Non conosco personalmente Fabio Cavalli[1], quindi mando al suo indirizzo email la mia richiesta di intervista sulla sua attività di teatro in carcere. Gli anticipo quale sarà il tema da cui partire: la relazione tra il suo lavoro di regista a Rebibbia e il teatro della Polis greca, dove il popolo aveva l’occasione di interrogarsi sulla propria realtà politica, ideologica e culturale. Il teatro allora serviva per approfondire questioni di primaria importanza che poi venivano discusse e decise nelle assemblee democratiche. Oggi la democrazia, anche se traballante, è ancora il modello politico di riferimento per la maggior parte delle costituzioni occidentali, mentre la funzione del teatro odierno vive una fase decisamente poco incisiva che non ha nulla da condividere con il modello teatrale antico”. Inoltre gli dico che i tempi sarebbero veramente stretti. La risposta arriva in poco tempo: è contento della richiesta ed accetta volentieri. Provo a spingermi oltre chiedendo se fosse possibile fare l’intervista nel carcere dove solitamente prova con i suoi attori. Anche qui la risposta è veloce: “No!”. Ci vorrebbero permessi, quindi attese, quindi complicazioni.
Decidiamo così di incontrarci nel pomeriggio venerdì 6 novembre a casa di un suo amico: un appartamento molto accogliente, con luci calde e molti libri; tre o quattro di questi sono adatti a far stare in piedi il tablet che utilizzo per la ripresa – la bellezza dei libri sta anche nella loro capacità di essere multifunzionali. Di fronte a me trovo una persona ospitale, mite e allo stesso tempo autorevole. Comincia così l’intervista. Le esplicitazioni degli argomenti mostrano passione, acume e una insistente voglia di ricerca e sviluppo, così che il punto di arrivo di un qualsiasi argomento viene preso come spunto per una nuova analisi, una nuova riflessione. Ma sullo sfondo mi resta impresso il modo in cui Cavalli mi parla della catarsi, di quel moto dell’anima che ‘subiscono’ i detenuti dopo la partecipazione alle attività teatrali del carcere di Rebibbia. Come è noto il termine “’catarsi’ deriva dalla parola greca ‘kathairein’… pulire, purificare”[2]. Per Aristotele le emozioni che si provano durante la rappresentazione di una tragedia provocano una trasformazione “…la quale per mezzo della pietà e del terrore finisce con l’effettuare la purificazione di cosiffatte passioni”[3]. Fabio Cavalli ha fatto suoi questi insegnamenti, in particolare quello che il discepolo di Platone dice sull’importanza dell’imitazione e dell’esempio “essendo dunque l’imitare conforme a natura e così pure l’armonia e il ritmo…”[4]. E così partendo dal principio di uomo giusto (“se ti comporti correttamente, perché non dovrebbero esserlo gli stessi attori carcerati?”), le ‘passioni dannate”‘ di questi carcerati vengono trasformate nel teatro positivamente, tanto che da liberi cittadini non commettono più crimini. Catarsi purificatrice questa che gli permetterà di non ritornare più nella casa di pena.
D. – Parlami del tuo lavoro di regista all’interno del carcere di Rebibbia, un luogo non propriamente deputato a fare del teatro. C’è in qualche modo un legame tra il teatro penitenziario e il teatro greco, dove i cittadini creavano la propria autocoscienza?
R. – Due argomenti si possono prendere in esame parlando della relazione tra teatro greco antico e teatro penitenziario contemporaneo. Il primo riguarda il fatto che in carcere vive una comunità che probabilmente cerca una auto-rappresentazione alternativa, vuoi a quella soggettiva individuale – che è un po’ la reiterazione ossessiva dell’identità deviante – e vuoi anche come ricerca del senso di una nuova relazione sociale possibile. Comunque sia, si tratta di persone che appartengono ad un ambiente talmente circoscritto e autosufficiente – quasi un ghenos; le piccole gentes sparse per il mondo pre omerico – nel quale la narrazione è sempre presente in termini di aneddotica, di mito, affabulazione di res gestae, veicoli per la costruzione di relazioni interpersonali legate a rapporti di forza (fino alla violenza). Purtroppo molto spesso le res gestae sono anche finalizzate alla progettazione dei crimini futuri. Insomma, si tratta di una comunità che probabilmente intercetta lo strumento del teatro come occasione e modello di auto rappresentazione e veicolo di comunicazione tra sé e il mondo esterno. Questo è un primo elemento che può in qualche modo mettere in relazione l’antichità e il mondo penitenziario.
Il secondo riguarda l’associazione tra crimine e cultura giuridica e politica. Oggi si parla molto di legalità, ma si parla poco di giustizia. Come sappiamo la legalità è la norma positiva che stabilisce ciò che è consentito o meno nel tempo storico, mentre la giustizia è un a priori, un sentimento arcaico che prescinde dal concetto di diritto positivo – o lo precede. Quindi legalità e giustizia non sono affatto la stessa cosa: da una parte la legge dello Stato e della società, dall’altra un sentimento di equanimità, di equilibrio fra istanze soggettive che affondano nei rapporti familiari e di clan. Mi riferisco all’avvento del concetto di nomos che, ad esempio, Eva Cantarella situa nella cultura arcaica, nel mondo omerico e pre omerico. In quel tempo non c’erano leggi codificate, anzi, proprio la narrazione, le trame del Poema trasferivano alla cultura sociale alcuni paradigmi di legge, mentre la giustizia veniva esercitata a prescindere dall’esistenza di un codice. D’altra parte anche la cultura rinascimentale – come nell’”Amleto” shakespeariano – dibatte proprio il rapporto fra l’esercizio della vendetta e la pratica della giustizia mediante l’esecuzione della legge. Sottolineo la divergenza tra i concetti di legalità e giustizia, per evidenziare il sentimento profondo, ancestrale di giustizia e di equità che si ispira alla fonte classica, sia platonica sia aristotelica; e nella cultura classica, come sappiamo, la virtù, la giustizia, non sono mai disgiunte dal principio della bellezza.
D. – E come prende forma questo arcaico sentimento di giustizia nell’attualità del tuo lavoro teatrale a Rebibbia?
R. – Attraverso la ripetizione teatrale delle opere in cui emerge con maggiore forza il problema della giustizia o della sua violazione. Opere della classicità, ma anche, come ho appena detto, i lavori di Shakespeare e tanta drammaturgia moderna. Le tematiche possono essere ostiche, ma la loro esposizione deve essere “bella”, con senso di armonia, equilibrio, adatta al piacere dell’ascolto e insieme capace di spingere alla riflessione.
Ora io non lo so quanto tutto questo possa avere veramente a che fare con l’antico, è una questione aperta, perché non dobbiamo dimenticare che noi scontiamo almeno sei, sette secoli di vuoto ermeneutico, nel senso che è mancata una continuità di interpretazione dovuta al crollo della civiltà classica. Mi riferisco a quello che è successo dopo il terzo secolo, dopo la condanna che Sant’Agostino fa del teatro. È vero che, all’epoca il filosofo e teologo di Ippona si contrapponeva ad una forma degenerata e truculenta di teatro che si metteva in scena a Roma, in cui era difficile avere una chiara comprensione della funzione catartica analizzata da Aristotele, cioè del piacere della “purificazione” che si prova nell’assistere ad una rappresentazione di una vicenda dolorosa. Ora, dall’epoca di Sant’Agostino sino alla rinascita del teatro di corte, abbiamo un vuoto ermeneutico. C’è un vuoto di fonti e elaborazioni analitiche antiche, corrispondente alla scomparsa delle civiltà urbane e alla dismissione dell’uso sociale dei teatri come narrazione comunitaria. Ma poiché l’attitudine rappresentativa e auto-rappresentativa dell’uomo è indistruttibile, è stato inevitabile che la cultura dell’Occidente si riaccostasse al fare e al pensare il teatro, dopo un lungo silenzio. Però quel silenzio lo scontiamo, nei termini di una frattura fra l’antico ed il moderno difficilmente colmabile.
D. – Allora la questione è se noi oggi siamo in grado di porci dal punto di vista di un uomo antico. Quando applichiamo l’arte teatrale alla contemporaneità possiamo avere ancora a che fare, veramente, con il sentimento che provava un cittadino della Polis greca?
R. – Come ci rammenta Luciano Canfora, nella Polis greca quando era giorno di teatro i cittadini affluivano allo spazio teatrale liberamente, con gioia. Metà della popolazione di Atene frequentava il teatro. Ora, a prescindere dalla complessità dell’attuale situazione teatrale, che attraversa in Italia una crisi che perdura ormai da lustri, possiamo difficilmente immaginare che cosa potesse rappresentare il teatro al tempo di Pericle. E’ forse azzardato proporre un’assimilazione tra rito contemporaneo e rito antico. Certo è suggestivo pensare che in un carcere si ritrovi qualche cosa di quell’antico rituale.
D. – Quindi pensi che quel rito magico di purificazione, la catarsi di cui parlava Aristotele, possa verificarsi anche per uno spettatore in un carcere?
R.– Penso che possa verificarsi più in carcere che altrove. Quando noi parliamo di catarsi teatrale nella nostra contemporaneità, soprattutto nei luoghi deputati al teatro, facciamo fatica ad individuarne la presenza e l’operare, mentre in carcere sembra di ritrovare quell’antica nozione di una sorta di remissione del dolore. O almeno avviene un fenomeno che potrebbe essere chiamato con quello stesso nome. Va precisato che quando Aristotele parla di catarsi la intende in due modi: catarsi psicologica (di purificazione dell’anima da un peso reale che la opprime) e catarsi estetica (provare piacere dall’assistere alla rappresentazione di un dolore interpretato da un attore). Qui, in un carcere, l’atto catartico pare manifestarsi in entrambi i casi; qui è forse possibile, più che altrove, accostarci all’idea originaria. In 13 anni di esperienza di teatro nel carcere, con 45.000 spettatori, compresi i ragazzi dai 14 ai 18 anni (non facili da convincere!), ho verificato la forza di quell’emozione che scuote, che costringe lo spettatore ad affondare dentro se stesso rimanendo con stupore estatico di fronte alla rappresentazione del pianto, ma anche del riso, dello sberleffo. È un’esperienza che coinvolge anche all’attore. Io non so però quanto questo fosse previsto da Aristotele e perciò non posso affermare tout court che l’atto scenico in un carcere sia in qualche modo un ritorno alla visione greca del fare teatro.
D. – Il luogo della rappresentazione, un penitenziario, io credo che sia fondamentale da un punto di vista emozionale! Rispetto a quelli che sono i luoghi convenzionali deputati al teatro, che influenza ha?
R.- Il carcere è un luogo che ha delle caratteristiche che non si trovano da nessuna altra parte. Se un paragone improprio si può fare, è quello con l’organizzazione di Compagnie e Orchestre che gli internati nei capi nazisti organizzavano spontaneamente. Ne dà testimonianza , fra gli altri, Fania Fenelon nel romanzo autobiografico Playing for time. I luoghi concentrazionari non sono minimamente paragonabili con nulla di quello che normalmente la gente sperimenta nella vita quotidiana. A questo proposito mi diverte fare un parallelo con la meccanica quantistica e in particolare con il principio di indeterminazione di Heisenberg, secondo il quale l’osservatore influenza l’osservato al punto da rendere impossibile, per esempio, di identificare il luogo preciso dove si è collocato l’elettrone in un nucleo, perché per osservarlo direttamente dovrei investirlo di luce, e quindi ne falserei la posizione. Quindi l’elettrone può essere individuato soltanto in termini probabilistici. Quando lo spettatore entra in carcere, per usare la metafora heisenberghiana, subisce una sorta di feedback immediato. Lo spettatore che entra in carcere per assistere ad un evento teatrale, cosa percepisce? Vede ciò che realmente accade o quel vedere è un rispecchiamento? E quanto riesce a stare distante dal contesto? Io credo che probabilmente lo spettatore in carcere veda qualche cosa che parzialmente lui stesso proietta sull’oggetto. Ciò premesso, direi che mettere in scena lo stesso spettacolo in teatri convenzionali come l’Argentina, l’Eliseo, il Quirino eccetera, non può produrre lo stesso l’impatto emotivo che si produce nell’interazione col palcoscenico “recluso”. ‘Dentro’ non è lo stesso che ‘fuori’. Anche quando c’è un’alta qualità artistica del prodotto, l’evento teatrale nel penitenziario ha valore diverso, non sappiamo quanto ‘aggiunto’ o ‘sottratto’, ma comunque diverso rispetto ad uno spettacolo tradizionale. Il nostro obiettivo è comunque sempre quello di far dimenticare allo spettatore il luogo dove si trova perché se c’è un’aspirazione all’arte, questa aspirazione è quella di proporre un evento assoluto, in senso etimologico, ovvero, svincolato dal contesto e tendente all’universale. Un gioco difficile. Il successo di una rappresentazione potrebbe consistere nell’identità dell’impatto catartico, tanto per l’attore quanto per lo spettatore; anzi più forte è la catarsi per l’attore tanto maggiore avrà luogo nello spettatore. Su questa linea si può dibattere davvero a lungo sul problema dell’estetica del teatro in carcere. E’ la materia del mio Laboratorio per l’Università Roma Tre.
D. – Lavori sempre con autori classici, quali sono i temi?
R. – Dal punto di vista della messa in scena mi accosto sempre agli autori classici, e anche le altre compagnie che abbiamo a Rebibbia lavorano comunque su grandi temi universali, grandi visioni e metafore. “La Tempesta” di Shakespeare, per esempio, che cos’altro è se non la rappresentazione della lotta per porre freno al desiderio di vendetta, per convertire la follia in perdono? L’aspirazione alla libertà di Prospero, imprigionato nell’isola dal fratello. E Calibano imprigionato nell’isola alla morte della madre, e poi Ariel che per tutto il tempo del dramma invoca la libertà, e per essa è disposto ad assecondare i disegni del suo mago-padrone. Infine, ancora, Prospero – che nell’ultima battuta diviene portavoce del poeta – cos’altro chiede se non di essere liberato dall’applauso degli spettatori, con una conversione drammaturgica extra diegetica straordinaria, nella concezione dello spettacolo shakespeariano, col definitivo sfondamento della “quarta parete”. Tutta “la Tempesta” è un’invocazione alla libertà. Si sposa a perfezione con le tematiche care ai miei attori. Dopo la messa in scena della “Tempesta”, nel 2004/5, ho scelto di portare in scena “Amleto”, ispirandomi alla lezione di Carlo Emilio Gadda, offerta dall’”Ingegnere” in un breve, fulminante articolo su “Amleto al teatro Valle” del 1956, con in scena Gassman. Proprio leggendo quell’articolo ho pensato che era una chiave di lettura vitale per la comprensione e interpretazione dell’opera nel contesto di Rebibbia. Ho scelto come sottotitolo in locandina: “Indagine sulla vendetta”. Ambientato a Napoli, nel Maschio Angioino dove ho immaginato svolgersi una vicenda tutta interna a famiglie di malavita, il lavoro risuona di significati straordinariamente nuovi.
D.- E il fortunato “Giulio Cesare”?
R. – Uno spettacolo essenziale e un grande film dei Taviani. Lì metto i miei attori di fronte al problema dell’eliminazione fisica del capo, quando questo compie azioni contrarie all’idea di giustizia e libertà repubblicana. Emerge il tema della libertà in termini di politica sociale, cioè di senso collettivo. Evidenziando la differenza che c’è tra la libertà individuale e soggettiva, e quella sociale, perché non c’è luogo dove si invochi la libertà più che in carcere, ma spesso non se ne conosce tutte le sfumature. Cerco di far ben comprendere che la libertà soggettiva e quella sociale non sono disgiunte.
D. – E con Giordano Bruno?
R.- Con Giordano Bruno arriva la critica al potere. Altrettanto per “Le nuvole” di Aristofane. O come, in queste settimane, con l’allestimento dell’Inferno di Dante, che contiene una simbologia del carcere, una visione antica: reato, peccato, pena. Quando io metto in scena uno spettacolo dal titolo “Dalla città dolente” sottotitolo “Colpa, pena, liberazione nelle visioni dell’Inferno di Dante”, dico chiaramente al nostro pubblico che siamo in un carcere, che la metafora dell’inferno è calzante e che siamo a Rebibbia probabilmente per vedere tutti insieme se siamo in grado di metterci d’accordo a) Che forse il carcere debba essere semplicemente un purgatorio, volendola vedere dantescamente b) Che forse il terreno comune nel quale ci ritroviamo grazie alla poesia, è quello della comune appartenenza al ghenos, e fratellanza, ci rende identici al di là delle differenze: liberi e non liberi, colpevoli e innocenti. Ricordando la lezione dell’Antigone di Sofocle: “anche l’innocenza è una colpa”.
Per fare questo lavoro in carcere per me è necessario affrontare argomenti di altissima problematicità etica, morale, politica; quella che i grandissimi poeti riescono a rendere accessibile e piacevole: quel desiderio di virtù, che se viene proclamato con la retorica insopportabile dei pedanti, è indigeribile; viene completamente rifiutato, sia dagli attori che dal pubblico. Per questo ci serve del kalòs, la bellezza del verso, per riscattare la negatività dell’oggetto. Anche Leopardi diceva (cito a memoria): “io provo a comunicarvi che ciò che vi procura dolore mentre lo vivete, diviene emozione nella sua rappresentazione letteraria”. Forse è un altro modo di parlare di catarsi.
D. – Che tipo di linguaggio usi e perché?
R.- Io appronto per gli attori di Rebibbia pietanze di artigianato artistico, che possono essere da una parte palatabili per persone incolte e dall’altra parte, però, ricche di suggestioni e di attinenze alla vita, tanto da interessare gli eruditi. Da cui anche la decisione di tradurre i testi nei dialetti di origine. Il lessico famigliare è quello che ti rende più vicino alla vita che descrivi, in modo particolare in Italia, dove la lingua è frammentata in tanti dialetti; il dialetto mitica la distanza fra letteratura e vita. La nostra attenzione al pubblico non deve far mai dimenticare che noi stiamo provando a fare arte, in un luogo così distante dalla vita comune e così vicino all’inferno del dolore. Perché anche il pubblico che viene da fuori deve essere sì catturato da tutti quei meccanismi prima descritti, ma deve anche uscire convinto che l’atto cui ha partecipato è stato un atto che tende alla riconciliazione collettiva. In fondo, come dice Herbert Morote, “todos somos presos”: tutti siamo carcerati e condannati alla morte. Talvolta, si sta davvero meglio in queste ore trascorse dentro la galera, isolati dal mondo, piuttosto che fra le contraddizioni che invadono le nostre vite “libere”. Io vado dentro e mi rifugio, e per quelle ore mi astraggo. Provo quasi un dolore a tornare libero, perché devo abbandonare quella sorta di luogo mistico che è il palcoscenico.
Poi siamo al problema cui accennavi del comunicare queste cose in una nazione come la nostra, dove l’italiano è una lingua unificata nel dopoguerra con la televisione. Questa è una lingua che di fatto appartiene a tutti ma non appartiene a nessuno. Però in carcere sono molto più libero di qualsiasi regista fuori: qui abbiamo il vantaggio di poter assimilare le culture drammaturgiche europee, evitando di utilizzare le traduzioni classiche: posso avere il privilegio di tradurre Shakespeare come mi fa comodo, anche operando delle torsioni semantiche o addirittura delle riscritture o scritture ex novo. Nel “Giulio Cesare” – parlo di quello teatrale, non di quello cinematografico – ho costruito la scena di un dialogo notturno tra Cicerone e Cesare che Shakespeare non si è mai sognato di scrivere, e nemmeno la trovi in Plutarco, né in Sallustio. Questo perché due attori della Compagnia mi hanno detto: “Fabio, le parti di Cesare e Cicerone sono troppo piccole, allungale”. E altrettanto nell’”Amleto” per i personaggi di Rosencrantz e Guildenstern: anche in quella occasione ho scritto una scena apocrifa e qualcuno di “accorto”, che è venuto a vedere lo spettacolo, non se ne è nemmeno accorto. Così, sempre in Amleto, ho integrato la scena dei becchini, immaginandone quattro, napoletani, che durante l’inumazione della povera giovane, si giocano alla “smorfia” l’alternativa per un terno secco: Ofelia suicida fa 48; Ofelia annegata fa 54.
D. – In questi giorni c’è in scena qualche spettacolo nel Carcere di Rebibbia?
R. – Sì, “Sonata a Kreutzer” di Lev Tolstoj. Un dramma profondo, dove l’attore detenuto interpreta l’uxoricida Pozdnyšev. Dal punto di vista contenutistico, siamo di fronte ad una classica tragedia dell’ossessione amorosa. L’elemento dell’uxoricidio rende drammaticamente attuale l’opera. Con la Sonata ho fatto un esperimento. Gli spettatori affezionati di Rebibbia ormai sanno di venire a teatro per ridere e piangere. I miei attori pretendono che le opere da portare in scena abbiano comunque dei momenti di alleggerimento. Allora ho voluto provare a fare un testo che non concede nulla al sorriso. 50 minuti tesi e diretti. Ha funzionato. De Masi poi è un grandissimo attore, rimani incantato ad ascoltarlo per tutto il tempo.
D. Hai progetti con il carcere?
R.- Questi sono giorni concitati. Con un gruppo di persone molto interessanti sto costruendo un’ipotesi di lavoro denominata “Teatro Libero di Rebibbia in streaming”. Il progetto prevede la diretta streaming degli spettacoli di Rebibbia in vari cinema e teatri d’Italia e anche all’estero. Il nostro teatro è “recluso”: Proviamo a liberarlo grazie alle nuove tecnologie. Sperimenteremo una nuova forma di comunicazione che non è cinema, non è televisione, non è teatro, è un’altra arte che fa di necessità virtù, e si augura di poter creare un nuovo pubblico, utilizzando tecnologie che anche soltanto fino a pochi anni fa non erano disponibili.
Ho un sogno un po’ folle: partire da Rebibbia per salutare una nuova forma d’arte rappresentativa. Potrebbe essere l’ottava. Una nuova arte che potrebbe trasformare il teatro, dandogli una speranza di nuova vita. Il teatro ormai è stanco, reietto. Ha bisogno di nuova linfa.
D. – Prima mi parlavi in percentuali, molto incoraggianti, di carcerati che hanno fatto gli attori e poi non sono più tornati a delinquere?
R. – Questo è un aspetto fondamentale, perché gli attori, quelli che hanno fatto teatro e che escono dal carcere, tendono a non ritornarci più. Se tornano dentro, lo fanno per lavorare con noi, da liberi cittadini. Di fronte ad un sistema penitenziario che sforna un 70% di recidivi, chi fa teatro in carcere torna indietro solo al 6% e non sono numeri piccoli. Io nella mia esperienza ne ho incontrato 518 fra attori e tecnici dei nostri laboratori, negli ultimi 13 anni, e di questi ne sono rientrati soltanto 12.
D. Immagino che tu debba costruire un rapporto piuttosto solido con i tuoi attori, un rapporto quasi familiare?
R. – Quello che devi fare è costruirti una credibilità. In relazione al loro mondo, dove, ben che vada, c’è un’armonia di rapporti all’interno del nucleo familiare, mentre la società è considerata una giungla, tu devi proporti in modo differente, offrendo l’immagine e la sostanza di comportamenti corretti ed equanimi. Cosa nient’affatto facile. Lo dico alla latina: l’exemplum. O alla cristiana: la testimonianza! Quell’esempio lì è fondamentale perché gli fai vedere fisicamente che stai insieme a loro per tanto tempo, e che tu, con i tuoi limiti di uomo, cerchi di stare sulla linea del giusto. Certo questo non basta. Ho avuto una formazione filosofica e sto approfondendo studi di gnoseologia e neuroscienza: tento di capire come funzioni il meccanismo per cui il teatro trasforma profondamente la percezione di sé e del mondo. Nella pratica del teatro accadono certamente fenomeni psicobiologici di riprogrammazione linguistica; forse un processo di ristrutturazione sinaptica, qualcosa che ha a che fare con l’abbattimento della sindrome ossessivo-compulsiva che colpisce chi vive senza presente e con scarso futuro, in ambiente fortemente impoverito. E poi c’è qualche cosa che ha a che fare con la percezione del bello, dell’armonico, come ti dicevo all’inizio di questa chiacchierata. Quando posso, faccio recitare i miei attori in versi: ottonari, endecasillabi. Il verso è capace di creare una forte armonia e sdrammatizzare anche l’argomento più terribile. Il verso estranea ed avvicina allo stesso tempo. Sopra la struttura lirica edifichi la relazione, il significato. Insisto, tutto si tiene sulla colonna portante della bellezza estetica, secondo me, tutto si fonda lì. Anche l’etica secondo me si regge assieme all’estetica.
D. – E’ un’idea che hai avuto sempre chiara o è cambiata negli anni di lavoro teatrale con i detenuti?
R. – In effetti non la pensavo così dieci anni fa. La mia formazione “hegeliana” mi spingeva forse a sottovalutare il peso dell’intuizione estetica rispetto al ruolo della razionalità nel farsi storico e spirituale – il nostro essere uomini nel tempo. Adesso sperimento la funzione dell’arte come costitutiva della costruzione delle relazioni intramondane. Altrettanto accade per il ruolo dell’etica, troppo assimilabile a quella che si impone dal banco del giudice a quello dell’imputato. Come puoi comunicare il dato morale, come fai a veicolarlo? Come si genera l’ethos di una nazione, di un popolo? Tu puoi costruire un sistema dell’eticità, se non costituisci un popolo? Una comunità? L’ethos presuppone una socìetas. Ma se la socìetas è una società disgregata, corrotta, non si costituirà un ethos.
Guarda che il carcere ti costringe a mettere la testa su problemi che nella vita normale affronti soltanto se devi insegnarli all’università, altrimenti non ci pensi nemmeno. Il carcere è un luogo che ti costringe a pensare, a elaborare, è pazzesco, io lo consiglio a tutti! (da liberi volontari…).
[1] Fabio CAVALLI è produttore teatrale e cinematografico, regista, autore, scenografo, curatore di mostre. È laureato in filosofia teoretica e diplomato all’Accademia del Teatro Stabile di Genova. Direttore Generale del Centro Studi – Archivio Storico Enrico Maria Salerno, e responsabile delle attività culturali e teatrali presso il Carcere di Rebibbia N.C. di Roma. Insegna “Etica, Estetica e Prassi del Teatro nel Sociale” al DAMS dell’Università Roma Tre. E’ membro degli Stati Generali per la riforma penitenziaria presso il Ministero di Giustizia. Sul suo lavoro teatrale in carcere, i fratelli Paolo e Vittorio Taviani hanno realizzato il film Cesare deve morire – vincitore della 62° Edizione del Festival del Cinema di Berlino e candidato per l’Italia agli Oscar 2013. Del film è co-produttore, co-sceneggiatore, interprete, casting.
[2] “la catarsi è una purificazione o purga delle emozioni (come pietà o paura) primariamente attraverso l’arte” V. HEINRICH-CLAUER a cura di, Merriam Webster’s Collegiate Dictionary, edizione italiana a cura di CINOTTI NICOLETTA, FILONI MARIA ROSARIA, Milano, FrancoAngeli, p. 431.
[3] ARISTOTELE, Poetica, 6, 1449b, 27-28
[4] ARISTOTELE, ibid. 4, 1448b, 20
'Catarsi, dalla polis al penitenziario. Intervista a Fabio Cavalli' has no comments
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