L’Italia è un paese che garantisce a tutti i suoi cittadini il diritto alla salute. Nel campo della salute mentale è stato il primo paese che ha abolito i manicomi e che, nel 2017 ha definitivamente chiuso gli ospedali psichiatrici giudiziari. Tale passaggio non è stato privo di criticità e ambiguità, sia per i pazienti e soprattutto per gli psichiatri che si trovano ancora oggi, tra un mandato custodialistico ed esigenze terapeutiche, a dover rispondere di una posizione di garanzia. Se prima il potere politico puniva i trasgressori della morale comune con il ricovero, oggi punisce chi non riesce a prevenire i comportamenti ritenuti inaccettabili: gli psichiatri.
Abstract
Italy is a country that guarantees all its citizens the right to health. In the field of mental health it was the first country to abolish mental hospitals and, in 2017, it definitively closed judicial psychiatric hospitals. This transition was not without its criticality and ambiguity, both for patients and above all for psychiatrists who are still today, between a custodial mandate and therapeutic needs, having to respond to a guarantee position.If before the political power punished the transgressors of the common morality with the admission, today it punishes who is not able to prevent the behaviors considered unacceptable: the psychiatrists.
Pensare ad un tiranno suscita in noi sentimenti di vicinanza e solidarietà verso l’oppresso e contemporaneamente disapprovazione verso colui che, spesso una volta sovrano, esercita con meschinità il suo potere. Non sempre, infatti, il potere è esercitato a beneficio del popolo; a volte lo è per interesse personale di chi lo esercita, altre volte per ragioni politiche o di ordine pubblico, altre ancora per rispettare dettami religiosi o culturali. Mai accetteremmo che uno Stato possa perpetuare atteggiamenti di prepotenza nei confronti di parte dei suoi cittadini. Uno Stato si costruisce a difesa della collettività ed ha cura dei più deboli e bisognosi; gestisce e promuove, tramite le sue leggi, il benessere dei suoi cittadini. Nel campo della salute l’Italia, rispetto ad altri paesi, è da tempo all’avanguardia; la copertura sanitaria gratuita a tutti i cittadini ha permesso di raggiungere risultati quali la di scomparsa di molte malattie, il basso indice di mortalità infantile e una lunga aspettativa di vita media.
Al riguardo, il 1978 è stato un anno particolarmente importante per l’Italia; venivano infatti varate tre leggi: la 180 che riformava l’assistenza psichiatrica, la legge 194 sulla maternità responsabile e l’interruzione volontaria della gravidanza, ed infine la legge 833 che istituiva il Servizio Sanitario Nazionale. Quest’ultima, che sanciva la fine del sistema mutualistico, poggiava su tre principi fondamentali: l’universalità, l’uguaglianza e l’equità. Si legge infatti al suo inizio: «Il Servizio Sanitario Nazionale è costituito dal complesso delle funzioni, delle strutture, dei servizi e delle attività destinati alla promozione, al mantenimento ed al recupero della salute fisica e psichica di tutta la popolazione senza distinzioni individuali o sociali e secondo modalità che assicurino l’eguaglianza dei cittadini nei confronti del servizio».
L’accesso “universale” viene concesso in attuazione dell’art. 32 della Costituzione che recita: «La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività, e garantisce cure gratuite agli indigenti. Nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge. La legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana». In altre parole, questo principio si applica attraverso la promozione, il mantenimento ed il recupero della salute fisica e psichica delle persone che usufruiscono di servizi erogati territorialmente dalle varie Aziende Sanitarie Locali che, a loro volta, dovrebbero garantire in modo uniforme i Livelli Essenziali di Assistenza (LEA).
Il principio di “uguaglianza” invece, assicura la coesione sociale e l’accesso alle cure sanitarie tra persone derivate da condizioni socio-economiche diverse. Da anni però, la sanità è regionalizzata, ossia viene gestita direttamente da ogni singola Regione. Questo ha contribuito al fenomeno dell’emigrazione sanitaria, ossia al trasferimento di molti cittadini che, per curarsi, emigrano verso le Regioni più ricche, dove le possibilità di cura sono migliori. Infatti, i cittadini che abitano in Regioni in deficit di bilancio o commissariate, hanno visto tagliati alcuni servizi e le liste d’attesa per accedere ai più classici esami strumentali sono diventate infinite, spingendo, chi può, verso una sanità privata. Ovviamente oggi non è più possibile garantire tutto a tutti, ma tutti dovrebbero avere il diritto di potersi curare senza disparità regionali. E questo non solo per una questione economica, ma anche di dignità personale e, non ultimo, di “equità”.
Il potere politico e quello economico-finanziario condizionano la sanità, e con essa l’operato del medico, il quale a sua volta gestisce un potere sulla qualità di vita dei suoi assistiti. C’è da chiedersi se il medico sia libero nell’esercizio di questo potere o se altri poteri esercitino su di lui una pressione. Oggi il medico, nell’espletare la sua attività ha perso autonomia perché sempre più deve rispettare i vincoli imposti dall’economia. Il medico non può più decidere da solo come curare i propri pazienti, ma deve seguire algoritmi, protocolli e linee guida, al fine di contenere la spesa. Da tempo Quotidiano Sanità (QS), un quotidiano online che si occupa di problematiche sanitarie, ospita un dibattito sulla “questione medica”, ossia sulla crisi e sul declino della professione medica. Nel 2015 Ivan Cavicchi riconosceva che: «Le politiche di definanziamento del governo stanno ispirando le politiche di riordino delle regioni soprattutto relative ai loro sistemi gestionali. Queste politiche hanno in comune una forte centralizzazione del controllo sui servizi, quindi sul lavoro e sugli operatori. Si centralizza la gestione per sorvegliare e controllare coloro che con i loro atti producono spesa. Quindi soprattutto i medici»1.
«La svalorizzazione della sanità passa poi attraverso i dispositivi della medicina totalmente amministrata in cui è la regolamentazione esterna che cerca di disciplinare aspetti importanti della erogazione di servizi e prestazioni senza alcun coinvolgimento dei diretti erogatori, i professionisti. Un modello in cui la medicina perde la sua finalità fondativa di “ars curandi” (subordinata in modo esclusivo a scienza e coscienza del medico) per diventare oggetto della politica amministrativa perché fonte di sprechi su cui intervenire con misure di razionamento»2. E ancora: «Oggi il lavoro dei medici viene considerato un disvalore, un costo da abbattere, una spesa da comprimere attraverso operazioni di sostituzione con personale meno qualificato per formazione ed esperienza professionale»3.Come si è arrivati a questo?
Fin dalle origini, colui il quale esercitava l’arte medica, fosse esso stregone, mago, sacerdote o guaritore, esercitava sulla popolazione influenze dirette e godeva di un rispetto reverenziale. Ciò ha resistito fino intorno agli anni sessanta, quando entra in crisi il modello paternalistico. La rivoluzione culturale, con la sua contestazione anti establishment, mette in discussione la “struttura” delle varie organizzazioni sociali, quali la famiglia, il rapporto con il mondo del lavoro e anche la medicina. Quello che si contestava era la strutturazione di ruoli in cui gli attori erano portatori di capitale culturale e sociale differente, e questa diversità, creava disuguaglianza. Nel rilevare questa disparità, un ruolo importante lo ebbero i sociologi quali Talcott Parsons, che iniziò ad esaminare la struttura della società e Eliot Freidson che analizzò il rapporto subordinato tra medico e paziente, arrivando a formulare il concetto di “dominanza medica”4 con il quale inscriveva il medico nel ruolo di rappresentante dei valori dominanti della società e del suo ordine costituito.
Il medico, come portatore di un sapere-potere elitario viene contestato e l’organizzazione sanitaria viene sempre più sottoposta a vincoli economici e politici. Successivamente con la globalizzazione e la liberazione dei mercati vengono introdotti anche nella sanità, degli strumenti tipici dell’impresa. È, per dirla con le parole di Polillo: “la rivincita degli amministrativi”che da semplici funzionari esecutivi diventano manager5. Il medico invece, per quanto riguarda l’organizzazione dei sevizi, l’allocazione delle risorse e la valutazione dei risultati, diventa dipendente da decisioni altrui; in altre parole, diventa un ostacolo sulla via del risanamento sanitario. Inoltre, mentre le prestazioni sanitarie vengono sempre più razionalizzate e le diagnosi mediche si fanno sempre precise, in linea con il progredire delle conoscenze scientifiche, nel campo della salute mentale il ruolo dello psichiatra continua ad oscillare tra un mandato custodialistico e un’istanza terapeutica.
Fermenti anti manicomiali
Erving Goffman, un importante sociologo americano che lavorava all’Ospedale Psichiatrico di St. Elizabeths, Washington (D.C.), pubblica Asylums6, un libro che segnerà una tappa fondamentale nella comprensione dell’aspetto sociale della malattia mentale, e nel quale sferra un duro attacco alle istituzioni totali. Nella “Premessa” l’autore scrive: «Un’istituzione totale può essere definita come il luogo di residenza e di lavoro di gruppi di persone che – tagliate fuori dalla società per un considerevole periodo di tempo – si trovano a dividere una situazione comune, trascorrendo parte della loro vita in un regime chiuso e formalmente amministrato. Prenderemo come esempio esplicativo le prigioni nella misura in cui il loro carattere più tipico è riscontrabile anche in istituzioni i cui membri non hanno violato alcuna legge. Questo libro tratta il problema delle istituzioni sociali in generale, e degli ospedali psichiatrici in particolare, con lo scopo precipuo di mettere a fuoco il mondo dell’internato»7.
Sintetizzando: un’istituzione è “totale” quando ha un potere particolarmente inglobante per l’individuo; quando non lascia spazio alla personalità dell’individuo che diventa destinatario di una violenza istituzionalizzata. Quattro sono i caratteri che connotano un’istituzione come “totale”: svolgere ogni attività nello stesso luogo e sotto la stessa autorità; gli individui svolgono quotidianamente delle attività per gruppi numerosi, sotto la stretta sorveglianza da parte dello staff dell’istituzione; vi è un sistema di regole ferree e ripetitive che scandiscono le varie attività e fanno scaturire così una standardizzazione dei comportamenti; lo svolgimento di tali attività è diretto al perseguimento dello scopo ufficiale dell’istituzione. «Il fatto cruciale delle istituzioni totali è dunque il dover “manipolare” molti bisogni umani per mezzo dell’organizzazione burocratica di intere masse di persone»8. Lo staff sanitario, diviene detentore di una versione ufficiale della realtà. «Sotto la copertura del modello medico, in realtà, l’istituzione psichiatrica tradizionale non è che un’istituzione carceraria, deputata a gestire gli elementi di disturbo sociale»9.
Sempre sulla stessa scia, Thomas S. Szasz, uno psichiatra ungherese naturalizzato statunitense, vicino alle posizioni dell’antipsichiatria, criticava i fondamenti morali e i supposti scientifici della psichiatria. Sosteneva che la malattia mentale fosse un falso mito e che in senso stretto non esistesse. Ciò che gli psichiatri curano, affermava, sono i problemi che insorgono nel corso della vita. Non esiste una alterazione organica del cervello, così come non esiste un batterio o un virus che la determini. Può essere dovuta a condizionamenti mentali, può manifestare comportamenti socialmente deplorevoli, ma non per questo si deve curare con la forza; questo priverebbe l’individuo della propria libertà di scelta e della sua dignità. Szasz non era contrario alla cura in se stessa, purché questa fosse una libera scelta individuale. Per l’autore, uno “Stato terapeutico” è un tentativo di legittimare la coercizione. In altre parole egli evidenziava come la psichiatria manifestasse una forma di controllo sociale10. Non è un caso che, allora e forse ancora, molti oppositori di stati totalitari fossero rinchiusi in manicomio. Tra i suoi libri di maggior successo: Il mito della malattia mentale: fondamenti per una teoria del comportamento individuale (1961); Legge, libertà e psichiatria, (1963); Farmacrazia, medicina e politica in America (2000), e l’articolo “The Therapeutic State. The Tyranny of Pharmacracy”11.
Sul fronte europeo e per i nostri fini, ricordiamo gli studi di Michelle Foucault, in particolare Storia della Follia nell’età classica12(1961), libro nel quale non tratta della follia come tale, ma dei processi che portano all’esclusione e alla reclusione della persona giudicata folle. Temi questi che riprenderà negli anni 1973-74 quando terrà un ciclo di lezioni al Collège de France, dal titolo “Il potere psichiatrico”, che culminerà nella pubblicazione del libro omonimo13. Come già ricordato, spesso le persone che non si adattavano ai canoni comportamentali imposti dalla società venivano isolate: delinquenti, mendicanti, alcolizzati, prostitute e omosessuali sono sempre stati allontanati, esclusi, reclusi in posti non visibili, internati in strutture che spesso assomigliavano più a colonie di detenzione, poi colonie di rieducazione, poi ospizi di carità, carceri e manicomi. Con l’istituzione dell’internamento, primo tra tutti l’Hôpital Général di Parigi del 1656, come ricorda Foucault, non viene solo mutata l’organizzazione delle strutture precedenti, ma esso diventa ambito del governo di una nuova scienza che si viene a costituire: la psichiatria. Con essa si viene a creare una nuova forma di medico: lo psichiatra, depositario non tanto di un sapere scientifico, ma della morale e del diritto. Se nelle epoche precedenti il medico non partecipava alla vita dell’internamento, ora invece diventa la figura essenziale dell’asilo, colui che stabilisce le entrate, i permessi, le visite, offrendo al contempo una garanzia giuridica e morale, non scientifica. La figura del medico può delimitare la follia e questo non deriva dal fatto che la conosce ma che la domina14. I manicomi diventano al contempo luoghi di rieducazione, assistenza e repressione.
Per Foucault il potere mette in gioco un rapporto di forze; come tale la relazione medico-paziente è caratterizzata da un rapporto asimmetrico, non reciproco, dove il medico con il suo potere sottomette il paziente alla sua volontà. Per il filosofo francese l’esercizio del potere è una strategia che arriva ad agire sui corpi; il suo punto di applicazione è sempre il corpo. «Il potere lavora il corpo, penetra il comportamento, si mescola al desiderio e al piacere»15. Il manicomio agisce secondo il meccanismo della punizione ininterrotta esercitando un potere disciplinare, meticoloso e calcolato, e all’interno di queste strategie compare la violenza. Lo psichiatra esercita quindi il potere assoggettando i corpi. Il potere psichiatrico inoltre, agisce come un operatore di realtà; produce la verità della malattia nello spazio ospedaliero16. Per Basaglia: «Una istituzione che intendesse essere terapeutica deve diventare una comunità che si fondi sull’interazione preriflessiva di tutti i suoi membri; dove il rapporto non sia il rapporto oggettivante del signore con il servo, o di chi dà e di chi riceve; dove il malato non sia l’ultimo gradino di una gerarchia fondata su valori stabiliti una volta per tutte dal più forte; dove tutti i membri della comunità possano – attraverso la contestazione reciproca e la dialettizzazione delle reciproche posizioni – ricostruire il proprio corpo e il proprio ruolo»17.
In pieno conflitto sociale gli intellettuali sono chiamati a rifiutare la delega di potere implicita nel loro sapere. Iniziano le lotte di classe e le lotte contro il “sistema”. Nel 1975 viene pubblicato Crimini di pace. Ricerche sugli intellettuali e sui tecnici come addetti all’oppressione, una raccolta di saggi curata da Franco Basaglia e da sua moglie Franca Ongaro, dove sono raccolte le testimonianze di autorevoli autori internazionali quali, oltre ai coniugi Basaglia, M. Foucault, R. Castel, N. Chomsky, R. Laing, E. Goffman, T. S. Szasz, «che riflettono ed esprimono, da angolature diverse, in cosa consistano e su cosa si fondino l’ordine sociale e la condizione di pace in cui ci troviamo a vivere»18. Tutto ciò in concomitanza e in linea con la lotta contro la borghesia e il suo potere di condizionare, in senso di subalternità, la classe operaia.
Su questa linea vengono approfonditi anche i temi legati alla salute del lavoratore e dell’ambiente in cui si trova ad operare. In Italia, Giulio A. Maccaccaro, medico, biologo e biometrista, contribuisce notevolmente allo sviluppo della medicina del lavoro e promuove politiche sanitarie “fondamentali per lo sviluppo di una società più giusta”. Alla luce del conflitto di classe della società capitalistica, fonda nel 1972 Medicina Democratica – Movimento di Lotta per la salute, e nel 1973 la rivista Medicina e potere, che si poneva in continuità con le lotte studentesche e operaie. «L’ipotesi di fondo di Maccacaro è che la medicina e, in generale la scienza, fossero un modo del potere; come tale, la medicina “è abilitata a dettare statuti, tracciare limiti, codificare eventi, attribuire significati: è cioè capace, a un tempo, di legge e di giudizio, ovvero assolutezza”»19. In quegli anni la parola d’ordine sembra essere: “partecipazione collettiva”. E come ricorda una canzone di Giorgio Gaber: «libertà è partecipazione»20.
Basaglia: tra manicomio e libertà21
Come abbiamo visto, nell’istituzione manicomiale si esercitava un potere strettamente legato a ciò che i canoni sociali ritenevano essere una manifestazione comportamentale più o meno adeguata. Il “pubblico scandalo” poteva essere applicato anche alla donna, moglie o madre, ritenuta inadatta a ricoprire quel ruolo. Numerosi furono anche i bambini internati o perché le famiglie non potevano farsi carico o perché, oggi diremmo, iperattivi o con problemi di apprendimento. Nel corso del tempo i comportamenti culturalmente accettati mutarono; pensiamo ad esempio alla diagnosi dell’omosessualità, o ancora a quella della prostituzione, oggi legale in alcuni paesi. I ricoveri in queste strutture avvenivano spesso in modo coatto, bastava che qualcuno segnalasse la presunta pericolosità della persona in questione, e sia con un certificato medico o con un atto di notorietà, avveniva l’internamento. Quasi sempre si procedeva con la procedura d’urgenza che prevedeva solo un certificato medico. Il direttore, all’interno della struttura, esercitava “la piena autorità”; egli aveva il potere di decidere se l’internato potesse ricevere visite, pacchi o permessi, e questo poco aveva a che fare con le questioni sanitarie, ma più con la disciplina che aveva mostrato. Il medico aveva anche l’ultima parola sulle dimissioni del paziente, ma in questo caso, la famiglia poteva presentare reclamo e chiedere al giudice una perizia. Tutto questo avveniva senza interpellare l’interessato.
Una caratteristica comune tra quei ricoverati era che essi appartenevano prevalentemente alle classi sociali più povere ed emarginate. Una volta internati, queste persone dovevano lasciare le loro cose, spogliarsi dei propri abiti per indossare una divisa, costretti in spazi con altre persone con le quali condividevano ogni giorno la stessa quotidianità scandita dagli stessi orari. I manicomi si situavano spesso in luoghi isolati dove non era possibile avere uno scambio con l’esterno; le finestre avevano le grate; i bagni erano senza porte; per lavarsi spesso venivano spruzzati con una canna dell’acqua e le docce venivano fatte con più persone alla volta, tutti nudi. A tavola, per ragioni di sicurezza, mancavano le posate o erano di legno; il pettine era uno per tutti. Queste strutture di internamento assomigliavano più a carceri, luoghi di segregazione, violenza e soprusi, dove le persone venivano annientate. In questi ospedali psichiatrici la personalità veniva mortificata, l’identità persa e la propria corporeità annullata. Alda Merini, che in manicomio trascorse dieci anni, raccontò: «Il manicomio era saturo di fortissimi odori. Molta gente orinava e defecava per terra. Dappertutto era il finimondo. Gente che si strappava i capelli, gente che si lacerava le vesti o cantava canzoni sconce. Noi soli, io e la Z. sedevamo su di una pancaccia bassa, con le mani in grembo, gli occhi fissi e rassegnati e in cuore una folle paura di diventare come quelle là»22.
Il mondo dell’editoria aveva già iniziato a raccontare l’esperienza manicomiale. Franco Basaglia aveva pubblicato il già citato: “Corpo e istituzione” (1967), Che cos’è la psichiatria? (Einaudi, 1967) e L’istituzione negata (Einaudi, 1968), libro quest’ultimo che ebbe un impatto straordinario. Anche il mondo delle immagini si mobilitò. Nel 1969 uscì un libro fotografico di grande successo, Morire di classe. La condizione manicomiale fotografata da Carla Cerati e Gianni Berengo Gardin (Einaudi), curato da e con l’aggiunta di testi di Basaglia e della moglie Franca Ongaro, che mostra l’annientamento delle persone dopo che sono state istituzionalizzate. L’opinione pubblica venne sensibilizzata anche da un documentario di Sergio Zavoli, I giardini di Abele (1969, Rai1 – Venti milioni di spettatori in due serate) che racconta l’esperienza avvenuta a Gorizia, dove Basaglia fu direttore, e poi dal film documentario in bianco e nero, diretto dai registi Marco Bellocchio, Silvano Agosti, Sandro Petraglia e Stefano Rulli: Matti da slegare nel 1975. Il mondo politico ed intellettuale non può più stare a guardare.
Nel 1973 Basaglia fonda Psichiatria Democratica, il cui documento programmatico si propone di: «continuare la lotta all’esclusione, analizzandone e denunciandone le matrici negli aspetti strutturali (rapporti sociali di produzione) e sovrastrutturali (valori e norme) della società; continuare la lotta al “manicomio”, come luogo dove l’esclusione trova la sua espressione paradigmatica più evidente e violenta, rappresentando insieme la garanzia di concretezza al riprodursi dei meccanismi di emarginazione sociale; sottolineare i pericoli del riprodursi dei meccanismi istituzionali escludenti, anche nelle strutture psichiatriche extra-manicomiali di qualunque tipo»23.
A gennaio del 1977, nel corso di una conferenza stampa Basaglia annuncia che in quello stesso anno, l’Ospedale Psichiatrico San Giovanni di Trieste sarebbe stato definitivamente chiuso, restituendo così dignità alle persone che l’istituzione aveva disumanizzato. Questo annuncio spinge la politica e i mass media ad occuparsi della questione manicomiale italiana. Nel dicembre 1977, lo psichiatra parlamentare democristiano Bruno Orsini, depositò una proposta di legge che pochi mesi dopo sarebbe stata approvata. Come accennavamo all’inizio di questo articolo, all’interno della legge 833 del 23 dicembre 1978, viene recepita anche la legge 180, approvata il 13 maggio 1978 e meglio conosciuta come “legge Basaglia”, che riformava l’assistenza psichiatrica regolamentando anche il Trattamento Sanitario Obbligatorio (TSO), ma che nell’opinione pubblica, è molto più semplicemente conosciuta come: “la legge che ha chiuso i manicomi”.
L’approvazione di questa legge, seguì un iter rapidissimo e probabilmente a questo contribuirono due fatti: da un lato la minaccia del partito radicale di indire un referendum per l’abrogazione della legge 36 del 1904, e quindi la possibilità che persone fino a ieri detenute negli OPG perché, giudicate “pericolose” venissero rimesse in libertà, e dall’altra il rapimento dell’onorevole Aldo Moro avvenuto il 16 marzo 1978, da parte delle Brigate Rosse che trucidarono anche i membri della sua scorta. L’intera nazione era emotivamente segnata, così come l’attività parlamentare che procedeva turbata dai tragici eventi in corso. In quel drammatico 1978, Camera e Senato, con una procedura inconsueta, senza una vera e propria discussione, votarono una legge, che avrebbe chiuso i manicomi. «Durante la VII legislatura, alla fine di aprile 1978 e nel giro di due giorni, la XIV Commissione (Sanità) della Camera, riunita in sede legislativa, discusse, modificò e approvò il disegno di legge di iniziativa governativa n. 2130. Dopodiché, non necessitando del passaggio in Aula, il testo fu inviato direttamente alla 12ª Commissione del Senato (Igiene e sanità) che gli attribuì il numero 1192. Dai suoi componenti, riunitisi il 10 maggio, quel disegno di legge nel breve volgere di tre ore ottenne il via libera per diventare legge dello Stato. La numero 180»24.
Ad integrazione di quanto sin qui detto sulle procedure che regolavano i manicomi e sul successivo sviluppo delle reti territoriali per i disturbi della salute mentale, voglio ricordare alcune date: nel 1891 con il Regio Decreto n. 260, art. 469, viene configurato un circuito separato per il reo-folle, il Manicomio Criminale, che diventerà poi “casa di reclusione” e che intorno alla metà degli anni settanta prenderà il nome di Ospedale Psichiatrico Giudiziario (OPG), riservato a coloro che, condannati a pena superiore ad un anno, venivano colpiti da alienazione mentale o erano in fase di osservazione. Nel 1904 viene approvata la legge 36, proposta da Giovanni Giolitti, che regolamentava i manicomi esistenti, e che si basava su un criterio di internamento legato ai criteri di “pericolosità sociale e pubblico scandalo”. Nel 1930 il codice di procedura penale, all’art. 604 prevede che il ricovero in manicomio sia accompagnato dall’iscrizione al casellario giudiziario; automaticamente la fedina penale diventava sporca e la capacità di agire del soggetto veniva limitata.
La legge 431 del 1968 approva alcune modifiche alla legge 36/1904, dove si stabilisce il primato terapeutico nell’approccio alla patologia psichiatrica. Si introduce la possibilità del ricovero volontario; viene istituita la cosiddetta rete territoriale dei servizi, vengono organizzati i Centri di Igiene Mentale e gli ospedali psichiatrici. Viene inoltre abrogato l’articolo 604 del Codice di Procedura Penale relativo all’iscrizione al casellario giudiziario, ed infine, con la legge n. 132 sempre del 1968 gli ospedali psichiatrici, che fino alla approvazione della legge Basaglia si configuravano come struttura di competenza dell’Amministrazione Provinciale, vengono inseriti tra gli enti di assistenza sanitaria25. È il 1978 quando viene approvata la legge Basaglia di cui abbiamo già brevemente parlato. Ricordo infine il Progetto Obiettivo Tutela della Salute Mentale 1998-2000 che ha definito l’articolazione e le modalità di funzionamento dei Dipartimenti di Salute Mentale, compito che la Costituzione assegna alle Regioni. A tutt’oggi però permane nel codice penale, per coloro che soffrono di patologia psichiatrica, il concetto di “pericolosità sociale”.
Come è noto, la legge Basaglia, non è stata applicata in modo omogeneo su tutto il territorio nazionale e forse non tutto ciò che essa prevedeva è stato messo in atto. Di queste carenze ne hanno fatto le spese in particolare i pazienti ed i loro familiari, molte volte lasciati soli a gestire situazioni complesse. A volte si vorrebbero contrapporre i familiari dei malati, ai medici e a tutti coloro che plaudono a questa importante riforma, ma è innegabile il peso che la famiglia deve quotidianamente sopportare. Lo scorso anno, il 2018, si sono festeggiati un po’ ovunque i quarant’anni della riforma e provocatoriamente ma lecitamente qualche familiare si è chiesto cosa ci fosse da festeggiare. Si è detto che intorno alla legge 180 si è creato il mito dell’intoccabilità. Ci si è chiesti perché fosse un “diritto” aggirarsi in stato confusionale o ubriachi, con borse piene di stracci e si ricordava l’operazione culturale che ci ha abituati a vedere i matti per strada. Amaramente questo familiare concludeva: «Il risultato è che prima il malato veniva rinchiuso in luoghi più simili a prigioni che a luoghi di cura, ora invece sono a carico delle famiglie che, nel fungere da controllori, diventano essi stessi reclusi»26. E ancora: «I familiari, la legge 180 non l’anno ostacolata, non l’hanno tradita: l’hanno attuata»27.
Dopo la chiusura dei manicomi, rimanevano ancora aperti gli OPG, le cui condizioni erano ancora troppo simili a quelle dei manicomi. Nel 2008 Ignazio Marino diventa presidente della commissione d’inchiesta sul servizio sanitario nazionale; nel 2011 inizia ad occuparsi della grave situazione in cui versano gli OPG e con il regista Francesco Cordio realizza un documento della durata di 13 ore da cui ricavarono il film Lo Stato della follia. Marino proiettò 30 minuti di quel reportage al Quirinale, alla presenza dell’allora Presidente Napolitano, che rimase molto colpito28. Il programma Presa diretta29, in onda su Rai 3, mandò in onda la video inchiesta che, entrando nelle case degli italiani, scosse l’opinione pubblica. Responso unanime: bisognava chiuderli.
Ma: «Chi sono gli internati? Si tratta di persone, per lo più tossicodipendenti, persone con problemi di salute mentale e persino malati di Aids, che non devono scontare una pena né essere rieducate, di (ex) detenuti che nonostante abbiano pagato il debito con la giustizia, restano in prigione perché ritenuti pericolosi socialmente e vengono sottoposti alla misura di sicurezza tale da poter essere protratta nel tempo, senza date finali certe, finché il giudice di sorveglianza non ritiene cessata la pericolosità sociale. Persone che stanno scontando la cosiddetta “pena accessoria”. Che cosa è una pena accessoria? Una punizione supplementare che viene scontata dopo aver terminato la condanna penale e così, quando l’internato non ha un lavoro che lo possa reinserire socialmente, né ha nessuno che si prenda cura di lui, perché i legami con la famiglia di origine sono andati persi e logorati dal tempo, l’internamento può essere prorogato all’infinito. Per questo lo chiamano “ergastolo bianco”. Una tortura. Legalizzata dallo Stato»30.
La chiusura degli OPG venne rinviata più volte e per vari motivi. Intanto si erano costituite associazioni pubbliche e private che indignate da quanto avevano visto, con le loro iniziative mantenevano viva l’attenzione sul problema. Tra queste ricordiamo “stopOPG” che si è battuto a lungo per la chiusura dei manicomi giudiziari, e l’“Osservatorio sul superamento degli Ospedali Psichiatrici Giudiziari e sulle REMS”. Tale Osservatorio, promosso da stopOPG con la collaborazione di Antigone, un’associazione politico culturale che da anni si occupa dei diritti e delle garanzie all’interno del sistema penale, intende monitorare se e come venga assicurato il rispetto del diritto alla tutela della salute (mentale) e alle cure nonché dei diritti civili e sociali, nei confronti delle persone in misura di sicurezza in REMS e fuori.
Le REMS
Con il DPCM del 01/04/08, seguendo il principio per cui ogni cittadino, a prescindere dalla sua condizione giuridica, ha diritto a ricevere lo stesso tipo di assistenza sanitaria, nel nostro paese viene avviato un processo di rinnovamento dell’assistenza sanitaria per le persone sottoposte a detenzione. Dopo aver deistituzionalizzato i malati psichici, l’Italia si appresta a deistituzionalizzare, unico paese al mondo, anche gli autori di reato affetti da malattia mentale31. Con la legge 9 del 2012 e la legge 81 del 2014 è stata stabilita la chiusura dei sei ospedali psichiatrici giudiziari (OPG), chiusura completata definitivamente nel 2017, e l’apertura di nuove strutture denominate REMS (Residenze per l’Esecuzione delle Misure di Sicurezza), strutturalmente inserite nei Dipartimenti di Salute Mentale (DSM). Va ricordata la legge 67/2014 che tra le misure detentive prevede la detenzione domiciliare, o presso strutture, o l’arresto presso l’abitazione, o altro luogo pubblico o privato di cura. Inoltre sono previste: la detenzione oraria, il braccialetto elettronico, la messa alla prova ed i lavori socialmente utili.
Focalizziamoci sulle strutture che hanno sostituito gli OPG; esse non mancano di criticità. Le REMS sono strutture sanitarie, ma già nel nome tradiscono una vocazione giuridica: sono luoghi dove vengono eseguite le misure di sicurezza detentive. Verrebbe da chiedersi se esse siano strutture sanitarie o luoghi di custodia; si vorrebbe fossero tutt’è due contemporaneamente. Esse sono gestite da medici, ma l’ultima parola sull’entrata o sull’uscita è del Magistrato. La Società Italiana di Psichiatria (SIP) ha più volte sottolineato il rischio per gli psichiatri di tornare ad un ruolo custodialistico e di esporli a situazioni di pericolo. Vediamo alcune criticità.
Il Direttore Sanitario della REMS, che è un medico, si trova a che fare con notifiche di atti giudiziari, trasferimenti, permessi, licenze, come se vi fosse stata una delega delle funzioni dal Direttore dell’OPG al Direttore delle REMS. «Il dirigente medico non può assorbire i poteri di Ufficiale di Polizia Giudiziaria»32. Al Dirigente medico o al Direttore viene chiesto di relazionare al Magistrato circa l’andamento del percorso di cura e questo, oltre a configurarsi come rivelazione del segreto professionale, serve solo per avere benefici di pena o per valutare la pericolosità sociale. Il medico non è un Perito che ha l’obbligo di riferire ogni cosa di sua conoscenza. «L’art. 62 del Codice Deontologico recita: “L’attività medico legale, qualunque sia la posizione di garanzia nella quale viene esercitata, deve evitare situazioni di conflitto d’interesse ed è subordinata all’effettivo possesso delle specifiche competenze richieste dal caso […] il medico, nel rispetto dell’Ordinamento, non può svolgere attività medico-legali quale consulente d’Ufficio o di controparte nei casi in cui sia intervenuto personalmente per ragioni di assistenza di cura o di qualsiasi altro titolo”»33. Senza contare che questo comportamento, ossia il relazionare al Magistrato circa l’andamento della cura, inficerebbe il rapporto fiduciario tra il medico ed il paziente detenuto.
Molti autori sottolineano il rischio che le REMS diventino mini OPG; mini perché per legge non dovrebbero avere più di 20 posti. Alcuni colleghi sottolineano: «Le REMS sono figlie dell’OPG e ne hanno ereditato tutti gli aspetti, a partire da un’ispirazione normativa dell’ordinamento penitenziario, facendo propria una visione sicuritaria e custodialistica estranea al mondo sanitario arrivando a praticare una sorta di “Psichiatria dell’obbedienza giudiziaria” dove le condizioni della cura sono totalmente subordinate alle esigenze della giustizia»34. Inoltre va evitato che esse diventino sede di “scarico” della povertà, dei migranti e dei senza fissa dimora35. «Spesso la collocazione in REMS avviene non tanto per ragioni di cura ma come una misura cautelare. Necessaria alla prassi giudiziaria ma non può esserlo affatto per la cura. Se in OPG si rischiava “l’ergastolo bianco”, in REMS si rischia di avere una detenzione preventiva kafkiana senza garanzie di tempi e di procedura, tanto maggiore in relazione alle carenze della difesa spesso correlata con le condizioni di povertà, emarginazione, assenza di riferimenti»36.
Le REMS inizialmente dovevano ospitare solo soggetti con misura di sicurezza definitiva, oggi ospitano anche soggetti con misure di sicurezza provvisorie. Anzi, è ormai prassi l’inserimento nelle REMS delle persone con misure di sicurezza provvisorie. Molti detenuti si trovano in REMS senza una indicazione clinica. A questo proposito, la Risoluzione del Consiglio Superiore della Magistratura del settembre 2018 sollecitava a evitare un eccessivo ricorso all’applicazione del codice penale sul vizio di mente ai c.d. “cripto-imputabili”, ovvero quelle persone che pur in grado di intendere e volere al momento della consumazione del reato, accedono al sistema psichiatrico giudiziario37.
Il mandato della psichiatria è quello della cura; forme di vigilanza/custodia/coercizione aprono interrogativi sulla loro liceità, fattibilità e soprattutto efficacia clinica38. La presenza in REMS di persone con misure di sicurezza provvisorie e altre con misura di sicurezza definitive, condiziona anche le attività di cura e riabilitazione. Spesso inoltre, la persona si trova in un percorso di cura che non ha scelto, ma in forza di un provvedimento giudiziario. La cura, per essere tale, ha bisogno di consenso e deve essere libera. Se in parte la libertà deve essere limitate per questioni giudiziarie, una quota di libertà e di autodeterminazione deve sempre essere presente per assicurare la possibilità di cura. Non si può obbligare alla cura. Questa non può prescindere dal consenso e dalla collaborazione della persona ammalata. Non è neppure pensabile, nell’unicità della relazione con malato psichiatrico, seppur reo, attenersi alle Linee Guida.
Recentemente il Comitato Nazionale di Bioetica (CNB) ha pubblicato il documento: Salute mentale e assistenza psichiatrica in carcere, nel quale espone proposte e raccomandazioni che brevemente riassumo. Innanzitutto assicurare modalità umane di detenzione, rispettose della dignità delle persone; provvedere a che la cura avvenga sul territorio, in strutture terapeutiche e non in istituzioni detentive; rafforzare i servizi di salute mentale in carcere. Solo chi ha disturbi minori può restare in detenzione, per tutti gli altri le cure devono essere assicurate fuori dal carcere. «Il nodo salute mentale-carcere è complicato da altre questioni, fra cui il diverso trattamento penale (il cosiddetto “doppio binario”) cui possono essere sottoposti gli autori di reato con problematiche psichiatriche. Alcuni, (i cosiddetti “folli rei”) giudicati non-imputabili per vizio di mente (totale o parziale) e perciò prosciolti per essere però sottoposti a misura di sicurezza in OPG; ciò avveniva prima della legge 81/2014 che ha chiuso gli OPG; oggi invece i prosciolti sono avviati al nuovo articolato sistema di presa in carico territoriale, cui fanno parte le Residenze per la Esecuzione della Misura di Sicurezza-REMS. Altri i cosiddetti “rei folli”, giudicati imputabili e condannati al carcere, quando sviluppavano un disturbo psichiatrico grave o andavano incontro a un aggravamento di una precedente patologia, erano trasferiti in OPG. Oggi i rei folli non godono della tutela cui avrebbero diritto, poiché manca una normativa chiara per stabilire la loro incompatibilità col carcere e indirizzarle a misure alternative a fine terapeutico»39.
Il CNB sollecita alcune innovazioni normative: «Nello specifico: il rinvio della pena quando le condizioni di salute psichica risultino incompatibili con lo stato di detenzione in analogia con quanto previsto dagli art. 146 e 147 per la compromissione della salute fisica; la previsione di specifiche misure alternative per i soggetti che manifestano un’infermità psichica in carcere; l’introduzione di Sezioni Cliniche in carcere a esclusiva gestione sanitaria; una più incisiva riforma delle misure di sicurezza, per limitare il ricorso alla misura di sicurezza detentiva. Inoltre, in coerenza con la finalità terapeutica delle REMS, occorre limitare il ricovero nelle REMS ai soggetti nei cui confronti viene applicata una misura di sicurezza detentiva definitiva. Infine il CNB invita a riconsiderare il concetto particolarmente problematico di “pericolosità sociale”, alla base delle misure di sicurezza, e la legislazione specifica a “doppio binario” di imputabilità/non imputabilità per le presone affette da disturbo mentale»40.
La tendenza attuale della psichiatria è quella di considerare il concetto di “pericolosità sociale” privo di fondamento. «Va perseguito sia il principio di pari responsabilità anche in ambito penale per i folli rei, così come per i rei folli e per tutti i cittadini, con l’abolizione dell’articolo 88 del codice penale relativo al vizio totale di mente, sia il principio della pari tutela della salute, anche salute mentale, di chi è libero e di chi è stato condannato al carcere. Infatti l’abolizione della logica manicomiale passa anche attraverso il riconoscimento dell’infermità psichica (e non solo fisica) come determinante di una possibile misura non detentiva nell’esecuzione della pena. Superare il concetto di non imputabilità del soggetto affetto da disturbo psichiatrico, come affermato dal CNB, “non significa negare la sua malattia, bensì rifiutare il presunto automatismo naturalistico e deterministico fra malattia e reato, restituendo al malato la sua individualità e responsabilità, e dunque la possibilità di rielaborare una parte importante del proprio vissuto legata al reato”»41.
Nel convegno nazionale della Società Italiana di psichiatria (SIP), svoltosi nel giugno scorso a Firenze, è stato lanciato l’allarme circa i numerosi detenuti che si troverebbero nei Centri di Salute Mentale (CSM) senza una reale indicazione clinica. Enrico Zanalda, presidente della Società Italiana di Psichiatria e direttore del Dipartimento di Salute Mentale ASL Torino 3, riferisce che il 5% degli autori di reato viene inviato alla psichiatria «in conseguenza di ordinanze giuridiche che pretendono di scaricare sulla sanità situazioni di disadattamento alla detenzione in carcere. Questo rischia di compromettere i luoghi di cura della salute mentale che si trovano a gestire falsi sociopatici. Emblema di questo sono i pazienti con Disturbo Antisociale di Personalità che, quando diviene il tratto prevalente del reo, non dovrebbe comportare alcuna applicazione del vizio di mente ed essere confuso con una malattia»42. Ancora una volta si attribuisce alla psichiatria un ruolo di custodia e di controllo sociale, continuando nel pregiudizio che i comportamenti violenti siano collegati alla malattia mentale. Per Salvatore Varia, vicepresidente della SIP e direttore UOC di Psichiatria presso il DSM della Azienda Provinciale di Palermo, «sta passando l’idea che la psichiatria non debba solo curare, ma anche prevenire la reiterazione dei reati e gli psichiatri debbano trasformarsi in educatori degli autori di reato con disturbi psichici»43. Sul concetto che i folli rei debbano essere giudicati alla stregua delle persone comuni, si sollevano anche dubbi di altri psichiatri che rivendicano il “Diritto alla cura” per i folli rei, e non il “diritto alla pena”44.
Abbiamo accennato a come il peso delle REMS e la gestione di molti autori di reato gravino sui DSM, già in sofferenza sia per carenze organizzative ed economiche, sia per carenze di personale. A giugno 2019 viene pubblicato il “Rapporto Salute Mentale 2017” del Ministero della salute, dove si evidenzia come in un anno si siano volatilizzati 3000 operatori, a fronte di oltre 50 mila assistiti in più. Massimo Cozza, Direttore DSM ASL Roma 2, commentando questi dati del Ministero, e raffrontandoli con i dati definiti nel Progetto Obbiettivo Tutela della Salute Mentale 1998-2000, che prevedeva “almeno un operatore ogni 1500 abitanti”, evidenzia come manchino all’appello circa 11mila operatori, ossia il 27% in meno45. Inoltre, rileva come il costo totale dell’assistenza psichiatrica nel 2017 sia stato pari a 3.954.097 euro, equivalente al 3,6% della somma complessiva del Fondo Sanitario Nazionale 2017, quando i presidenti delle Regioni, fin dal 18 gennaio 2001, si erano impegnati a destinare la quota del 5% dei fondi sanitari regionali per le attività di promozione e di tutela della salute mentale. Pertanto per la tutela della salute mentale in Italia mancherebbero circa 1 mld e mezzo (1.493 mln) di euro46.
Come se ciò non bastasse, bisogna ricordare che sulla testa dello psichiatra pende la posizione di garanzia nei confronti del suo paziente. «Ai fini di interesse, giova ricordare che la giurisprudenza di legittimità ha chiarito che l’obbligo che grava sullo psichiatra risulta potenzialmente qualificabile al contempo come obbligo di controllo, equiparando il paziente ad una fonte di pericolo, rispetto alla quale il garante avrebbe il dovere di neutralizzarne gli effetti lesivi verso terzi, e di protezione del paziente medesimo, soggetto debole, da comportamenti pregiudizievoli per se stesso»47. Lo psichiatra è quindi garante oltre che della salute mentale del suo paziente, della sua incolumità fisica, della sua vita e di quella di terzi! In altre parole, gli vengono attribuite facoltà paragonabili a quelle di un mago, o di un veggente! Questo è comunque l’ambito contraddittorio nel quale da sempre lo psichiatra si trova ad operare. Sfugge al legislatore che non tutto può essere prevedibile o ricondotto all’uso di Linee Guida, che la mente, la singola mente individuale, poco si presta ad essere tradotta in algoritmi, e che «un certo grado di pericolo deve essere inevitabilmente tollerato dalla società »48.
Se una persona commette un reato, o attua un comportamento penalmente rilevante, chi ne è responsabile, lui stesso o lo psichiatra che lo ha in cura? Non si può attribuire ad un medico la posizione di garanzia, senza tener conto della responsabilità del reo, seppur folle, della sua volontà di partecipare a dei percorsi di cura e della sua libertà di autodeterminarsi. Molti psichiatri nei CSM si sono trovati a dover gestire sul proprio territorio persone giudicate pericolose, in attesa di un posto in una REMS. Perché ne dovrebbero rispondere penalmente? Inoltre, oltre alla partecipazione attiva della persona, bisognerebbe considerare ed incentivare altri determinanti della salute, quali la possibilità di un lavoro, di un reddito e non ultimo di un alloggio, strumenti questi che quasi mai disponibili, ma che contribuiscono fortemente al buon esito di una terapia riabilitativa e soprattutto all’inclusione sociale. In caso contrario, il rischio è quello di perpetuare un dominio tirannico dell’istituzione, esercitato non solo nei confronti delle persone affette da disturbi mentali, ma anche verso coloro i quali se ne devono prendere necessariamente cura.
1Ivan Cavicchi, QS 03/11/2015; Se il ruolo del medico è vissuto come “diritto naturale”. – https://www.quotidianosanita.it/lavoro-e-professioni/articolo.php?articolo_id=32958
2Roberto Polillo,QS 13/2/2016; C’era una volta la “buona” medicina: vecchi e nuovi paradigmi. – https://www.quotidianosanita.it/studi-e-analisi/articolo.php?articolo_id=36375
3Roberto Polillo,QS 11/01/2018, Il declino inarrestabile della professione medica. – https://www.quotidianosanita.it/studi-e-analisi/articolo.php?articolo_id=57810
4Eliot Freidson, Professional dominance. The Social Structure of Medical Care, 1970; tr. it. La dominanza medica. Le basi sociali della malattia e delle istituzioni sanitarie, Franco Angeli, Milano 2002.
5Roberto Polillo,QS 11/01/2018, Il declino inarrestabile della professione medica. – https://www.quotidianosanita.it/studi-e-analisi/articolo.php?articolo_id=57810
6Erving Goffman, Asylums. Essays on the social situation of mental patients and other inmates, 1961; tr. it. Di Franca Basaglia, Asylums. Le istituzioni totali: I meccanismi dell’esclusione e della violenza, Einaudi, Torino 1968.
7Ibid., p. 29.
8Ibid., p. 36.
9Idib., Franco e Franca Basaglia, “Postfazione”, p. 404.
10Thomas Szasz, “La psichiatria a chi giova?”, in: Crimini di pace. Ricerche sugli intellettuali e sui tecnici come addetti all’oppressione, Einaudi, Torino 1975, p. 434.
11Thomas Szasz, “The Therapeutic State. The Tyranny of Pharmacracy”, in: The Independent Review, v. V, n.4, Spring 2001, pp. 485–521.
12Michel Foucault, Histoire de la folie à l’àge classique, 1963; tr.it. Storia della follia nell’età classica, BUR, Milano 1963.
13Michel Foucault, Le pouvoir psychiatrique. Cours au Collège de France, 1973-1974, eds. F. Ewald, A. Fontana, J. Lagrange, Paris, 2003; tr. it.: Il potere psichiatrico, Feltrinelli, Milano, 2004.
14Michel Foucault, Storia della follia, op. cit. p. 433.
15Michel Foucault, “Asili. Sessualità. Prigioni”, in: Archivio Foucault-2. 1971-1977. Poteri, saperi, strategie, Eds. A. Dal Lago, Feltrinelli, Milano 1977, p. 175.
16Michel Foucault, “La casa della follia”, in Crimini di pace, op. cit. p. 164.
17Franco Basaglia, (1967): “Corpo e istituzione. Considerazioni antropologiche e psicopatologiche in tema di psichiatria istituzionale”; ora in: Scritti, ed. Franca Ongaro Basaglia, vol. I; “Dalla psichiatria fenomenologica all’esperienza di Gorizia”, Einaudi, Torino 1981, p. 441.
18AA.VV., “Premessa” in Crimini di pace, http://www.ristretti.it/areestudio/cultura/libri/crimini_di_pace.pdf
19Roberto Polillo,QS 11/01/2018, Il declino inarrestabile della professione medica. – https://www.quotidianosanita.it/studi-e-analisi/articolo.php?articolo_id=57810
20Giorgio Gaber, “La libertà”, contenuta nell’album: Far finta di essere sani, 1973.
21Non è mia intenzione ripercorrere qui la carriera bio/bibliografica di Franco Basaglia, facilmente reperibile anche online; a questo scopo si segnala solo il sito della Fondazione Franca e Franco Basaglia.
22Alda Merini, L’Altra verità. Diario di una diversa; BUR Rizzoli, Milano, 1983, p. 7.
23Renato Piccione, Il futuro dei servizi di salute mentale in Italia: significato e prospettive del sistema italiano di promozione e protezione della salute mentale, Franco Angeli, Milano 2004, p. 94.
24Franco Vatrini (un familiare di Brescia), QS, 09/04/2018; La 180 e le famiglie dei malati. – https://www.quotidianosanita.it/lettere-al-direttore/articolo.php?articolo_id=60587
25Filippo Palumbo, 40 anni dalle grandi riforme sanitarie. Legge Basaglia e istituzione del SSN: una riflessione comune, (seconda parte), QS, 06/11/2018. – https://www.quotidianosanita.it/governo-e-parlamento/articolo.php?articolo_id=67531
26Un familiare, Legge 180. Quaranta anni da festeggiare?, QS, 03/05/2018. – https://www.quotidianosanita.it/lettere-al-direttore/articolo.php?articolo_id=61372
27Franco Vatrini (un familiare di Brescia), QS, 09/04/2018; La 180 e le famiglie dei malati. – https://www.quotidianosanita.it/lettere-al-direttore/articolo.php?articolo_id=60587
28Dvd visibile su Youtube alla voce: Documentario psichiatria Opg. – http://www.minimaetmoralia.it/wp/lo-stato-della-follia-un-film-sugli-opg/
29https://www.youtube.com/watch?v=zxry6qt8w2i
30Mattia Feltri, intervista a Ignazio Marino, La Stampa, 29 marzo 2015.
31Stefano Ferracuti, Giuseppe Nicolò, Rinaldo Perini; OPG. Il futuro sono le REMS?, QS, 10/07/2014. – https://www.quotidianosanita.it/lavoro-e-professioni/articolo.php?articolo_id=22563
32Pieritalo Pompili, Giuseppe Nicolò, Stefano Ferracuti; Dagli OPG alle REMS. Ma i medici non possono fare i poliziotti, QS, 02/11/2016. – https://www.quotidianosanita.it/lavoro-e-professioni/articolo.php?articolo_id=44599
33Ibid.,
34Pietro Pellegrini, La chiusura degli Opg è vicina. E quella delle Rems?, QS, 03/11/2016. –https://www.quotidianosanita.it/lettere-al-direttore/articolo.php?articolo_id=44655
35Ibid.,
36Pietro Pellegrini, Salute mentale dopo gli OPG, oltre Rems e carcere, “Una riforma nel limbo e idee per il futuro”, Sossanità.org/archives/3288 (www.sossanità.it) .
37Consiglio Superiore della Magistratura, Pratica n. 521/VV/2018. Risoluzione sui Protocolli operativi in tema di misure di sicurezza psichiatriche, delibera 24 settembre 2018.
38Ibid.,
39Presidenza del Consiglio dei Ministri, Comitato Nazionale di Bioetica, Salute mentale e assistenza psichiatrica in carcere, 22 marzo 2019, p. 3.
40Ibid., p. 4.
41Massimo Cozza; Salute mentale in carcere. Quale ruolo per i DSM?, QS, 01/04/2019. – https://www.quotidianosanita.it/studi-e-analisi/articolo.php?articolo_id=72586
42Redazione QS, Detenuti nei centri di salute mentale senza indicazione clinica. Per gli psichiatri: ‘Una distorsione legislativa’, QS, 21/06/2019. – https://www.quotidianosanita.it/lavoro-e-professioni/articolo.php?articolo_id=75132 – La velata polemica di Zanalda è riferita alla Sentenza 9163/2005 delle sez. unite della Cass. Penale, nella quale i disturbi di personalità furono equiparati alle altre infermità ritenute rilevanti ai fini della valutazione dell’imputabilità.
43Ibid.,
44Mario Iannucci, Gemma Brando, Suicidi e incendi nelle carceri. C’è un nesso con il de profundis da dedicare alla psichiatria?; QS, 25/06/2019. – https://www.quotidianosanita.it/lettere-al-direttore/articolo.php?articolo_id=75217
45Massimo Cozza, Salute mentale. Il rapporto del ministero mostra un sistema ancora abbastanza solido ma la crisi è dietro l’angolo, QS, 02/07/2019. – https://www.quotidianosanita.it/studi-e-analisi/articolo.php?articolo_id=75437
46Ibid.,
47Sez. 4, n. 14766 del 04/02/2016, De Simone, Rv 266831.
48Cristiano Cupelli, “La colpa dello psichiatra. Rischi e responsabilità tra poteri impeditivi, regole cautelari e linee guida”, (2016). – http://www.ristretti.it/commenti/2016/marzo/pdf7/articolo_cupelli.pdf
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