo spirito del nostro ’68: humour, anarchia e comunismo. Al manifesto questa era l’aria che tirava e i fondatori, Rossana Rossanda e Luigi Pintor in particolare, ex dirigenti eretici del Pci,  scrivevano di cinema, ne riconoscevano l’importanza. Gli “anni di piombo” sono stati il derivato della repressione contro la famosa “immaginazione al potere”, un’invenzione delle “sentinelle dell’ordine” mentale.

Roberto Silvestri  – Oltre a Rossana Rossanda, scriveva di tanto in tanto qualche recensione, aristarchianamente più che perfetta, ma anche deprimente, Roberto Alemanno. È stata allora la cinefila Rossanda a spingerci, a buttarci nella mischia critica. A differenza di Alemanno, marxista ortodosso, che vedeva i film con la ragion pura, noi li vedevamo con molti più organi insieme. E amavamo il piacere schermico, il cinema di genere, dei corpi e dei divi. Perché vedevamo lì fare a pugni la decrescita dei pochi e la crescita dei consumi dei molti. Erano conservate in quelle immagini sinestetiche dei supereroi o dei controeroi che eccitavano la ricezione, le tracce indelebili e decifrabili dello scontro tra le classi, le razze e i sessi che l’ideologia dominante e il senso comune delle classi preferivano rimuovere. Ci interessavano così più i Miti dell’Autore, Blasetti più di Bergman, i film antidogmatici più di quelli che rispettavano tutte le regole estetiche. E soprattutto quelli che si facevano in quegli anni fuori dall’Italia (era nel frattempo defunto, vittima delle leggi-cinema e della televisione, il nostro cinema commerciale “sovversivo” dei western, poliziotteschi e decameroni che dava troppo fastidio a Hollywood) . Seguivamo con attenzione anche le zone fertili del cinema mainstream (la new-Hollywood di Altman, Penn, Scorsese, De Palma, Randal Kleisar…), fortemente influenzate dalle nouvelle vague europee e giapponesi, ma anche dai nostri autori di genere come Freda, Bava, Cottafavi e Fulci, e quello underground e militante (che, soprattutto in America, stava imponendosi nelle gallerie d’arte, nelle università e addirittura nelle tv commerciali). E detestavamo quasi tutto il cinema di prestigio e di qualità che si faceva in Italia. Perfino Fellini e Bertolucci, Bellocchio e Antonioni, Visconti e Pasolini (un po’ meno perché era direttore di Lotta Continua) li sbranavamo. Dopo Ultimo tango Bertolucci no. Ovviamente. Diventava un regista nomade e esule…

Avevamo aperto a Roma nel 1973, prima di iniziare a scrivere di cinema sul manifesto, nel 1977, un club cinema, il Politecnico, gemellato al Filmstudio, e quella unione tra teoria del cinema e pratica di frontiera dei film, che poi a Massenzio ebbe la più sorprendente delle affermazioni, sembrò a Rossanda più innovativa anche editorialmente, che scodellare l’ennesima figura di critico-letterato-torre d’avorio, a fare caccia grossa di trofei con i suoi frustrati vice.  Così piacque la nostra idea più esplorativa e avventurosa. Non un critico, ma una costellazione di firme autorevoli che maneggiavano meglio di altri (perché dovevano intrecciare esiti artistici audiovisivi con i sommovimenti socio-politici, anche interiori, rispettivi) le aree geoculturali via via più vivaci e audaci: chi si specializzava in “nuovo cinema tedesco”, chi in scena punk londinese, chi in umoristi dissidenti dell’est europeo,  chi in sensibilità camp-pulp-trash, chi in eros + massacro giapponese, chi in cinema sankarista e così via… Venivamo tutti dai cine club di frontiera o dall’aiace più pugnace. Insomma partecipavamo alla battaglia del cinema avendo progetto, esercito e nemici, muovendo cattedre universitarie, assessorati alla cultura, soldi, copie e consumi “produttivi”. Massenzio così divenne una sorta di “plastico urbanistico vivente” del consumo metropolitano a venire. Già: nuova mobilità urbanistica centro/periferie, tv commerciali e multiplex li schizziamo per terra con il gessetto, controllati dal basso e non dall’alto (come poi è successo). Nicolini e Abruzzese progettavano proprio come in Dogville, Lars von Trier disegnava gli spazi di una cittadina dell’America amara che non c’è più.

D. Liberi dalla linea del partito (il Manifesto lo definite un quotidiano comunista libertario) e tanto più da un dovere di propaganda, vi siete permessi di sdoganare film come Guerre stellari e registi di ‘destra’ come Clint Eastwood, sottolineandone un indiretto significato politico rivoluzionario. Quale?

M.C. – La definizione “comunista libertario” è di Rossana Rossanda, e fa capire il motivo della totale autonomia di cui abbiamo goduto, anche perché al manifesto il “contenutismo” non piaceva affatto. All’epoca eravamo un giornale innovativo, di ricerca, capace di anticipare pulsioni politiche e culturali. Il quotidiano di “estrema sinistra” era visto con interesse anche dai grandi giornali che spesso ci hanno vampirizzato. Certo, non eravamo d’accordo su tutto. Guerre stellari, per esempio, non è mai stato accettato da Rossana, che lo ha sempre considerato “un giocattolone” per menti infantili. Per noi invece era una radiografia della globalizzazione cosmica, il preludio dell’impero galattico, la lotta tra la democrazia multietnica, il “bar dei mostri”, e la dittatura dei suprematisti bianchi. Il tutto nel più sfrontato dei modi, nel più umoristico e fumettistico, nel più allusivo e complice… qualcosa che ci univa a una platea espansa, mondiale. In quanto a Clint Eastwood, la sinistra tradizionale e l’intellighenzia americana, Pauline Kael, lo consideravano un fascista all’epoca di Dirty Harry. Ma Don Siegel non lo era affatto, e tanto meno il lincolniano Eastwood che   nel tempo affronterà il problema dell’individualismo democratico e riscriverà la storia degli Stati Uniti in termini anti-razzisti e anti-sessisti, a cominciare dal Far West di Unforgiven. I suoi “eroi” sono sempre disintegrati dall’interno. E’ Clint che si auto-demolisce in quanto “rappresentante della legge” e getta via il distintivo. Ora, comunque, tutti l’adorano, anche Rossana.

R.S. – Abbiamo cercato di portare dentro il manifesto, alla fine degli anni 70, quello che la controcultura comunista libertaria, post stalinista e post trotzkista, e il cinema contro in particolare, avevano elaborato nel decennio precedente, e vissuto nelle strade in fiamme, da Tokyo 60 e Berkeley 64 al maggio parigino del 68 in poi. Le lotte nei campus Usa scodellarono nei piani alti delle Major il migliore e più rivoluzionario staff intellettuale di tutta la storia del cinema americano (diaspora ebraica anni trenta a parte). Hollywood senza quella pericolosa trasfusione di sangue Sds/Black Panther/femminismo drastico sarebbe morta. Scorsese, Landis, Sayles, Dante, Spielberg, Lucas, Coppola, Rafelson e i cormaniani tutti, eredi dei radicali antirazzisti d’epoca Lincoln, si mettono all’opera e lanciano una grande rivoluzione culturale negli Studios. Riscrivono da estrema sinistra l’intera mitologia americana. Tutti i generi vengono rovesciati, criticati e rianimati. Lo stanno facendo tutt’ora. Con sempre maggiori difficoltà perché il progetto, come quello di Rocha in Brasile e di Godard in Francia, era riuscire a controllare l’intero affare, impadronirsi del vertice produttivo. Non è riuscito. Ma restano potenti. Anche i più destri del gruppo, come Milius, Friedkin, Peckinpah, Ida Lupino e Eastwood. Ma chi sono i destri in America? I repubblicani? Ma chi è stato più a sinistra in America del senatore Taddheus Stevens, repubblicano, che durante la Reconstruction Era si batté dalla parte dei neri? Non era lui il nemico di Griffith in Nascita di una nazione? E chi fu il più progressista nell’amministrazione Roosevelt se non l’ex repubblicanoWallace?  Certo. La new Hollywood non ha la stessa forza propulsiva iniziale. Pensiamo però a Il silenzio degli innocenti, The Wolf of the Wall Street, The Hateful Eight.  Mantengono la stessa forza propulsiva di Et, Guerre Stellari, Rocky, American Graffiti…. La fine dello stato sociale negli Usa e dei sogni rooseveltiani di arrivare al socialismo attraverso il capitalismo, per semplificare, stavano proprio svanendo. Lo smantellamento del rooseveltismo viene aggredito da questi film. Non fiancheggiato. In Guerre stellari … un film di fantascienza ambientato milioni di anni fa… si lotta contro le forze maligne che vogliono asservire l’Impero e lo si fa umiliando la descrizione razzista e classista contenuta nei libri sf di Hubbard che non solo vendevano milioni di copie, ma prefiguravano la più potente (economicamente) delle nuove religioni nate dal declino della civiltà occidentale.  E’ vero che Clint Eastwood è un repubblicano radical di vecchio tipo, e che ha votato sempre per i candidati alla presidenza sbagliati, ma un artista della destro di San Francisco è comunque costretto a confrontarsi con un tessuto culturale progressista e di alta sensibilità sociale (San Francisco ha espresso l’unico senatore che ha votato contro l’aggressione in Iraq). E’ allievo del liberal Don Siegel e i suoi film ci sono sempre parsi controcorrente, se non altro perché erano gli unici demodé, ancora dominati dagli interrogativi morali, e non sessisti, trasmessi dal cinema dell’era new deal. Contro il capitalismo reale e contro il socialismo reale, noi come lui. E il manifesto è stato in grado, almeno fino alla fine del secolo scorso, di confrontarsi criticamente con questo nuovo immaginario. Più degli altri. Leggere bene Gramsci aiuterebbe tutti.

In fondo non c’era neanche bisogno di forzare solo sulla controcultura: Timothy Leary, i beat, gli azionisti, il rock e poi il punk movie, la sensibilità camp dei movimenti di liberazione omosessuali, etc… Bastava deviare anche in Italia un po’ di sostanza conoscitiva che circolava nel mondo. Formalisti russi, strutturalisti, Foucault, Lotman…

D.Il vostro rapporto con cinema e politica non si esauriva sulle pagine del il manifesto. Roberto, come ricordava prima, è stato uno dei fondatori del club cinema “il Politecnico” (che darà un apporto fondamentale al successo dell’estate Romana, il Massenzio) ed è tutt’ora organizzatore di rassegne cinematografiche. Quanto è importante coniugare il cinema nella prassi e convincere il pubblico a fruirlo collettivamente?

R.S. -Senza il Filmstudio, poi, alla fine degli anni 60, data la necessità di difendersi nei licei dalle aggressioni della polizia e dei loro succedanei nazisti contro le dinamiche democratiche basic che volevamo imporre alle nostre scuole ancora fascistoidi, nessuno si sarebbe mai interessato al cinema.

Ma quel pezzo di Manhattan a Roma, partorito da Annabella Miscuglio, ci apriva a un grande mondo, invisibile altrove. Quello delle immagini “senza passaporto e libretto di circolazione” (niente censura in un club cine) e nascoste negli archivi perché pericolose (la Cineteca teneva tutto chiuso a chiave e la rai socializzava poco). E delle culture altre, per esempio i musical fiammeggianti e i drammi della grande rivoluzione culturale proletaria cinese. E degli africani e degli arabi. Anche se chiedevate a Claudio G. Fava rispondeva: subumane, no?

Non è senso comune dirlo, ma sono le donne le pioniere dello sguardo fuori schema, le dinamitarde delle regole oppressive che imprigionavano gli sguardi. Elvira Notari inventa il neorealismo e gira sulle strade napoletane 30 anni prima di De Robertis e Rossellini. Sono egiziane, dive produttrici a lanciare la più grande industria del cinema extraoccidentale dopo quella indiana. Una coreografa e etnologa, Maya Deren, trotzkista dissidente della IV Internazionale, abbatte la Hollywood mortifera degli anni 50 maccartisti prima di Mekas e dà il via al new american cinema, che dall’underground diventa con Warhol l’unico sopportabile in quegli anni ; Lorenza Mazzetti traduce in cinema il riformismo radicale di Clement Attle prima di Richardson e Anderson e scopre il free cinema; Agnes Varda resta nouvelle vague anche oggi, mentre Malle tradisce (secondo Rivette), gli altri fanno compromessi, spariscono, muoiono troppo presto (Truffaut) o entrano nel solipsismo; Dorothy Arzner addestra tutti i giovani turchi della new Hollywood che faranno grande il cinema americano come negli anni 10, 20, 30 e 40 …  L’epoca dei club cinema (a differenza di quella precedente dei cinema d’essai e dei cineclub) è stata caratterizzata dalla voglia di mettere a soqquadro le storie del cinema, di rifare le gerarchie dei valori, di pretendere che i tesori nascosti nelle cineteche uscissero all’aperto e per tutti, e che quel che veniva considerato trash perché troppo popolare, o reazionario perché troppo “americano” venisse sottoposto a vaglio critico differente. Abbiamo così riscoperto, con particolare grinta emotiva al Politecnico, attraverso un film cult del Movimento, Il lungo addio, di Robert Altman, il “cinema noir”, vera sintesi di cinema radicale euro-americano. E da Lang e da Hawks, da Hathaway e da Tourneur è ripartito il nostro Ritorno al futuro.

D.Altra dimensione in cui Roberto vive e dà forma alla sua passione per il cinema è la radio, attraverso la trasmissione Hollywood party su Radiotre.

RS – Sono entrato a Hollywood Party, il programma ideato da Silvia Toso di Radiotre Rai, allora condotto dal regista David Grieco, vincendo un concorso tra i critici dei quotidiani e delle riviste. Gli ascoltatori votavano sulle risposte che davamo a David. Duelli con ottavi di finale, quarti, semifinali…Mi ricordo che ho “combattuto”, tra l’altro, contro Mario Sesti, Alberto Crespi, Fabio Ferzetti. Ho vinto un televisore piccolo. E poi l’ingresso, circa 15 anni fa, nello staff dei conduttori.  La mia specialità era il cinema africano e siccome nessuno sapeva niente di cinema africano, maghrebino e subsahariano, anche oggi le cose non sono migliorate,  non ho avuto troppi problemi  a trasformare le domande generiche in invettive specifiche contro il neocolonialismo che stava già provocando quei disastri che oggi stiamo pagando cari anche noi e contro il sistema distributivo italiano che ci toglie la bellezza delle immagini mondiali dai piccoli e dai grandi schemi. Che la Svezia di Palme sì che era civile.  E poi ha commosso l’elogio del grande leader rivoluzionario del Burkina Faso Thomas Sankara, assassinato shakesprianamente dal suo migliore amico Compaoré su ordine dei francesi che hanno scatenato dal 1960 in poi ben 64 colpi di stato per decidere chi dovesse essere presidente nei paesi “ex coloniali”. Solo un loro amico. Certo 30 anni dopo la sua morte si può affermare senza essere smentiti che Sankara è ancora vivo e ispira l’Africa a sollevarsi con le sue forze, mentre il “venduto” Compaoré che è fuggito all’estero dopo la recente rivoluzione burkinabé, è vivo e vegeto, ma è come se fosse morto il giorno del delitto. Sankara, pur dirigendo uno dei più piccoli e più poveri paesi del mondo, era diventato negli anni ottanta del neoliberismo più scatenato un punto di riferimento politico serio (assieme a Bishop, un altro assassinato giovane) anche per Syriza e Podemos, Evo Morales e José Mujica…  e anche il centro ispiratore, anche eticamente oltre che economicamente,  del migliore cinema subsahariano di sempre. Quella di Idrissa Ouedraogo e di Souleymane Cissé, di Jean Masrie Tenò e Haile Gerima, di  Med Hondo e dell’ultimo Sembene Ousmane. Parlare alla radio di cinema non masticabile è la più straordinaria cosa che mi è stata concessa a Hollywood Party, dove non c’è mai stata alcuna censura sugli argomenti che sceglievo, sugli ospiti che invitavo e ovviamente nessuna censura in onda, visto che andiamo in diretta.  Inoltre la presentazione mai agiografica ma sempre critica dei film in anteprima radiofonica, o dei classici della storia, ha esaltato la specificità del medium radiofonico, che è a differenza della stampa e della televisione, è l’intimità tra conduttore e ascoltatore, tra fonte e ricezione. Questo permette di rompere anche la barriera “divistica” (quella sì che va frantumata) tra cineasti e spettatori, e far conoscere meglio e dal di dentro la macchina cinema.

D.Mariuccia per alcuni anni fino al 2009 ha ricoperto anche il ruolo di condirettore del Manifesto. In che modo la tua esperienza di critico ha pesato nella direzione del quotidiano?

M.C. – Non erano più i tempi d’oro del manifesto, la maggioranza della nuova generazione non apprezzava l’azzardo, preferiva l’autorità. Era disciplinata. Il New York Times ha avuto un direttore critico cinematografico, ma al manifesto sembrò qualcosa di poco conciliabile con la politica.  Per me e per Gabriele Polo la politica non stava nel Palazzo ma nelle idee, fuori dagli schieramenti e dentro l’elaborazione culturale, nelle lotte operaie e nell’attenzione per i paesi oltre frontiera. Detto questo, l’esperienza è stata entusiasmante. Interpretare i fatti in multivisione, con un magazzino emozionale sempre presente, ha determinato una situazione unica e irripetibile. Allora l’intelligenza collettiva, quella dei redattori “storici”, produceva grandi risultati con piccoli mezzi, come le nostre famose copertine. La prima pagina con la Casa bianca  e il titolo “Indovina chi viene a cena”, il giorno dell’elezione di Barack Obama, ci ha fatto vincere il premio della più bella copertina dell’anno, 1000 bottiglie di spumante Ferrari. Naturalmente la fantasia ci ha anche giocato brutti scherzi, ed è il caso di un’altra elezione presidenziale, quella persa dal democratico John Kerry che all’una di notte, ora di chiusura del giornale, stava battendo George W. Bush.  Il nostro titolo del giorno dopo suonava così, “Buongiorno America”. Un disastro. Anche se i brogli elettorali ripeterono il grande inganno repubblicano già sperimentato con Al Gore.

Ma a parte la vocazione all’immateriale, ho cercato nel ruolo di condirettore di mantenere lo stile originale e conservare l’anima del manifesto. Credo di non esserci riuscita.

D.Dal 2010 direttore del Manifesto diventa il suo critico televisivo: Norma Rangeri? È possibile leggere in questo avvicendamento editoriale anche un passaggio di testimone tra due mezzi di comunicazione di massa come il cinema e la tv? Forse il successo dei talk show e delle serie televisive negli anni del declino dell’egemonia di Arcore hanno pesato anche nelle vicende del giornale?

M.C. – La tv ha uno sguardo unidirezionale. Il cinema no.

D. –  Mariuccia scriverai anche due libri su un artista che prima nella canzone, poi nel cinema e infine nei suoi spettacoli televisivi ha dimostrato di saper dialogare in modo originale con il grande pubblico: Adriano Celentano. Singolare il suo sforzo di approfondimento, di toccare i grandi temi sociali e ambientali.

M.C. – Adriano Celentano fa eccezione. I suoi show hanno scardinato lo spettacolo televisivo da quando nel 1987 il “molleggiato”  demolì Fantastico 8, spettacolo di prima serata, con le sue incursioni surreali e i lunghi silenzi. Adriano ha teorizzato in tanti suoi programmi un set-teatro dalla profondità multi-prospettica,  dove la telecamera assume diversi punti di vista, la luce non appiattisce la scena ma crea ombre e misteriosi angoli bui. Quel che chiameranno “istinto”, è invece il frutto di una grandissima cultura del movimento, dell’immagine, del montaggio e dei tempi di recitazione che Adriano ha appreso facendo cinema. Non solo come attore, ma come regista. Il suo Yuppie Du è considerato un capolavoro ed è stato presentato alla Mostra di Venezia. Ma allora, nel 1987, la critica televisiva si accanì tutta contro il “re degli ignoranti”, e un solo giornale lo difese.  Da quell’articolo uscito sul manifesto è cominciata la nostra amicizia e il mio interesse per le sue opere musicali e televisive, le battaglie pacifiste ed ecologiste, l’humour inconfondibile, l’assoluto anticonformismo, e per la sua voce dal tocco straniato.

D.Anche il libro su Walt Disney rivela un’inedita componente di “sinistra” del celeberrimo creatore di topolino. In che modo il mondo dei cartoni animati ha contribuito ad elevare o allargare la coscienza sociale di diverse generazioni.

M.C. – Walt Disney è stato un grande artista del Novecento e non lo dico solo io, ma Eisenstein e Walter Benjamin, per esempio. L’idea che in genere si ha di lui è sbagliata. Lo confondono con la major, gli attribuiscono i fumetti  e i film realizzati dopo la sua morte, lo credono di destra, spia dell’Fbi, creatore di un Micky Mouse “americano medio”, anti-semita, razzista, etc.

Ho scritto un libro su di lui con il titolo provocatorio Walt Disney – Prima stella a sinistra per contrastare queste falsità e ridargli il posto che si merita nella storia americana. Disney era un rooseveltiano e Topolino un interprete del New Deal. Ma soprattutto Walt era un meraviglioso visionario,  un creatore di mondi, un colto visitatore dell’arte europea a cui si ispirerà in ogni sua opera. Insopportabile anche il ricorso sprezzante a Disneyland per dire la paccottiglia urbana,  la “disneyzzazione” dei quartieri, mentre architetti e urbanisti hanno studiato con interesse il suo concetto di nuovo urbanesimo, e la sua “città ideale”  presa a modello per immaginare Los Angeles munita di trasporti pubblici, simili alla monorotaia del parco,  progetto che Disney invano aveva proposto, e che adesso in parte si sta realizzando con la costruzione di diverse linee di metropolitana. La sua eredità è così immensa che molti registi come Bernardo Bertolucci, John Landis e John  Waters confessano di essere stati influenzati da lui, dal primo film visto, Biancaneve. E poi c’è un altro motivo di interesse, a proposito del mio libro, l’esercizio della verità, l’invito a non allinearsi al “sentito dire”. Molti fans di Disney che hanno covato in segreto “il piacere colpevole”, a sinistra il papà di Michey Mouse era tabù, mi hanno dimostrato la loro gratitudine.

D.Nel 2012 esce il “vostro” dizionario Cinema. Film e generi che hanno fatto la storia.  Tra i vari generi in cui riordinate buona parte delle vostre trentennali recensioni al il manifesto ve n’è uno che chiamate ‘cinema autonomo’ dove individuate una terzo sguardo politico.

R.S. – Con cinema autonomo intendo l’unico davvero interessante in questa fase. E sta diventando difficile incrociarlo non solo nei festival internazionali di categoria A, ma addirittura nei piccoli festival di ricerca, sempre più strozzati e fatti fuori dai finanziamenti pubblici europei, statali e locali (forse ormai in Italia resta solo I Mille occhi di Trieste, grazie alla soluzione finale teorizzata e praticata da decenni dal ghostbuster Walter Veltroni, quando era ministro per i beni culturali e proseguita dall’allievo Franceschini).  Purtroppo le immagini libertarie sono state quasi tutte spinte fuori campo. In America. Kasdnan è sparito. Walter Hill pure. Landis non lo fanno più lavorare. Non siamo più nell’epoca Fuller o Siegel che venivano equiparati a Dostojievski, Beethoven, Flaubert e Schubert dai Cahiers du cinema scandalizzando tutti proprio come Tarantino, oggi quando glorifica Morricone, e non esageratamente.

I cineasti autonomi italiani sono quelli che non godono alcun appoggio e non hanno cosche amiche negli apparati dello stato o tra i produttori ammanicati con le tv pubbliche e private. E questa è già un’ ottima discriminante estetica, per i critici. Anche se un vero problema per gli artisti. Pensiamo a Pasquale Misuraca, Francesco Calogero, Roberta Torre o Marcello Garofano. Antonietta De Lillo, in Francia, sarebbero leggenda nazionale Qui non riesce quasi a lavorare.  E’ incredibile: i cineasti italiani più amati nel mondo oggi, come ieri, in Italia non vengono né rispettati né conosciuti né aiutati. Yervant Gianikian e Angela Ricci Lucchi, Michelangelo Frammartino, Giuseppe M.Gaudino e Isabella Sandri, i poveri Claudio Caligari e Nico D’Alessandria, come Bava, Matarazzo, Fulci, Questi, Cottafavi e Freda….

Franco Maresco divenne addirittura il bersaglio preferito delle ingiurie critiche da parte del “maggiore quotidiano italiano di centro sinistra”.

Ho preso in prestito il termine autonomo da autonomia operaia, la fase finale, e perdente, ma con onore (notizie sui mandanti delle stragi?), del nostro lungo sessantotto, per polemizzare con il concetto di cinema indipendente, che rischia di sembrarci invece non solo moderato, ma  opportunista. Sono indipendente perché vorrei essere dipendente, ma non ci riesco.  Una maniera di accedere ai piani alti del Mercato, a costo di rottamare i vecchi perché fuori moda e prendere il loro posto sulla poltrona comoda del cinema sovvenzionato (e dunque censurato, dallo stato o dall’Europa).

Il cinema autonomo invece non ha nessuna intenzione  di fare compromessi di alcun genere con produttori, distributori, emittenti televisive pubbliche e private e nemmeno con gli spettatori. Non perché rifiuta il mercato, ma perché trova passatista, obsoleto, arcaico e troglodita questo mercato e le persone (pochissime) e le istituzioni (pochissime) che lo controllano nel nostro paese. Cinema autonomo non coincide solo con il cosiddetto cinema del reale (Pietro Marcello, Gianfranco Rosi, Roberto Minervini, Alice Rorhwacher, Jacopo Quadri….), cioè quella certa maniera di fare documentarismo a forte soggettività stilistica. Che pure è un cinema che crea Mercato, e non che lo subisce. Ma comprende anche i film a grande budget. Per esempio Walt Disney era un cineasta autonomo.  Giocava su due terreni, quello sperimentale e quello “sperimentato”. Con il secondo sosteneva i gravosi costi del suo costante cambio di registro, da Biancaneve a Disneyland a Epcot, passando per la fase documentaria e per quella mista cartoon/live…Quello di Landis e Joe Danter è stato cinema autonomo, anche se dentro la new Hollywoode, esattamente come quello di Russ Meyer e Frank Henenlotter nell’area semi alternativa e off off del cinema softcore e horror estremo. Quentin Tarantino, anche, nonostante la presenza ingombrante  del produttore Weinstein, oggi riesce a farsi produrre, e a farsi lanciare anche in proiezioni passatiste con schermi a 70mm in tutto il mondo,  un western di sottogenere “invernale” e di derivazione horror all’italiana che detto così, più nicchia di così si muore (lo fa per vendicare I cancelli del cielo di un altro filmmaker autonomo come Michael Cimino). O quello finanziato dai mecenati (Jean Marie Straub e Danielle Huillet)  o del tutto autoprodotto, come quello del gruppo Lav Diaz (il digitale oggi perfette performance strepitose dal punto di vista tecnologico) o Apichatpong Weerasethakul (che almeno si infiltrano a Cannes, Venezia e Berlino) o Farocki e Rosa von Praunheim in Germania, o Derek Jarman in Gran Bretagna o Fassbinder in Germania o Tonino De Bernardi, qui da noi, che come tutti in Europa può anche accedere a finanziamenti pubblici (perfino Aki Kaurismaki lo fa) ma non ne è servo né, mai e poi mai, schiacciato.

D.Sempre nel dizionario affrontate il tema di come attraverso l’innovazione digitale stia cambiando la produzione e la fruizione del cinema. E dal 2013 avete creato un blog sul cinema che alimentate costantemente.

R.S. – Chiunque oggi ha a disposizione via rete telematica, e con accesso diretto e per lo più gratuito, a un patrimonio cinematografico sterminato. Tutto è cambiato rispetto alla mia adolescenza, quando era una grande vittoria riuscire a entrare in un cinema di terza visione… Mi ricordo che a vent’anni prendevo il treno per andare al cinema Pierlombardo di Milano per vedere un film di Vincente Minnelli, Gigi, introvabile all’epoca (erano i primissimi anni 70).  Questo è un grande successo della nostra generazione. Abbiamo fatto il possibile perché le cineteche salvaguardassero il patrimonio cinematografico del passato e fossero costrette per legge a socializzarlo. Il Trevi di Roma è la dimostrazione che le cose sono cambiate. Più difficile spuntarla sull’aiuto pubblico per le sale cinematografiche che programmano i classici o i film nuovi più difficili con agevolazioni fiscali e sovvenzioni. Anzi le sale dei centri storici stanno chiudendo una dopo l’altra… Anche l’insegnamento della storia del cinema nelle scuole e una sensata politica di acquisti Rai che prescinda dall’audience di oggi per investire sull’audience di domani, sembra ormai una utopia sessantottina . Ma se non si fa questo il consumatore solitario che si tuffa nel web e vuole scaricare il film migliore del momento non saprà che fare e sarà automaticamente trascinato dal flusso manovrato dai grandi capitali dell’intrattenimento. Il ciottasilvestri è nato come strumento di esplorazione. Far diventare tutti archeologi del sapere cinematografico, ci interessava. E così anche il blog, che vuole esserne la continuazione digitalmente corretta.

D.Nell’ultimo libro insieme vi confrontate con Rossana Rossanda, un leader politico che voi avete visto più come diva. In che senso?

M.C. – Rossana è saltata sulla sedia. Diva? Ma come, ci ha detto, io pensavo di essere un leader politico! Non so se davvero sia rimasta contrariata, ma certo ha respinto l’idea, anche se durante la conversazione per il nostro libro, Il film del secolo, ha dichiarato la sua ammirazione per le dive androgine ed eteree come Greta Garbo. Uno dei capitoli, non a caso, è intitolato “Volevo essere Ava Gardner”. A parte gli amabili scherzi, per noi è davvero così, perché oltre alla razionalità, c’è l’emozione. Rossana è una personalità carismatica e prismatica, è un leader politico, una critica d’arte, conosce il cinema, è una grande scrittrice. Ma è anche un modello di persona, proprio come lo è il divo, al quale speri di assomigliare. La sua lezione politica è stata ed è molto importante, questo non vuol dire, però, che siamo d’accordo su tutto, e  Rossana non manca di ricordarci la differenza di generazione e di esperienze. Eppure molto ci accomuna, e va al di là della semplice somma di questioni condivise.  Lei però è molto severa con se stessa e con gli altri, e non accetta volentieri il lato sentimentale.  Rossana voleva essere Ava Gardner?  Non si è mai accorta di esserla già.

D.Adesso non scrivete più per il manifesto ma per un settimanale come Pagina99. Dopo gli inizi al manifesto, come è cambiato se è cambiato il vostro sguardo sul cinema?

R.S. – Non è cambiato il nostro sguardo sul cinema semmai è cambiato lo sguardo del il manifesto sul mondo.  Pagina99 prosegue il lavoro politico del manifesto, con carta di altro colore, allargando la gamma della riflessione antisistemica a sensibilità altrettanto radicali, anche non marxiste.

[1] Mariuccia Ciotta ha scritto di cinema su «il manifesto» e attualmente sul settimanale Pagina99. Giornalista. Codirettore del Manifesto (con Gabriele Polo) fino a giugno 2009, ha scritto Walt Disney. Prima stella a sinistra (Bompiani, 2005) rovesciando i luoghi comuni e demolito le leggende sul padre del fumetto moderno; Un marziano in tv (Eri-Clan, dedicato alla trasmissione televisiva Francamente me ne infischio, in onda nel 2001), Rockpolitik. Adriano Celentano (Bompiani, 2006). Nel 2012 ha pubblicato insieme a Roberto Silvestri Il Ciotta-Silvestri. Cinema. Film e generi che hanno fatto la storia (Einaudi) e nel 2013 insieme a Roberto Silvestri un libro intervista Rossana Rossanda Il film del secolo (Bompiani 2013).

[2] Roberto Silvestri, giornalista e critico cinematografico, è una delle voci di “Hollywood Party”, trasmissione di cinema su Radio Tre, e dal 2014 scrive per il settimanale Pagina 99.  Alla fine degli anni settanta inizia a scrivere per il manifesto, contemporaneamente è tra i fondatori del cineclub “Il Politecnico” e tra i responsabili della rassegna estiva “Massenzio”, sostenuta da Renato Nicolini. È stato tra i responsabili di “Rimini cinema” ed è il Direttore del “Festival di Sulmona”. Nel 2012 ha pubblicato insieme a Mariuccia Ciotta il dizionario, Il Ciotta-Silvestri. Cinema film e generi che hanno fatto la storia  (Einaudi) e nel 2013, insieme a Mariuccia Ciotta, un libro intervista a Rossana Rossanda Il film del secolo (Bompiani).



Direttore editoriale della rivista Leussein, si è laureato in giurisprudenza (La Sapienza) e in filosofia (Gregoriana), e ha conseguito il dottorato di ricerca in filosofia della politica (La Sapienza). E' stato ideatore, coordinatore ed editorialista della Rivista della Scuola superiore dell’economia e delle finanze dal 2004 al 2006. Ha scritto diversi saggi e ha collaborato con diverse Università (Sapienza, Gregoriana, Lateranense, UPRA) e istituti di ricerca (Istituto italiano filosofici di Napoli - Scuola di Roma, Studi politici San Piov). I suoi percorsi di ricerca si snodano negli ambiti della filosofia ebraica, la teologia politica, gli studi postcoloniali e la teoria della comunicazione.


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