Corruzione a Palazzo di giustizia, il logico delirio di Ugo Betti

Stretti fra le maglie della cronaca, abbiamo una certa difficoltà a convincerci che Corruzione a palazzo di giustizia non è un lancio d’agenzia ma un dramma del 1944, dove figure e figurine del secolo che sembra non del tutto passato si animano, si combattono, si perdono. Ugo Betti, drammaturgo, giurista fratello di Emilio (tra i fondatori dell’ermeneutica giuridica italiana), evoca una treccia di chiaroscuri, strane botole, cassetti a scomparsa in un mondo cavernoso e irredimibile dove la parola ‘corruzione’ si allarga in cerchi concentrici includendo tutto: il potere, la giustizia, l’amore, la vita stessa. I nomi dei personaggi, vagamente nordici, ci ricordano che si tratta di un paese ipotetico ma verosimile, una terra metafisica e realistica insieme, un po’ come accade nella stralunata visione di Sciascia ne Il contesto.
Corruzione e giustizia, questi due opposti, possono dunque fondersi in un termine sintetico, come nella migliore tradizione mitologica, che incarna il ruolo dell’avversario. L’avversione reciproca tra gli attori in lotta per un cupo sogno di gloria (espressione morotea) travalica idealmente le stanze della fortezza giudiziaria e investe l’intera dimensione dell’esperienza e le sue domande di base.
Ma al di là delle componenti assiologiche e passionali che vengono mobilitate, e che risaltano nell’opera di Betti, sovente guardiamo alla corruzione come a un fatto sistemico. Entra quindi in gioco la complessità, il basilisco del mondo contemporaneo, il geroglifico più studiato e sempre inafferrabile, perennemente in bilico tra visioni entusiastiche e stigmatizzazioni, tra esaltazione e oblìo. L’associazione complessità-corruzione non smette di affascinare: come ricorda Ainis, troppe leggi stratificate generano un diritto oscuro, troppa amministrazione genera inefficienza e via dicendo.
In temini ingenui, si può trattare la corruzione come un sistema parassitario rispetto a un sistema principale, e in quanto prodotto di secondo ordine tende a occupare tutto il campo del primo, finché ne consuma completamente le risorse, le funzioni e le finalità. A questo proposito può tornare utile una distinzione tracciata dal semiologo russo Yurji Lotman tra sistemi modellizzanti primari e secondari. Il punto di partenza di Lotman è la considerazione olistica della ‘cultura’, e in questo caso (prescindendo dalle sottigliezze) possiamo considerare la giustizia, o meglio il diritto, come il sistema primario sul quale si innesta nascostamente il sistema secondario della corruzione.
E’ attuale questa visione? Si dice che talvolta l’arte, parlando qui del teatro, possiede una strana capacità anticipatoria rispetto alla storia: p.es. così è dei Capricci del Goya che sembrano riecheggiare la psicanalisi, o delle visioni ‘pop’ di Mondrian, o della complessità scoperta pittoricamente da Pollock. Sì, la corruzione è una presenza costante sull’agenda mediatica, ma lo scarto tra il mondo finzionale del Betti e quello dei nostri quotidiani sta nella qualità del fenomeno. In altri termini, se nel discorso dei media prevale l’aspetto economico, nel dramma del giurista risalta l’aspetto etico. Ecco perché alla base della visione di Betti la corruzione non è solo un fatto sistemico e meccanico.
Il problema da cui muove Betti nella sua ambientazione, e che martella tutto lo sviluppo narrativo, implica una valutazione culturale della corruzione, dove questo sistema parassitario è invece un dato originario, un presupposto, e le vite degli attori in gioco non possono che adeguarvisi, come davanti di un fenomeno naturale. Sulla scena allestita da Betti, la corruzione giudiziaria è la forza di gravità che tiene unite le pietre del palazzo. Ovviamente, il termine di paragone più prossimo sembrano i lucidi deliri à la Kafka. Non diversamente da quanto accade nel Castello, questo Palazzo di giustizia è corrotto in modo ontologico. Il polo oppositivo di questo mondo non può certo essere l’ideale di una trasparenza burocratica, che sarebbe un fatto esteriore. E’ invece rappresentato dall’amore, l’affezione di un giudice corrotto verso la giovane figlia che infine muore, misteriosamente. Cos’è mai questo evento, una sanzione morale? Può darsi.
Ma soprattutto si tratta di un effetto necessario della corruzione, che si pone come l’antagonista fisso di ogni simbolo di vita. Dunque, secondo Betti, l’opposto assiologico di una società corrotta non è solo la trasparenza o la semplicità, ma l’amore, la gratuità nella relazione sociale. Visione superata? Forse potrebbero dircelo, pragmaticamente, gli effetti generati dagli approcci differenti al problema.


Riccardo Bertolotti dopo una formazione giuridica ha conseguito il dottorato in semiotica con Isabella Pezzini occupandosi prevalentemente dell'approccio semiotico all'ambito giuridico. Ha pubblicato articoli su riviste specializzate e curato volumi sui rapporti tra diritto, spazi urbani e visione, e su temi legati all'identità culturale. Ha partecipato a incontri scientifici e soggiorni di ricerca (San Paolo) intervenendo a numerosi convegni internazionali in Europa e America Latina. Da molti anni si occupa inoltre di letteratura italiana contemporanea con presentazioni, interventi in convegni e pubblicazioni apparse in riviste e in volume. Cura privatamente il fondo della scrittrice italoamericana Giosi Lippolis ed è membro del Lars (Laboratorio romano di semiotica, Università Sapienza). Ha collaborato con periodici letterari on-line e cartacei.


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