All’indomani del compimento dell’unità d’Italia, la sentenza di Massimo D’Azeglio risuonava come un monito a cui nessuna parte della società si poteva sottrarre. Le differenze tra le regioni che componevano il neonato Regno d’Italia erano d’ogni tipo: geografico, economico, culturale e – per quello che ci interessa qui – linguistiche. Del resto, la questione della lingua è cosa nota: essa ha alimentato un dibattito le cui origini si possono rintracciare già nel De vulgari eloquentia di Dante, ma che aveva avuto la sua fase più aspra nel Cinquecento – con la proposta del Bembo di utilizzare come lingua comune il fiorentino letterario del Trecento – e si era rinfocolato dopo la pubblicazione della relazione richiesta al Manzoni dal ministro dell’istruzione Broglio (Dell’unità della lingua e dei mezzi di diffonderla, 1868).
Al netto delle discussioni degli intellettuali, rimaneva un dato allarmante: nel 1861 gli italiani che comprendevano la lingua nazionale erano molto pochi. Essi appartenevano o a una ristretta élite culturale – che però nella vita quotidiana si serviva del dialetto o di un’altra lingua europea e riservava l’italiano a usi principalmente letterari (si pensi al caso del Manzoni, sopra tutti) – oppure alle popolazioni toscane, e specialmente fiorentine, che conoscevano e usavano l’italiano parlato, ma che ovviamente in pochi casi erano in grado di scriverlo e leggerlo. Molto si è discusso, specialmente in seguito alla pubblicazione della Storia linguistica dell’Italia Unita, di percentuali: anche a non voler concordare con i numeri forniti da De Mauro (1963) secondo cui al momento dell’Unità gli italofoni non avrebbero superato il 2,5% della popolazione, e ci si vuole attenere al più rassicurante 10% di Castellani (1982) – che però ottiene il dato inserendo nel computo tutti i parlanti toscani, analfabeti inclusi – resta chiaro che gli italofoni nella Penisola erano una parte talmente esigua della popolazione, che l’obiettivo vitale del primo corso di studi doveva essere l’apprendimento della lingua nazionale.
La scuola italiana veniva regolata dalla legge Casati (n° 3725 del 13 novembre 1859) che, creata per il Regno di Sardegna, era stata poi estesa al neonato Stato unitario. Essa si poneva come fine quello di combattere l’analfabetismo e di togliere alla Chiesa cattolica il monopolio dell’istruzione. La scuola pubblica veniva articolata secondo tre livelli successivi: l’istruzione primaria e tecnica, l’istruzione secondaria classica e l’istruzione superiore (ossia l’università). Per la parte che a noi interessa, quella elementare, bisogna specificare che essa era composta di in un primo biennio obbligatorio, gratuito e gestito dallo Stato, e di un secondo biennio a gestione comunale. Tale distinzione comportava non pochi problemi di organizzazione e di uniformità sul territorio: spesso i comuni, specialmente nelle zone rurali, non riuscivano a garantire un servizio scolastico adeguato alle necessità reali (solo nel 1911 con la legge Daneo-Credaro la scuola elementare passò completamente alla gestione statale).
Sul metodo da adottare si aprì, tra gli addetti ai lavori, un dibattito di grande interesse per la storia della didattica della lingua: si è già citata la relazione del Manzoni. Ebbene la sua opinione – o meglio quella dei “manzoniani a oltranza” – venne osteggiata da un valente avversario: il linguista goriziano Graziadio Isaia Ascoli, il quale nel Proemio al suo Archivio Glottologico Italiano (1873) fornì la più nota e influente critica al manzonismo “di maniera”. Egli prese a bersaglio il Novo vocabolario della lingua italiana secondo l’uso di Firenze, pubblicato nel 1870 da Giovan Battista Giorgini e dallo stesso ministro Broglio. Già solo nel titolo – che riporta “novo” al posto di “nuovo” – Ascoli individuava l’intenzione degli autori di imporre il fiorentino parlato dai ceti colti come «una manica da infilare» alla popolazione del Regno. Alla critica seguiva poi un’analisi della specificità della situazione linguistica italiana a confronto con la Francia e la Germania, Paesi dove l’unità linguistica si era realizzata con modalità diverse. Ascoli evidenziava i mali endemici della tradizione culturale italiana («la scarsa densità della cultura e l’eccessiva preoccupazione della forma»), e sollecitava a «quella larga spira di attività civile che poi debba travolgere in ferma unità di pensiero e di parola tutte le genti d’Italia». Il Proemio si concludeva con quello che pareva un invito a pensare la questione della lingua, e quella più spinosa, del suo insegnamento, da una prospettiva completamente diversa: quella della comparazione tra le lingue già padroneggiate da alunni e maestri – ossia i dialetti – e l’italiano.
Tuttavia, come bene evidenzia Catricalà (1995, p. 29), le idee del Proemio, pur con tutta la loro forza e il loro afflato innovativo, avrebbero avuto minore eco e una diffusione sicuramente meno trasversale se non fossero confluite a distanza di pochi mesi in un nuovo scritto, riservato a un pubblico più ampio: la relazione presentata al IX Congresso pedagogico di Bologna del 1874 sui problemi dell’insegnamento grammaticale nelle scuole elementari. L’intervento – presentato da Francesco D’Ovidio, giacché Ascoli era impegnato fuori d’Italia – verteva sull’opportunità di eliminare l’insegnamento della grammatica dal primo corso elementare, o riservarla al corso superiore.
Lontano sia dalla pedagogia naturalista, che immaginava una lingua “instillata col latte materno” (del resto inapplicabile alla situazione di multiformità linguistica italiana), sia dall’idea di una scuola che allena gli alunni a ripetere “a pappagallo” interminabili tabelle di verbi e definizioni (senza peraltro comprenderne il funzionamento e il significato), Ascoli immagina l’insegnamento della lingua come un’opera comparativa, “un vero studio grammaticale, tanto meno arduo quanto più efficace […] che giovi […] non meno all’apprendimento della lingua, che al sano sviluppo e all’esercizio energico, ma non punto precoce e non punto soverchio, d’ogni facoltà della mente(?)”.
La genialità di questa posizione sta nel considerare un fatto evidente, eppure fino a quel momento ignorato: la dignità linguistica del sostrato dialettale e la sua non neutralità nelle menti, nelle culture e nel vissuto degli italiani, a cui si voleva invece imporre la lingua del nuovo Stato unitario. Parafrasando la sentenza di D’Azeglio con cui abbiamo aperto: fatta l’Italia, bisognava fare l’italiano; ma c’era davvero bisogno di disfarsi dei dialetti? Non nell’ottica di Ascoli: essi – lungi dall’essere considerati mera fonte di errore per il discente – potevano rivelarsi il più valido punto di partenza per costruire una conoscenza grammaticale fondata sulla comparazione tra il patrimonio linguistico già acquisito e la lingua da apprendere, rischiarando così entrambi. Si proponeva, insomma, il bilinguismo; o meglio: più bilinguismi, poiché – con la loro introduzione in un corso di studi strutturato – si sarebbero preservati e nobilitati il lombardo, il veneziano, il ladino, il sardo, l’abruzzese, il napoletano, il calabrese, il siciliano, il griko e tutti gli altri dialetti e le lingue d’Italia.
Ma la proposta dell’Ascoli, per quanto validissima da punto di vista scientifico, incontrava immense difficoltà di applicazione: già si è fatto riferimento alla peculiare organizzazione della scuola elementare che affidava ai comuni l’organizzazione del secondo biennio elementare, favorendo di fatto una forte disomogeneità; essa implicava, inoltre, la necessità di differenziare per area linguistica i manuali scolastici e soprattutto la preparazione dei maestri, i quali – reclutati principalmente tra preti ce avevano abbandonato il sacerdozio e reduci di guerra – non avevano la formazione necessaria per affrontare lo studio comparativo delle grammatiche.
C’era stato, in verità, chi aveva tentato un esperimento in tal senso, ma in generale nella scuola italiana ha continuato a imperare una specie di fobia del dialetto, che ha limitato la possibilità di applicare la proposta dell’Ascoli. Questo tuttavia non ha impedito che la si coltivasse sotterraneamente, fino a vederla sbocciare, nel primo ventennio del Novecento, nel progetto pedagogico di Giuseppe Lombardo-Radice. Il pedagogista siciliano fece sua l’idea della centralità della lingua madre nella formazione della personalità emotiva e culturale del bambino e dunque della necessità di tenerlo presente nell’insegnamento della lingua nazionale, che non doveva quindi limitarsi all’ora di italiano, ma attraversare trasversalmente tutta l’esperienza scolastica degli allievi. Come è noto, Lombardo-Radice fu uno dei principali artefici della riforma Gentile per quanto riguardava la sezione elementare e, in effetti, dalla sua apertura ai dialetti discende un progetto di notevole interesse: la sperimentazione di “manualetti”, ispirati dalla proposta di Ascoli, per l’insegnamento dell’italiano col metodo comparativo (vedi Gensini 2005, pp.38-40). Purtroppo l’involuzione del Regno d’Italia verso lo Stato totalitario fascista investì anche la scuola, che da terreno di sperimentazione divenne principale strumento di propaganda. Il fascismo nella sua cieca volontà di presentare la razza, la lingua e la cultura italiane come unica forma d’essere possibile, non poteva tollerare un insegnamento che partisse ponesse al centro la differenza, valorizzandola e preservandola. Così, con la definitiva fascistizzazione dello Stato, naufragava il progetto avanguardistico dell’Ascoli.
Noi vogliamo qui riproporre il suo scritto, convinti dell’attualità dei principi che promuove, specialmente in un momento storico in cui la scuola italiana si trova di fronte a nuovi problemi d’integrazione di identità linguistiche e culturali(si pensi agli immigrati di prima e seconda generazione e ai loro figli, che affollano i banchi delle nostre scuole, specie nelle grandi città). Le difficoltà che si profilano sono, senza dubbio, consistenti e forse più aspre di quelle di cui scriveva Ascoli, ma la prospettiva comparativa ci pare l’unica in grado di trarre, da tali difficoltà, una opportunità di arricchimento culturale, linguistico e umano per i gli alunni, per la scuola e per la società tutta.
Bibliografia
Ascoli G.I., Proemio, in “Archivio Glottologico Italiano” Vol.I, 1873.
Castellani A., Quanti erano gli italofoni nel 1861?, in “Studi Linguistici Italiani” nuova serie VIII, I, pp. 3-26.
Capotosto S., Dal dialetto all’errore. Un’indagine sul metodo «dal dialetto alla lingua», in “Studi di grammatica italiana” a cura dell’Accademia della Crusca, vol. XXXI-XXXII (2012-2013), pp. 355-374.
Catricalà M., L’italiano tra grammatica e testualizzazione: il dibattito linguistico-pedagogico del primo sessantennio postunitario, in “Studi di grammatica italiana pubblicati dall’Accademia della Crusca”, Firenze 1995.
De Mauro T., Storia linguistica dell’Italia unita, Roma-Bari, Laterza [prima edizione Roma-Bari, Laterza, 1963]
De Mauro T., Storia linguistica dell’Italia repubblicana: dal 1946 ai giorni nostri, Laterza, Roma 2014.
D’Ovidio F., Scritti linguistici, a cura di Patricia Bianchi, introduzione di Francesco Bruni, Guida, Napoli 1982.
Gensini S., Breve storia dell’educazione linguistica dall’Unità a oggi, Carocci, Roma 2005.
'Abbiamo fatto l’Italia. Ora si tratta di fare gli italiani. Introduzione all’inedito di Graziadio Isaia Ascoli' has no comments
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