Se si vuole ritenere l’unità europea un fatto culturale e non meramente tecnico, si può cominciare considerandone la lingua. È sufficientemente noto quanto il tentativo di unificazione dell’Europa sia debitore al mito di Babele (che riecheggia tra l’altro nell’architettura del parlamento di Strasburgo), ma percorso a ritroso, dove il fatto della molteplicità iniziale aspira a un destino di integrazione progressiva. E non saranno mai abbastanza grati alle istituzioni comunitarie traduttori, interpreti e traduttologi per le cui mani passano materiali linguisticamente vasti, varî e stimolanti. Tuttavia, a un ventennio dall’introduzione della moneta unica la diversità sociolinguistica non sembra aver giovato così tanto all’integrazione culturale tra i Paesi membri, non più di quanto le molte lingue ufficiali dell’Unione abbiano servito a favorirne l’integrazione politica.
Il parallelo tra lingua, cultura e politica, che forse può sembrare azzardato, appare per altri versi fecondo. Non sarà in effetti un caso se l’inglese, che si è imposto de facto quale lingua veicolare a livello comunitario e istituzionale, sia sempre stato considerato con sospetto da quanti si interrogano sulla specificità dell’esperienza di un’Europa veramente unita. Ma l’opzione dell’inglese (o meglio della sua variante veicolare) ha rappresentato nella pratica anche una sorta di camera di compensazione tra due ipotesi che si ripresentano a ondate e che per tanti motivi appaiono poco realistiche: l’esperanto da un lato, il latino dall’altro.
A parte ogni altra considerazione, si può notare che quanto è vero a proposito della lingua riverbera in ambito politico. Non si constaterà mai abbastanza come i processi dell’azione legislativa e politica comunitaria appaiano dei goffi e instabili compromessi tra due opzioni mutuamente oppositive: la consultazione intergovernativa e l’azione diplomatica. A parte l’anomalia, per così dire, di contemplare con stupore la facciata della legazione francese a Roma e di quella tedesca a Madrid (e forse le auspicate politiche di contenimento finanziario si gioverebbero grandemente dell’integrazione delle legazioni tra Paesi membri al livello dicasteriale, con un modulo uguale per tutti), non cessa di stupire la faziosità litigiosa con la quale l’Unione nel suo complesso suole affrontare le più varie questioni. Se si vuole chiamare “livello politico” questa specie di folklore, gioverebbe ricordarsi di come gli Stati federativi del nord America (tra cui il Canada, che si avvale del bilinguismo ufficiale) abbiano distinto chiaramente fin da subito ruoli, competenze e riparto di poteri nei rispettivi rapporti intrastatali, interstatali, federali e internazionali. Il che, al netto di recenti cadute di stile, potrebbe ancora offrire qualche spunto di riflessione utile e comprensibile a tutti.
A proposito di politica estera si può anche notare che il retaggio tipicamente europeo nel mantenere rapporti extracomunitari sostanzialmente separati per i singoli Stati, riferendosi semmai in sede comune a quelle grandi strutture strategiche (come la Nato) che rappresentavano una relativa garanzia di pace prima della caduta del muro e prima di Maastricht, sta confinando rapidamente tutta l’Unione in un vicolo cieco. Per fare un esempio di stretta attualità, si possono sollevare molti dubbi sull’effettivo tenore delle relazioni tra Stati Uniti e Cina: la materia è senz’altro estremamente complessa e appare difficilmente inquadrabile secondo una direzione unitaria. Ma non va dimenticato che il vero competitor strategico degli Stati Uniti (e a giorni alterni della Cina) rimane, come sempre è stata, la Russia. Al passo dell’attuale politica internazionale, dove le alleanze sono sempre più fragili e i motivi di contrasto sempre più profondi, se un domani Washington e Pechino decidessero di andare in luna di miele è ben presumibile che la prima a rimetterci sarebbe proprio l’Europa, perché la valuta unica perderebbe sul mercato prestigio, credibilità e soprattutto funzionalità. In mancanza di termini più cogenti di unificazione (cioè politico diplomatici e strategici), ciò segnerebbe il termine dell’esperimento comunitario, traducendo (tra le altre cose) in un bellum civile quelle faziosità e litigiosità fin d’ora presenti, non certo virtualmente, nel continente. E questo solo considerando la dimensione europea del problema.
Se ci si concentra su questo punto, che potrebbe sembrare superato nell’era dei mercati globali e delle pandemie, è perché tuttavia permangono quei residui tipici (per chiamarli così) della vecchia politica delle potenze, costituiti principalmente dagli arsenali strategici. Se è vero infatti che le poche decine di testate che può ancora oggi dislocare la Cina appaiono piccola cosa al confronto della potenza distruttrice di Stati Uniti e Russia, non va comunque sottovalutato il modus procedendi complessivo, troppo simile a un imbuto che va sempre strozzandosi.
Oggi e domani una vera e propria unificazione europea avrebbe ancora il suo peso e il suo eventuale merito nel coordinare dei fondamentali passi di pace seguendo la sua più autentica vocazione politica (non in senso folkloristico), quella della mediazione. La stessa Italia, per screditata che sia, potrebbe utilmente contribuire sul punto ricordandosi della sua tradizionale capacità mediatrice nei rapporti esteri. Per giungere al traguardo occorre però una vasta presa di coscienza che accordi, tra le altre cose, la più ampia fiducia alle scelte di politica interna dei singoli Paesi membri. Solo un simile preludio di libertà (e di etica confidenza nella libertà umana) può innervare con un vigore nuovo la credibilità dell’Unione e il livello dell’integrazione strategica. Ma l’Europa deve fare in fretta, magari partendo da iniziative vaste, coraggiose e immediate proprio in campo culturale, ricordandosi cioè di una banale verità: che il benessere prettamente materiale si muta presto in barbarie sociale, se non è sostenuto da quella visione condivisa che è il retaggio delle culture vissute come scambio in profondità.
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